Nella ricca schiera delle opere d’arte del melodramma ottocentesco, Norma raccolse, dopo un avvio stentato, acclamazioni sincere.
Richard Wagner, solitamente poco tenero con gl’«italiani», definì l’opera un capolavoro assoluto, miracolo del genio all’interno di un genere per sua natura convenzionale. Gli esaltatori frenetici invece contrapposero le forme del nostro teatro lirico al dramma musicale wagneriano, additandole come esemplari di purezza canora e genuina espressione di sentimenti, accusando il Wagner di astrattezza e pesantezza nella concezione d’insieme, riconoscendovi appena i pochi brani di intensa liricità e facile accessibilità.
Il melodramma italiano nacque dal Romanticismo, corrente rivoluzionaria, che sconvolse regimi e governi, contribuendo all’intima trasformazione degli ideali artistici, nel lento tramonto dello «stile galante» e delle relative forme, che lo accompagnavano, essendo, in fondo, manifestazioni dell’«ancien régime». Muore anche il recitativo secco, resta quello accompagnato, che raggiungerà altissime vette realizzative nella Norma e nella Lucia di Lammermoor. Termina la fruizione dell’aria col da capo, con tutti gli orpelli melodici, rimane la forma cantabile strofica, detta Aria.
Le vecchie forme dell’«ancien régime», dunque, tramonteranno nell’innesto del nuovo genere, innervato di un più intimo sentimento drammatico, in cui la transizione fu rappresentata da una parte dell’opera rossiniana. L’ideale del ritorno alla verità umana, all’assoluta interiorità d’ispirazione, che aveva ispirato i più grandi musicisti drammatici del Seicento e del Settecento, s’infransero contro le asfittiche convenzionalità, per cui il fenomeno lirico si dimostrò realmente distante dal sentimento popolare.
La sensibilità dei compositori del melodramma romantico provenne da una formazione di studi e di tradizione artistica, compiuti in ambienti assai limitati. La gloriosa Scuola napoletana non si dimostrò in grado di rinnovarsi coll’assimilazione di elementi eterogenei, rimanendo bloccata in un sicuro deposito di formule cristallizzate. Fedele Fenaroli non intese uscire dalla linee tracciate dal Francesco Durante; Nicola Zingarelli, forse d’idee più larghe, non produsse alcuna innovazione ispiratrice, cosicché la Scuola, nei migliori suoi elementi, non si dimostrò pronta a ricevere le nuove tendenze dettate dallo spirito musicale italiano, rintanandosi nella solida base d’avviamento artistico confermandosi quali freno al musicista pronto a spiccare il volo verso nuovi cieli creativi. Le menti più elevate, come Cherubini, Spontini e Rossini rimediarono per proprio conto, aprendosi alla personale assimilazione delle ultime esperienze sinfoniche straniere, specialmente tedesche, che scemò nei musicisti, che li seguirono, come in Vincenzo Bellini. A causa della forte indigenza dei musicisti italiani dell’epoca, il luminoso movimento romantico non giunse se non come lontana eco, ammannito loro in abbondanza dai raffazzonamenti dei librettisti, che ricorsero a letterature straniere, compiendo lavori assai poco apprezzabili, in cui sarebbe comunque rifulso il genio dei nostri compositori. Il nostro melodramma partecipò, quasi incoscientemente, al fenomeno romantico, aderendo spontaneamente seppur in ottica di restaurare il vero classicismo ossia l’arte concepita in intimo rapporto con le altre attività spirituali ed, in particolare modo, con la vita dei popoli. Storia si, mitologia no, più realtà idealizzata che fantasia, mentre il senso del favoloso e del leggendario, così radicato nei musicisti romantici tedeschi, non si celebrò presso la pattuglia dei compositori romantici italiani.
Il nostro romanticismo si mostrò ingenuamente, nella scelta di situazioni abbastanza assurde da porre in musica, tradotte in situazioni abbastanza logiche, purché dimostrassero qualche rudimentale spunto d’umanità.
L’amore fu il tema preferito dei melodrammi: semplice e candido seppur pieno di ardore e di fede capace finanche del sacrificio e della morte, intrecciato a motivi patriottici, spesso introdotti solo per convenienza.
Protagonista la donna sotto forma di creature soavi ed eroiche insieme, che divennero il centro dell’ispirazione musicale, seppur appena abbozzate dal librettista, si sarebbero profilate nell’eternità grazie all’intervento del compositore. Se la protagonista non è vergine, allora è peccatrice ma redenta, il cosiddetto romanticismo sentimentale: Norma, la più sublime. Felice Romani ebbe il merito di derivare da una tragedia, oggi dimenticata, di Alexandre Soumet, un libretto tra i migliori dell’epoca, al di là della versificazione all’interno di una certa prassi teatrale. Dei quattro personaggi, Norma vive di vita propria, Adalgisa risulterà alquanto evanescente, Pollione incantato ed Oroveso piuttosto passivo, così come il Coro. Norma è una figura finemente disegnata nelle gradazioni psicologiche, con tracce di Medea e di Didone, anche se moralmente più grande, serbando nel peccato la dignità di sacerdotessa. Posseduta da scatti di passione e furore, non riesce mai tradurli in vendetta, preferendo il riscatto nella pietà e nel perdono. Non riesce a colpire i figli, che dormono; proclama guerra e, per salvare Pollione, sottrae il pugnale al padre, Oroveso; accusa Adalgisa, ritorcendo l’accusa contro se stessa. Per ciò il personaggio risulta umanamente bellissimo ed adatto ad alimentare geniali ispirazioni musicali, grazie alle buone invenzioni librettistiche.
L’Ouverture è la prima scena d’opera, pur non presentando legami espressivi col dramma. Nella scena della foresta sacra, Bellini crea un ambiente di mistero e di luce lunare, in cui si adatta a meraviglia la parola profetica di Norma, annunciata dai solenni accordi del coro. Incisività e potenza condizionano il suo primo recitativo, genialmente legato alla successiva aria, Casta diva – forse la più perfetta aria dell’intero melodramma italiano – soprattutto nell’intima unità espressiva. Il compositore si rivela pienamente epico, capace di conciliare le qualità contrastanti della protagonista. Casta diva è un inno di pace, la quiete della natura notturna placa la tragica fatalità della storia.
L’apparizione di Adalgisa ci riserva un Bellini morbido, attraverso una percezione fragile e soave del personaggio, povero strumento del destino, che misteriosamente svanisce alla fine del dramma.
Le due donne parleranno lo stesso linguaggio musicale, durante il duetto, in cui Adalgisa rievoca i lusinghieri accenti di seduzione dell’amato Pollione e Norma è colpita dall’estasi della rimembranza.
La tragedia s’annuncia, sorda e minacciosa, nel recitativo tra Norma e Clotilde («Amo in un punto, ed odio i figli miei»), mentre nel Terzetto finale dell’atto primo, l’impeto drammatico risulta quasi edulcorato così da perdere anche in bellezza espressiva, restringendosi all’interno della solita forma convenzionale di chiusura d’atto.
L’inizio dell’atto secondo, di una bellezza euripidea, riconduce Norma al personaggio di Medea, seppur i suoi atti siano mitigati in pietà ed in amore materno, mentre il successivo duetto tra le due donne («Mira, o Norma») rientra nella forma convenzionale del melodramma ottocentesco.
La catastrofe si sta rapidamente avvicinando; dopo un coro di guerrieri assai interessante, la prima grande esplosione, quando Pollione comunica a Norma che non intende abbandonare Adalgisa. La sacerdotessa allora chiama a raccolta i guerrieri, perché si scatenino contro Roma («Guerra, guerra!»).
Da questo punto sino alla fine, assistiamo ad un crescendo di bellezze musicali, in cui il musicista con voli uranici esprime l’atteggiamento di assoluta elevatezza dell’eroica.
Ne «In mia man alfin tu sei», è la donna innamorata a parlare, con qualche accento straziante di sentimento materno; quindi la tragica confessione e gli atroci errori commessi, che svaniranno nella sublimità del sacrificio finale. Norma, riscossasi dal raccoglimento doloroso, pensa ai suoi figli; ella vive spiritualmente solo come madre, essendo morta l’amante e l’atteggiamento ricorda la virgiliana Didone nell’incontro con Enea agli inferi.
Col «Deh non volerli vittime», rivolto al padre, Oroveso, si tocca il culmine dell’espressione tragica, redenta dalla melodia nel modo maggiore, rappresentazione della catarsi aristotelica, la purificazione avverrà attraverso il sacrificio. Nel finale, vi è il ritorno al modo minore, inesorabile, fatale.
«Norma» è forse la opera più completa di Bellini, la più felice nell’intero corso ispirativo, la più alta per la perfetta espressività tragica e per i tesori di bellezze armoniche, di cui è cosparsa, mentre «La Sonnambula», che presenta pagine d’incantato ed estasiato lirismo, registra anche una certa discontinuità musicale. Ne «I Puritani» evidenti sono le tracce di una certa fluidità drammaturgica, pur non presentando i vertici espressive delle altre due.
«Norma» si rivela anche la più perfetta tragedia musicale italiana, intrisa di un carattere umano così profondamente sviscerato ed idealizzato, nella graduale considerazione verso la catastrofe finale.