Giacomo Puccini scrisse un’interessante lettera, indirizzata al critico del «Corriere della sera», in cui espresse opinioni assai convincenti sul ruolo dell’interprete. Questo contributo alla descrizione della personalità del compositore lucchese fu pubblicato (purtroppo senza indicazione della data) sul numero 100 del 1924 della «Rivista nazionale di musica»
Il critico musicale del giornale milanese accuserebbe Puccini di aver ritoccato l’orchestrazione del Secondo e Quarto atto della sua «Manon Lescaut», «né mancano alcuni altri di essere evidenti già nel primo atto».
Il compositore ammette di aver apportato «qualche lieve modificazione di colorito», osservando che «la partitura stampata da Ricordi può fare fede che lo strumentale dell’opera non è stato da me rifatto». Secondo l’avviso del Lucchese, i nuovi colori sarebbero opera della diligente direzione del Maestro Toscanini, che, oltretutto, l’aveva tenuta a battesimo al Teatro Regio di Torino circa trent’anni prima.
Credo sia estremamente interessante notare come Puccini indichi l’operazione del Toscanini nell’aver illuminato «la musica di quelle luci che nel momento della composizione [il compositore] aveva visto e sognato e che poi non aveva veduto più». Mi sembra assai chiaro il ruolo assegnato all’interprete dall’approccio estetico del compositore: egli, essendo il tramite tra la musica scritta e quella eseguita, l’Hermes testimone del passaggio attraverso il suono dal puro stato di contemplazione alla stato operativo, avrebbe la capacità intrinseca, attraverso la propria sensibilità, di rendere luminosa (o al contrario oscura) la scrittura musicale, tratto e vestigia dell’ispirazione.
Quindi l’Autore della Manon elenca le cause – secondo la sua prospettiva -, che provocherebbero «esecuzioni indecenti» soprattutto per le opere ormai considerate «di repertorio».
«Una prova d’orchestra, nessuna di messa in scena e via con tutta la zavorra delle deturpazioni, degli abusi che cattive abitudini di direttori e cantanti hanno a poco a poco incrostata attorno all’opera».
Un catalogo assai interessante e soprattutto una frustata assai violenta sulle abitudini di certo modo di far teatro. Il cosiddetto «repertorio» è generalmente formato da opere, che sono entrate nel cuore del pubblico, la cui esecuzione è sempre accolta con vivo compiacimento. I teatri quindi tendono a riproporre dette opere, certificando sicuri guadagni. Eseguire più volte la stessa musica, spesso induce gli esecutori ad una minor attenzione nel risvolto esecutivo, poiché la musica ormai è «entrata nella dita e nelle voci», sicché non servirà porre molta attenzione. E’, purtroppo, un atteggiamento insano ed assai pericoloso, perché ci si affida al «ricordo», alla «memoria», invitando così il cervello ad abbassare il livello di criticità. Allora, l’esecuzione inizia a «sporcarsi», poiché non sempre ciò che sarà suonato corrisponderà effettivamente a ciò che è stato scritto, in quanto – come abbiamo detto in precedenza – ci si affida alla fallace «memoria esecutiva». Anche la mancanza di tempo, il costo delle prove indurrebbero la Direzione del teatro a rattrappire i giorni dedicati alla «lettura», «tanto, avendola già suonata, la sanno» ed, a poco a poco, inizieranno ad affiorare i primi scostamenti ritmici, poi quelli agogici, conformando così una nuova veste interpretativa, non più derivante dalla lettura quanto più corretta della partitura, ma dal ricordo mnemonico degl’esecutori. A questo cattivo gioco, parteciperanno anche i primi e più importanti interpreti: i cantanti, che saranno costretti – dovendo «far presto» – ad una visione superficiale del proprio personaggio, che abbandonerà le profondità psicologiche – la cui ricerca richiede tanto tempo «a casa» e con i colleghi in palcoscenico – e lo spettacolo sarò sempre più lontano dalla primitiva idea dell’unico creatore: il compositore.
Puccini lancia un mirabolante peana alla figura del Maestro Toscanini, che grazie «a quella fede e quell’amore che si accendono al fuoco della sua meravigliosa arte, da di mano allo scalpello e toglie vie quelle brutture e riporta l’opera allo stato naturale rivelando al pubblico le vere intenzioni dell’autore».
Da certificata documentazione storica, sembra che il Toscanini pretendesse molte prove, al fine – come indica il Puccini – di togliere le «brutture». E’ accertata la funzione storica del Maestro, che riuscì nell’intento di ripristinare la dignità e la corretta esecuzione nel teatro, che, alla fine dell’800, aveva toccato imi fondali. L’esecuzioni erano in mano di cantanti bizzosi e capricciosi, che consideravano l’opera lo strumento, per dimostrare le proprie capacità al di fuori di ogni considerazione per il compositore. I direttori agivano in supino ossequio al voler dei divi canori, proponendo esecuzioni spesso monche d’intere scene, a dispetto della logica e della trama. L’impeto toscaniniano si abbatté come uno sconquassante tuono sulla moda della sua epoca, stabilendo le attuali regole comportamentali e professionali nell’esecuzione musicale. Quindi, grazie alla lettura attenta delle esigenze compositive «l’opera vecchia appare al pubblico nuova e il pubblico dice: è un’altra: no, è semplicemente quella, animata dal più grande animatore che l’arte musicale vanti».
Puccini ormai è in stato di adorazione totale per il suo idolo, unico – a suo dire – capace di vantare una forza catartica rigenerante ogni palpito ispirativo.
Puccini illustra brevemente la cronaca della serata: la Scala fremé per la capacità del Maestro di donare luce fulgida e sfolgorante all’esecuzione della Manon, tantoché il compositore, in un gesto di grande affetto, fu «spinto ad abbracciare il nostro Toscanini» come segno di riconoscenza «di un artista verso un altro artista che era riuscito a rendere la Scala un vero tempio di consacrazioni e riconsacrazioni artistiche». Non aggiungeremmo ulteriori commenti.
Il Puccini assicura che il lavoro, che si svolge nel massimo teatro lirico milanese, non abbia eguali; il Toscanini non ha solo il merito di contribuire a realizzare veri miracoli d’esecuzione, ma anche quello di saper essere un valido organizzatore, avendo creato «un’istituzione che è orgoglio dell’arte italiana, tanto più che tutto quello che vi si fa, è oramai per suo volere opera di artisti italiani».
Puncto valde.
Oggi gli artisti italiani, che si dedicano con successo all’arte lirica, sono in numero sempre minore, a causa della mancanza d’organizzazione del settore artistico, in cui l’Italia era la guida sicura nel mondo.
La greca Maria Callas ebbe la fortuna di studiare sotto la guida del Maestro Tullio Serafin, a cui deve la sua splendida carriera; fu istruita nell’arte scenica da Luchino Visconti e poi Franco Zeffirelli.
L’Italia ormai ha perso il primato di conoscenza, di insegnamento, di realizzazione, forse anche a causa di una classe politica distratta, che non ha saputo o voluto cogliere l’importante messaggio umanistico, che riveste l’arte teatrale e – almeno per il momento – non si prevedono (purtroppo) cambi di rotta.
Quindi, Puccini esprime il suo giudizio a proposito della messa in scena delle sue opere, dedicando la preferenza a favore di Giovacchino Forzano, che anche «Toscanini lo vide al lavoro e da quel conoscitore di uomini che è volle affidargli quest’anno la direzione della messa in scena».
Dopo aver benedetto il ritorno nel massimo teatro milanese di Caramba, torna, ancora una volta, all’artefice – a suo dire – dei bei risultati in campo artistico. «Questo nucleo di energie guidato e animato da Toscanini da i risultati per i quali, come avvenne ieri sera, Manon appare un’opera nuova, tanto che anche a me pareva di avere trent’anni di meno»
L’opera lirica, stupendo elisir di gioventù!