Frammenti di musicalità dannunziana

«Veggo visi attentissimi di musici che danno il delicato orecchio al minimo intervallo di suono, alla minima ondulazione dell’aria sonante.

M’appariscono di un’estrema esiguità, con qualcosa di graziosamente animale che mi fa pensare ai furetti alle donnole agli ermellini.

Si trasfigurano.

Ora sono come belli angeli consumati dalla passione dei cieli. Questa loro bellezza sembra fatta di nervi sensibili che sieno fissi a un giogo interno e tesi da dentro sino al limite dello spezzamento1».

Da queste poche frasi, si denuncia il carattere della musicalità dannunziana, laddove le parole si risolvono in un alone fonico, dove il concetto muta in puro modo musicale.

«… come belli angeli consumati dalla passione dei cieli».

La purezza delle cose si rivela alla purezza dello spirito, diventando passione del cielo, vibrando nell’ultrasensibile causato dallo smaterializzarsi della musica.

Oh sagliente nell’aria

La nutri, semplice nuda e sola,

come nel tempio la colonna parla,

la melodia che vince ogni parola!2

Al fine d’intendere il mondo musicale dannunziano nella sua interezza, dovremmo considerare che la parola debba suscitare l’immagine secondo lo spirito impressionista.

Come nel tempio la colonna parla.

produce un mondo sonoro e melodico. Laddove la musicalità vince la potenza verbale di ogni parola.

Con tale concetto, riusciremmo a spiegare, perché nell’intendimento del D’Annunzio, Giuseppe Verdi sembri adunare a sé l’universalità dantesca, il pensiero di Leonardo e la grandiosità del Buonarroti:

E Leonardo: «Innanzi ebb’io la nuda

faccia del Mondo immensa,

come quella dell’Uom che a dentro incisi.

Creai la luce in Cristo su la mensa

e creai l’ombra in Giuda.

Dell’infinito feci i miei sorrisi.

Poi, nel vespro, m’assisi,

calmo alla sommità della saggezza

ed ascoltai la musica solenne.

Per quali vie convenne

meco quest’aspra forza a tale altezza?

Come questa vecchiezza

semplice e sola attinse

il culmine ove regna il mio pensiero?

Fratello m’è chi vinse

il suo fato e tentò novo sentiero3.

La musica è la sintesi di tutto l’umano quale visione paradisiaca, filosofia, rapporto tra il pensiero astratto e l’azione. Dal vertice della sapienza, Leonardo si asside, per ascoltare la musica solenne del pensiero, il «limen», oltre il quale l’umano si transuma nel divino.

Più volte s’è parlato dell’eclettismo dannunziano, della sua capacità mimetica e della sua potenza e prepotenza assimilatrice, attraverso l’immersione nell’ambiente tale da subirne quasi una trasformazione, come nella seguente fantasia musicale, dove poesia e prosa coesistono formalmente seppur dissolte nell’impulso lirico, levitate, rarefatte, trasfuse in un’ineffabilità, che circonda le parole con un alone mistico e mitico.

Lo zoppo dai piedi di piombo

s’attarda nel passo discorde.

E la danzatrice

Intorno gli danza

Penosa nel calle del mondo

l’impronta va dietro l’impronta.

E la danzatrice

Intorno gli danza

il tonfo s’alterna col tonfo

sul suolo sonoro di tombe.

E la danzatrice

intorno gli danza4.

La triplice architettura delle tre strofe è mirabile: tre arcate vivificate dal tenue discorso della prosa purificate dalla pura armoniosità e dal rigore prospettico, che conclude ogni periodo.

Quasi invisibile la chiara simmetria, legge dominante della composizione; ogni strofa inizia con un’immagine triste seppur melodiosa, poi l’identico ritornello la rianima, per risolverla in una luminosità musicale senza confini e senza tramonti. Dopo la cadenza lenta dei due novenari, la strofa riprende un ritmo incalzante nella sua leggerezza, dichiarandosi suono e luce, come nella vibrazione dei corpi fisici. Inspiegabile l’intima compenetrazione fra i valori espressivi e musicali, il cui tono è mantenuto ad un livello costante, oltre il quale il suono ascende alla luce o piuttosto la luce diviene suono.

D’Annunzio conosceva effettivamente la musica o ne conservava un ricordo dilettantesco, come solitamente avviene per i letterati anche insigni? Certamente dimostrò conoscenza molto più colta dei suoi colleghi letterati, uscendo dal solito abusatissimo limite del melodramma e quando D’Annunzio descrive un violino o un violoncello, dimostra l’abilità dello scrittore con l’animo di un perfetto liutaio.

«Il grande liutaio è mago. Nella scelta dei legni non può illuminarlo se non la magia. Perché un Testore sceglie l’alberaccio soffice che s’imbeve subito di suono, e il suono gli circola dentro continuo come una linfa arida? E perché invece un Guarnieri del Gesù non da grande importanza alla scelta, sentendosi capace di mutare qualunque legno con la sua influenza misteriosa? Ecco un vero poeta occulto. Non lavora se non per ispirazione. Ti taglia nella faccia del violino due esse imperiose, due effe prepotenti; e la faccia vive, esprime, favella,è impaziente di cantare5».

Con spontaneità è raggiunta la fusione tra sensibilità ed erudizione, trovando l’arte nell’elenco da studio.

«In questa mia opera, come in talune altre mie opere, la musica inclusa e segreta ha qualche analogia con la gemmazione dell’albero nell’imminenza della primavera. Urge la musica in ogni sillaba come in ogni gemma il turbamento dell’ima radice6».

D’Annunzio si qualifica quale miglior critico di se stesso, rivelando l’essenza del suo problema musicale: la parola non potrà fissare, come la musica attraverso le note sul pentagramma. La musicalità dannunziana si muove per accenni ed accordi, travestiti dall’aspetto sonoro, dell’accostamento dei concetti presi nell’aspetto sonoro. Ogni parola è sempre considerata nell’emanazione, che esprime: l’acqua non è più un liquido, trasmuta in suono prodotto cadendo e movendosi.

«La tramutazione delle parole è una vera operazione di alchimia. Non v’è convenienza tra il linguaggio ben chiamato itinerario da Ugo Foscolo e questa non divina né umana materia d’arte, che non ha eguali in tutte le materie del mondo se non forse in alcuni concenti della Musica7».

E più oltre:

«O mia penna, aggiustata in una delle sette canne della fistola di Pan disciolta dal lino e dalla cera, dislegata e sparsa! E credo averle provate tutt’e sette, nella mia arte notturna di scrivere, con tutte le generazioni di suoni originate dalle sette e sette e sette7»

(1) G. D’ANNUNZIO. Notturno. “Seconda offerta”. Presso i Fratelli Treves in Milano, 1921, p. 260

(2) G. D’ANNUNZIO. Elettra.  Lavdi del cielo del mare della terra e degli eroi, libro secondo. “Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini”, vv. 69 – 72. Il Vittoriale degli italiani, 1941 XIX.

(3) G. D’ANNUNZIO. Elettra, Lavdi del cielo del mare della terra e degli eroi, libro secondo. “Per la morte di Giuseppe Verdi”, vv. 97 – 112. Il Vittoriale degli italiani,1941 XIX.

(4) G. D’ANNUNZIO. Notturno. “Seconda offerta”. Presso i Fratelli Treves in Milano, 1921, p. 249 – 250.

(5) G. D’ANNUNZIO. Notturno. “Terza offerta”. Presso i Fratelli Treves in Milano, 1921, p. 431 – 432.

(6) G. D’ANNUNZIO. Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire. Istituto nazionale per la edizione di Tutte le opere di Gabriele D’Annunzio, Arnoldo Mondadori, 1935, p. 356.

(7) Ibidem, p. 286.

(8) Ibidem, p. 357.

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