“Tu dovresti amarmi sempre sempre e con infinita tenerezza”. Gabriele D’Annunzio a Elvira Leoni

La lettera è stata pubblicata sul sito www.libreriamo.it.

Gabriele D’Annunzio e la pianista Elvira Leoni s’incontrarono casualmente a Roma il 2 aprile 1887, di fronte ad una libreria in Via del Babuino. La donna era di fatto separata dal marito, il conte Ercoli, mentre Gabriele era già padre di due figli, avuti da Maria Hardouin di Gallese, che aveva tradito con la giornalista napoletana, Olga Assani. I due futuri amanti si recarono allo stesso concerto, dove il pittore Guido Boggiani, presente tra il pubblico ed amico d’entrambi, li avrebbe presentati. Il loro potente amore produsse una corrispondenza di circa mille lettere scritte in cinque anni di passione, che Benedetto Croce considererà «il più meraviglioso epistolario d’amore» e che ispirerà gran parte del più importante romanzo di Gabriele: «Il piacere».

Elvira era stata costretta dal padre, Nicola, a contrarre matrimonio, nel 1886 – un anno prima del fatale incontro – col conte bolognese, Ercole, ricco del titolo anche se, in realtà, sprovvisto di denaro ed ancor meno di raffinatezza ed educazione. Elvira rimase fin da subito colpita da una malattia venerea, trasmessa dall’incauto marito, che le avrebbe provocato l’irrevocabile decisione di abbandonare il tetto coniugale, al fine di rifugiarsi sotto quello paterno.

Il 4 aprile Gabriele ed Elvira si scambiarono il primo bacio ed il poeta si gettò immediatamente con tutto l’ardore, di cui era capace, nella relazione, travolgendo Elvira con la più sfrenata sensualità, cui la donna non seppe resistere, ma, al contrario, da vittima inconsapevole si sarebbe trasformata in fiera interprete delle fantasie del Vate. Elvira aveva lo stesso nome dell’amata sorella del Poeta, cosicché, per non evocare un ambito incestuoso, la ribattezzò Barbara, come barbaro sarebbe stato il modo d’amare, senza freni né inibizioni, al di là delle convenzioni e dei pudori, nello studio dell’amico pittore, che li aveva presentati e poi nel monolocale di Gabriele in Via Borgognona. Nell’estate del 1887, i genitori di Elvira – Barbara, al fine di distrarla da quell’insano amore, la recarono a Rimini, provocando un delirio depressivo in Gabriele, che spesso cadeva in irrefrenabili crisi di pianto, rincuorato sollecitamente dal poeta e letterato Adolfo De Bosis, il quale organizzerà una crociera lungo l’Adriatico, meta finale Venezia, con la partecipazione del Poeta, che avrebbe così rivisto la sua bella. Il 13 agosto, D’Annunzio portò la moglie, Maria, incinta di otto mesi, a Pescara presso la sua famiglia, quindi raggiunse il De Bosis ad Ancona, per imbarcarsi alla volta di Venezia, dove Elvira, finalmente lontana dalla guardia feroce dei genitori, avrebbe potuto abbracciare, per sole 24 ore di disperata voluttuosa felicità carnale, il D’Annunzio. Il Poeta saprà come colmare l’assenza della sua Bella, consolandosi poi con una donna, di cui rimarrà anonimo il nome.

Dopo la nascita del terzogenito, Gabriele si trasferì a Palazzo Martinori in Via del Tritone 201 (Roma), continuando la sensuale tresca con Elvira.

Il 15 novembre 1892, il Poeta scrisse a Barbara la lettera d’addio del loro grande amore:

«Ti sarò gratissimo se vorrai rimandarmi tutte le mie lettere, invece di bruciarle. Compi con pazienza questo atto estremo; e fa che mi giungano intatte. Le rileggerò spesso; e ricorderò con inconsolabile rimpianto, sempre, fino alla morte. Un amore come il nostro può bastare a tutta una vita, anche estinto. Tu sei giovine. Amerai ancora: ma, se puoi, ama senza abbassarti. Io proseguo nella mia corsa cieca e vertiginosa, verso chissà qual precipizio».

Barbara Leoni uscirà distrutta da quell’amore e dal ricordo di quella passione di lacrime ed inchiostro.

“Il mio dolore è così grande che da ieri io vivo quasi incosciente delle cose della vita, chiuso in me, col pensiero, col desiderio acuto e incessante del tuo amore. Quando io ti lasciai jeri, mi si velarono gli occhi. Mi parve d’esser per cadere. L’angoscia mia cresceva ogni ora piú. Andavo per le vie, mentre la sera scendeva, portando miseramente la mia gran tristezza in mezzo alla gente. Mi avvicinai due o tre volte alla tua casa. Mi si affacciavano alla mente i pensieri piú strani e i propositi più folli. Verso le dieci incontrai gli amici che mi trassero con loro, al solito luogo, da Morteo, dove ti ho veduta per tante sere e dove ho bevuto l’amore dai tuoi occhi lungamente. Avevo la gola così serrata e così riarsa che non m’era possibile profferire una sola parola. Quegli ultimi trentacinque minuti, prima dell’ora precisa della tua partenza, furono atroci. Io non ti so dire come soffrivo, Barbara. Tu partivi, tu partivi, senza ch’io ti potessi vedere, coprirti di baci la faccia, ripeterti ancora un’ultima volta con la voce soffocata: «Ricordati! Ricordati!

Oh amica mia, tu dovresti amarmi sempre sempre e con infinita tenerezza, soltanto per ricompensarmi di quei momenti supremi di spasimo non mai provati!

Rientrai a casa, come pazzo. Ti vedevo, ti vedevo chiaramente, nel vagone, seduta, alla luce della lampada, tutta triste, fra il romore monotono del treno che fuggiva. Sentii suonare tutte le ore, all’orologio della Trinità dei Monti. Ti seguii, nel viaggio, con tale intensità di pensiero e di morte e di angoscia che tu certamente avrai dovuto provare nel fondo dell’anima tua un turbamento misterioso. Non ho mai chiuso gli occhi. Mi son alzato stamani e, dopo molti e terribili sforzi di volontà, mi son messo a scrivere l’articolo che ti avevo detto. Scrivevo, invece d’una prosa per un giornale, una lettera di passione! Ho strappato i fogli; e poi ho scritta meccanicamente una cosa volgare. Non la leggere.

Leggimi invece nel pensiero. Io mai mai t’ho amata come ora e mai ho amata cosí nessun’altra donna, mai, mai. Tutta Roma oggi mi par vuota, deserta, maliconica come un cimitero. Sono qui, a casa, da molte ore; rimarrò qui tutta la sera, tutta la notte, con te, con l’imagine tua, con i ricordi, e con i dubbi tremendi da cui dispero di guarire, e con le lacrime.

Tu che fai? Tu che pensi? Tu dove sei? Tu sei lontana, fra la gente che ti ammira e ti circonda, innanzi al mare, e forse tu sei già serena e forse hai già riacquistato il sorriso, quel sorriso che io amo e che io veggo raggiarmi nello spirito inestinguibilmente.

Addio, addio. Amami, amami. Tutti i moti dell’animo tuo, tutti tutti i tuoi pensieri e i sogni sieno per me, tutti tutti tutti.

Non ti scrivo piú oltre. Io non so quel che ti dico. È quasi sera, la stanza è piena d’ombra, la casa è silenziosa. Un’onda di amarezza mi sale dal profondo cuore. Darei non so che cosa per perdere la coscienza dell’essere, per non sentire, per non pensare, per non soffrire cosí. È troppo, amica mia.

Che fai? Che fai in questo momento? Che fai? Per saperlo, darei la metà del mio sangue.

RICORDATI! Addio, addio.”

 Gabriele D’annunzio

Roma, 31 luglio ’87

La lettera fu scritta in occasione della partenza forzata di Elvira per il luogo di villeggiatura di Rimini, dove i genitori l’avevano introdotta, al fine di distrarla da quel folle, insano, invincibile amore.

«Il mio dolore è così grande che da ieri io vivo quasi incosciente delle cose della vita, chiuso in me, col pensiero, col desiderio acuto e incessante del tuo amore».

L’inizio è straziante; il dolore troppo spesso si accompagna con l’amore, questa passione, questo impeto, questa energia misteriosa, di cui l’uomo è preda, vittima di un assurdo ed omicida desiderio. L’uomo conosce lo strazio, che reca l’amore e pure è in cerca d’amore, perennemente assetato d’amore. Perché? E spesso il dolore si pone come barriera tra l’uomo e la realtà, ecco perché il Poeta vive «quasi incosciente delle cose della vita», che continua a scorrere, ma la vittima d’amore vede separata da sé, lontanamente abbandonato alle passioni tracimatrici della sua carne, che si riversano nella sua testa, oscurandone la capacità di pensare e quindi, attraverso il pensiero, liberarsi del male, costituito dall’amore, che vuole tutto per sé e così costringe il Poeta ad essere vittima e schiavo di un unico e solo pensiero: la partenza di Barbara.

«Quando io ti lasciai jeri, mi si velarono gli occhi. Mi parve d’esser per cadere. L’angoscia mia cresceva ogni ora più».

L’abbandono è dolore ed il dolore esprime la sua carnale violenza attraverso lacrime, che velano gli occhi del Poeta, cosicché possa, attraverso il pianto – lacrime – acqua – passione, purificarsi, rigenerarsi, pronto ad essere, ancora una volta, colpito implacabilmente dall’assassino oscuro, che chiamiamo amore. A causa del pianto, frutto di quell’implacabile dolore, Gabriele teme di cadere a causa dell’«angoscia», che cresceva sempre più. L’amore, infatti, non si contenta solo di provocare un sensibilissimo dolore in chi ama, ma sembra si diverta nel conficcare un chiodo nel corpo innamorato, penetrando sempre più nella carne insanguinata.

«Andavo per le vie, mentre la sera scendeva, portando miseramente la mia gran tristezza in mezzo alla gente».

Quando è notte, diventiamo più fragili e sensibili all’implacabilità degli affetti e così il Poeta cerca riparo in strada, poiché anche la stanza gli appare come un’oscura prigione, rinchiuso dal feroce assassino, che ostinatamente chiamiamo amore. Il vagabondare tra gli uomini non ingiunge sollievo al Poeta, che invece sente appiccicare la sua tremenda malinconia a chi passa; egli, contagiato dall’amore, diviene egli stesso il contagio per il prossimo, al fine forse di dividerne il peso del dolore.

«Mi avvicinai due o tre volte alla tua casa. Mi si affacciavano alla mente i pensieri più strani e i propositi più folli».

Il lungo peregrinare non è affatto folle e senza meta, perché il terribile assassino ci chiama, ci implora di continuare a conficcare quel maledetto chiodo e così conduce il Poeta a casa della sua amata, che non donerà sollievo alla sua mente affannata, al contrario: lo spingerà quasi sulla soglia del suicidio, al fine di liberarsi di quella dolorosa, meravigliosa ossessione.

«Verso le dieci incontrai gli amici che mi trassero con loro, al solito luogo, da Morteo, dove ti ho veduta per tante sere e dove ho bevuto l’amore dai tuoi occhi lungamente. Avevo la gola così serrata e così riarsa che non m’era possibile profferire una sola parola».

Alle ore 22, Gabriele incontra degli amici, di cui censura il nome e con cui si accompagna al Caffè Morteo, che si trovava in Largo Chigi, vicino al luogo di quel fatale incontro, di fronte alla vetrina di una libreria: amore e letteratura, realtà e sogni, seduzione e fantasia. Proprio in quel bar, innumerevoli incontri con Barbara, dai cui occhi beveva amore! Bere l’amore; una descrizione fisica dell’amore stesso, degli occhi dell’innamorata. Di lei, nota l’assenza, che gli secca la gola e, non avendo più i suoi occhi quale fonte dissetante, non può parlare, essendo la parola suono ed essendo il suono prodotto nella gola, laddove vi è sabbia.

«Quegli ultimi trentacinque minuti, prima dell’ora precisa della tua partenza, furono atroci. Io non ti so dire come soffrivo, Barbara».

Il Poeta, nonostante sia in compagnia degli amici, non riesce a staccare il ricordo da quei trentacinque minuti, in cui poté ancora ammirarla, attendendo magari con passassero mai, che potesse chiedere a Chronos di agitare la sua falce e miracolosamente fermare l’attimo, perché la partenza non avvenisse. In quei minuti ardenti, il Poeta non seppe trovar parola, per illustrarle la sua sofferenza, un sentimento interiore inspiegabile, ma palpabile, palpitante, vivo, che brucia come il fuoco, ma un fuoco interiore senza fiamma, solo cenere di un ricordo che vuole sedersi comodo in fondo all’anima.

«Tu partivi, tu partivi, senza ch’io ti potessi vedere, coprirti di baci la faccia, ripeterti ancora un’ultima volta con la voce soffocata: «Ricordati! Ricordati!»

Quando Barbara è portata via dal treno, Gabriele teme che i suoi ricordi rimangano sulla banchina ed allora l’esclamazione del Poeta di non dimenticare, anche quei ricordi, che probabilmente causeranno dolore, ma sono attimi di vita vissuti, condivisi, segnati dalle reciproche sensibilità, trascorsi a morire di baci, incollando le proprie labbra alle sue in un bacio infinito. Ecco, proprio quel bacio infinito, spera che la sua amata lo custodisca nello scrigno dei suoi ricordi più segreti.

«Oh amica mia, tu dovresti amarmi sempre sempre e con infinita tenerezza, soltanto per ricompensarmi di quei momenti supremi di spasimo non mai provati!»

Il Poeta chiede un amore completo, che nulla escluda, perché l’amore è totale per chi lo vive e così ricorda quanto sia stata importante, durante gl’incontri d’amore, la tenerezza, fino a chiederne il ricordo e come riscatto di « quei momenti supremi di spasimo non mai provati!». Ecco la totalità dell’amore: infrangere ogni barriera morale, razionale al desiderio sfrenato di possedersi, di «insemprarsi», di «ineternarsi» nella congiunzione di due corpi, che sono uno ed irrimediabilmente uno per sempre, perché ciò che è avvenuto nel corpo è avvenuto anche nello spirito, che vive nell’eterno ed allora quell’unione è eterna, anche dopo la sua fine temporale.

«Rientrai a casa, come pazzo. Ti vedevo, ti vedevo chiaramente, nel vagone, seduta, alla luce della lampada, tutta triste, fra il romore monotono del treno che fuggiva».

Lasciati gli amici alle loro follie ed ai loro discorsi inutili, Gabriele torna nella solitudine, che vive l’uomo innamorato e che vive lontano dall’amata e così, mentre un passo dopo l’altro sente tutta la pesantezza dello spirito, che s’è trasferita nel corpo da renderlo quasi ingestibile, trova nell’immaginazione una possibile evasione. Lei è con i suoi genitori nello scompartimento, i quali cercano vanamente di tener discorso, mentre la figlia è persa dietro alle illusioni, il volto appena rischiarato dalla luce, nel buio del vagone, che sembra tanto buio quanto la dimora del suo segreto amore. Gabriele così la immagina: in quegl’occhi, da cui tanto amore ha bevuto, vi è uno sguardo vuoto, fisso in un punto, dolorosamente rassegnato.

«Sentii suonare tutte le ore, all’orologio della Trinità dei Monti».

Egli si trova in Piazza di Spagna, talché ascolta il rintoccare delle ore dal campanile della Chiesa della Trinità; è sempre più vicino il luogo del loro primo incontro: Via del Babuino.

« Ti seguii, nel viaggio, con tale intensità di pensiero e di morte e di angoscia che tu certamente avrai dovuto provare nel fondo dell’anima tua un turbamento misterioso».

Il pensiero di lei investe totalmente Gabriele, cosicché crea una magica energia, che, superando le barriere fisiche, si materializza nel fondo dell’anima di Barbara. E’ così forte il pensiero, che nulla sembra ostacolare quel dialogo segreto e senza parole, che lega ancora i due amanti lontani ma misteriosamente dialoganti.

« Non ho mai chiuso gli occhi».

L’amore toglie anche il desiderio di dormire a chi ha il corpo dilaniato dal dolore; quel sonno che potrebbe giungere come una salutare pausa dopo tanto tribolare, è rifiutato: il misterioso assassino sembra dire: «Soffri! Continua a soffrire per amore!»

«Mi son alzato stamani e, dopo molti e terribili sforzi di volontà, mi son messo a scrivere l’articolo che ti avevo detto».

Dopo una notte passata insonne a sentire il silenzio dell’oscurità, il Poeta deve rispettare i suoi impegni di letterato de La Tribuna, cui dovrà in giornata fornire un articolo.

«Scrivevo, invece d’una prosa per un giornale, una lettera di passione! Ho strappato i fogli; e poi ho scritta meccanicamente una cosa volgare. Non la leggere».

Si accorge, quasi subito, che sta scrivendo qualcosa che ricorda lei, la sua passione, il ricordo forse di quei muti momenti, di quegli attimi senza tregua, quello sforzo inaudito, per giungere alla piena soddisfazione del corpo e dello spirito, tanto da strappare l’elaborato, che non può essere pubblicato e si dedica – finalmente – a raccontar di cose prosaiche; tutto è prosaico di fronte al racconto dell’amore.

«Leggimi invece nel pensiero».

Ha pensato, forse solo per un attimo, che avrebbe dovuto conservare lo scritto su lei, anziché strapparlo e allora la invita a leggere nel pensiero del Poeta.

«Io mai mai t’ho amata come ora e mai ho amata così nessun’altra donna, mai, mai. Tutta Roma oggi mi par vuota, deserta, malinconica come un cimitero».

La frase, che ogni uomo ha ripetuto alla sua bella: «mai ho amata così nessun’altra donna, mai, mai», nulla di più falsamente vero, perché ogni donna è un nuovo amore, più importante del precedente ed ogni volta si ama in modo diverso, più intensamente e con emozioni totalmente nuove ed irripetibili, alle quali, spesso, rimaniamo saldamente attaccate, anche quando si stanno miseramente sbriciolando. E’ la potenza dell’amore, che ogni volta si rinnova nel cuore e nell’anima degli amanti felici. Neanche Roma con la sua maestosa bellezza, la storia dei suoi monumenti riesce a riempire il vuoto, che il Poeta sente dentro di sé.

«Sono qui, a casa, da molte ore; rimarrò qui tutta la sera, tutta la notte, con te, con l’imagine tua, con i ricordi, e con i dubbi tremendi da cui dispero di guarire, e con le lacrime».

La sera Gabriele non uscirà, preferirà restar in compagnia dell’immagine della sua bella, piuttosto che dividere gli stati d’animo con il gruppo dei soliti amici, che, in questo momento, disturberebbero la sua interiorità inquieta. Meglio con l’immagine della propria donna tutta la notte, piuttosto che a sentir sguaiataggini, ridicolaggini raccontate solo per tenerlo, vanamente, su con il morale. L’amante è preda di dubbi: tornerà? Sarà cambiata? Avrà lo stesso desiderio? L’amore si accompagna all’angoscia, si diverte a tenere in angoscia gli amanti, che temono, non essendo loro gli artefici di cotanta passione, che improvvisamente tutto cessi e quella meravigliosa droga non possa più invadere lacerante il proprio corpo.

«Tu che fai? Tu che pensi? Tu dove sei?»

Le solite domande, che ogni innamorato si darà rivolto tante volte, senza mai trovar alcuna risposta: Barbara è in treno? Penserà davvero a me? Sarà arrivata in quel di Rimini?

«Tu sei lontana, fra la gente che ti ammira e ti circonda, innanzi al mare, e forse tu sei già serena e forse hai già riacquistato il sorriso, quel sorriso che io amo e che io veggo raggiarmi nello spirito inestinguibilmente».

Prima o poi scenderà in spiaggia per i bagni, circondata da occhi discreti ed indiscreti, che l’ammireranno e forse gli sguardi maschili indugeranno sovente a quelle forme calde e morbide, che sono state preda di dita infuocate di passione, che avrebbero desiderato penetrarvi, per lasciare un’impronta indelebile, colla quale comunicare: «E’ mia! E’ solo mia!». Forse lei, rincuorata anche da quegli sguardi, finalmente avrà trovato un tranquillo sollievo a quello spasmo, che stringe lo stomaco ed avrà regalato sorrisi ai presenti, quei sorrisi che sono raggi di sole, tra le nuvole del pessimismo, per l’anima che ama.

«Addio, addio. Amami, amami. Tutti i moti dell’animo tuo, tutti tutti i tuoi pensieri e i sogni sieno per me, tutti tutti tutti».

La fatica del ricordo affanna la penna del Poeta, che sta per congedarsi da quel foglio, che ha raccolto le sue angosce. Desidererebbe che ogni gesto sia il gesto per l’amato, ogni sorriso sia in verità a lui rivolto, in ogni pensiero vi sia solo spazio per lui, che ama, che desidera, che soffre.

«Non ti scrivo più oltre. Io non so quel che ti dico. È quasi sera, la stanza è piena d’ombra, la casa è silenziosa».

Le luci del giorno stanno calando, perché la notte sveli il colore delle stelle lontane; la casa è avvolta nel silenzio e una fioca luce tenerella sembra penetrare tra la stoffa delle tende. Il Poeta vive la sua interiorità buia, nell’esteriorità della sua stanza; sembra così disturbato dalle luci del giorno, che preferisce il lunare albore.

«Un’onda di amarezza mi sale dal profondo cuore. Darei non so che cosa per perdere la coscienza dell’essere, per non sentire, per non pensare, per non soffrire così. È troppo, amica mia.».

Ancora il tempo, per confessarle come dentro la sua anima l’onda dell’amarezza lo sconquassi, lo rintristisca, lo renda vanamente solo, lontano da tutti. Essendo troppo il dolore, vorrebbe perdere ogni consapevolezza, vorrebbe finalmente smettere il ruolo di arbitro delle sue emozioni, «per non sentire, per non pensare, per non soffrire così».

«Che fai? Che fai in questo momento? Che fai? Per saperlo, darei la metà del mio sangue».

Egli smette di scrivere, anela forse al riposo, ma l’ultimo pensiero deve essere per lei. Cosa farà? Starà nella stanza d’albergo, seduta sul letto, le spalle pensose, il viso rivolto verso il pavimento, per cogliere meglio il vuoto, che le riempie l’anima?

«Per saperlo, darei la metà del mio sangue».

https://libreriamo.it/storie/la-lettera-damore-di-gabriele-dannunzio-a-elvira-leoni/

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