

La produzione librettistica del Settecento fu dominata dall’incontrastata figura di Pietro Metastasio, che estrasse dagli antichi libri di storia i caratteri, che sarebbero stati adattati al suo gusto di raffinato intellettuale. Fu perciò il poeta più rappresentativo e più fortunato del Settecento italiano.
Pietro Trapassi nacque a Roma nel 1698; appena dodicenne divenne scolaro dal letterato arcadico Gian Vincenzo Gravina, il quale gli grecizzò il cognome, inducendolo presso l’istruzione classica con particolare approfondimento sulla filosofia cartesiana. Presi gli ordini minori, il Metastasio pubblicò, nel 1717, una raccolta di poesie, idilli, odi e tragedie, che dimostrarono già aspetti assai vicini alla produzione matura.


Nel 1718, morì il suo insegnante; si trasferì a Napoli, per lavorare nello studio di un avvocato. Nel 1721, compose «Gli orti esperidi», di cui Marianna Benti Bulgarelli detta la Romanina, che si era innamorata del giovane poeta, interpretò la parte protagonista. Il soprano lo condusse dal Porpora, per aggiornarlo sulle questioni teatrali, invitandolo a comporre il primo vero melodramma «La Didone abbandonata» (1724), che fu immediatamente rappresentato con successo sulla musica di non felice ispirazione di Domenico Sarro; il lavoro sarà poi musicato da 40 altri compositori. La Bulgarelli fu l’ispiratrice fino alla sua morte, avvenuta nel 1734, del giovane e valente letterato.

Nel 1720, Metastasio dedicò alla dama di corte dell’imperatrice, Marianna Pignatelli, la serenata «Endimione» e così ottenne la necessaria raccomandazione, perché la sua figura potesse essere proposta al poeta cesareo Apostolo Zeno per la sua successione. Con la nobildonna, egli strinse una relazione, che durò fino al 1755, data della scomparsa di Marianna. Alla corte viennese, fu altamente considerato dall’imperatrice Maria Teresa ed onorato come poeta universale e così, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1782, gli furono tributati solenni funerali.

Tra i maggiori lavori per melodramma troviamo «La clemenza di Tito», che fu musicato nel 1734 da Antonio Caldara; seguiranno poi molte versioni musicali (Hasse, Gluck, Jommelli, Galuppi, Traetta ed altri ancora) fino al caso di Giuseppe Arena (1839).

Il contributo di Wolfgang Amadeus Mozart si pose nel 1791, tre mesi prima della disperata morte del genio salisburghese. Malfermo di salute, indebitato, con la moglie, Costanza, provata dall’ennesima gravidanza, Mozart accettò di buon grado la commissione dell’opera da parte dell’impresario Domenico Guardasoni, in occasione dell’incoronazione di Leopoldo II d’Asburgo a Re di Boemia. Catterino Mazzolà, poeta presso la corte sassone di Dresda, fornì il libretto ampiamente rimaneggiato dall’originale del Metastasio; Franz Xavier Süssmayer fu invece incaricato da Mozart di aiutarlo nella composizione dei recitativi. La prima rappresentazione si tenne il 6 settembre a conclusione dei festeggiamenti, iniziati una settimana prima, e raccolse un gran successo presso il pubblico praghese.
La vicenda, tratta soprattutto da Svetonio, si svolge a Roma intorno all’anno 80. L’ambiziosa patrizia Vitellia riceve nei suoi appartamenti il debole Sesto, per convincerlo ad uccidere Tito, l’innamorato della sua rivale Berenice, salvo fermarlo, quando le giunge la notizia che la donna è partita per volontà imperiale. Nell’atrio del Tempio, Tito, scendendo dal Campidoglio, è acclamato dalla folla. Congeda i presenti salvo Sesto, al quale chiede la mano della sorella, Servilia, ed il suo amico Annio, che, rimasto solo, comunica alla prescelta le sue future nozze con l’imperatore. La donna paventa le sue rimostranze a Tito, mostrandosi sì convincente, che l’uomo allora giudica di sposare Annio. Vitellia, saputo della proposta di Tito di sposare Servilia, richiama Sesto, perché colpisca a morte l’imperatore attraverso Lentulo. Publio, prefetto del Pretorio, informa Vitellia che è stata designata quale sposa dall’Imperatore ed immediatamente è presa da forti sensi di colpa, per averne, per mano di Lentulo, deciso la sua morte. Il Campidoglio improvvisamente prende fuoco, così Sesto stima come momento propizio, per uccidere Tito, riportandone alla folla commossa la tragica notizia.
Secondo Atto. Publio informa Sesto che a cader ferito nell’agguato non è stato Tito ma Lentulo, il quale può confessare l’accaduto al Senato giudicante. In una sala della reggia, la folla indirizza ovazioni al ritrovato imperatore, il quale, attraverso Annio, conosce che Sesto è stato l’ideatore della sua morte. Quando il reo è portato davanti a Tito, confessa la grave colpa vergandola su foglio e poi, impietosamente, lacera l’atto della condanna. Servilia ed Annio informano Vitellia del fatto, la quale ha contezza della bontà di Sesto; quindi, al cospetto di senatori, patrizi e popolo confessa di essere la vera mandante dell’assassinio dell’imperatore, il quale assolve tutti, perché la clemenza trionfi.
La composizione della partitura contempla pienamente la schematicità dell’opera seria settecentesca nel passaggio da recitativi, pezzi cantabili, assoli ed assiemi, distribuendo i ventotto numeri musicali in base alla gerarchia dei personaggi.
La felicissima esperienza comica di Mozart si riversa nelle meraviglie formali e di carattere poetico del dramma. L’aria – centro della propulsione creativa – risulta nell’uso della moribonda «aria col da capo» di matrice puramente barocca: le due arie di Tito, la prima di Annio, quelle di Publio e Servilia, alla nascente «aria bipartita»: «S’altro che lagrime»,
cantata da Servilia, e la notissima «Se all’impero amici Dei» di Tito, in cui si prospetta un cambio di tempo (Allegro, Andantino, Allegro),
«Tu fosti tradito» di Annio.
Le rimanenti quattro Arie sono contemplate nella moderna forma a due contrastanti, già avallata da Gluck, che poi diverrà la formula dell’intero melodramma italiano ottocentesco. Interessante trovata risulta il «clarinetto obbligato», nel «Guardami e tutto oblio» di Sesto. L’apice dell’invenzione musicale, a nostro avviso, si raggiunge nel Rondò, concertante con corno di bassetto, «Non più di fiori», per la parte di Vitellia; notevolissimo l’arco vocale d’affrontare, distribuito su tre piani ispirativi: il vocale, il declamatorio ed il pianistico.
I numeri d’insieme s’uniformano alle arie; così il finale del primo atto risulta un quintetto con coro breve ed articolato, ben lontano dalla pesante struttura delle opere comiche, in cui è evidente il contrasto tra l’apparato solistico e quello vocale nella descrizione dell’incendio. I recitativi accompagnati esprimono tutta la potenza insita nella plasticità della forma, mentre l’accompagnamento delle arie e dei concertati si piega alla magniloquenza della cornice al cesello motivico.
«La clemenza di Tito» esprime, quindi, il sapere di Mozart ristretto all’interno della ormai vetusto melodramma metastasiano, in cui echi della lontana tradizione sembrano rinvigoriti dal suo sublime pensiero