Bramante a Roma

A seguito del precipitare della situazione di Ludovico il Moro nella Seconda guerra d’Italia, il Bramante, nel 1499, si trasferì a Roma, dove, conosciuto da alcuni amici, riferisce il Vasari «gli fu dato a dipignere a S. Giovanni Laterano, sopra la porta Santa che s’apre per il Giubbileo, un’arme di Papa Alessandro VI lavorata in fresco, con angeli e figure che la sostengono».

Dinanzi alle vestigia gloriose, raccontò al cardinale Oliviero Carafa, patrono delle arti, il sogno di una Roma nuova e ricevette l’incarico di realizzare il chiostro dei Frati della Pace, dove avrebbe ideato una stupenda invenzione architettonica, proiettandolo nel cielo della fama.

Una delle prime opere romane è il tempietto di S. Pietro in Montorio sul Gianicolo, gioiello architettonico perfettamente incastonato nel Cinquecento, poiché l’artista si dichiarò finalmente libero da ogni condizionamento ed influsso dei maestri toscani del ‘400. L’edicola è ispirata al tempio di Vesta e da quello della Sibilla, racchiudente l’idea musicale, che l’artista celebrerà poi nella concezione grandiosa della Basilica vaticana. Secondo il disegno dell’artista, il tempietto sarebbe dovuto sorgere in mezzo ad un ampio recinto circolare porticato, con colonne isolate, con quattro ingressi e quattro cappellette agli angoli divisi da una nicchia. Egli manifestò immediatamente la preoccupazione per i monumenti vicini, che rientrassero in un unico ordine, come il colonnato di S. Pietro, che sarebbe dovuto apparire come un’irradiazione architettonica dell’intera Basilica, anziché subordinarne l’effetto a quello della piazza, secondo le definitive intenzioni del Bernini. Egli lavorò fondendo e rinnovando gli elementi classici, come nella concezione del grandioso tempio vaticano, in cui immaginò congiunte due supreme espressioni dell’architettura romana: la sala delle Terme e delle Basiliche e la cupola del Pantheon. Mirabili creazione furono i cortili di  S. Damaso e del Belvedere, uno dei magnifici ingegnosi e superbi, come rilevò il Francesco Milizia, storico dell’arte:

«Ei divisò un cortile lungo 400 passi con una nicchia in fondo sì grande che apparisse anche maestosa dall’altra parte del cortile e situò essa nicchia in mezzo a due palazzetti compagni. Ma perché questo cortile rimaneva mezzo in basso (era prima quel sito una valletta) e il rimanente in costa, per salire alla detta nicchia ed ai due palazzetti, ridusse la predetta costa in un piano altro quanto il piede di essi palazzetti; onde il cortile per due terzi circa, rimaneva in un piano più basso, e il resto in un piano alquanto più alto. Per ascendere a questo piano superiore fece una scala doppia a più rivolte, nobilissima, con una bella nicchia e fonte fra le rampe, adornando il dintorno della scala lateralmente a guisa di teatro con venti colonne di granito fino, d’ordine dorico. Restava il cortile nobilitato da quella interruzione, la quale insieme con la diversità dei piani toglieva l’odiosità della gran lunghezza di troppo eccedente la sua larghezza. I portici intorno al cortile furono fatti di pilastri d’ordine dorico, ad imitazione del teatro di Marcello, l’unico monumento antico rimasto in Roma di quest’ordine. Sopra è un secondo ordine ionico assai sodo con finestre. Nella testata di sì gran cortile, che rimane attaccata al palazzo sotto l’appartamento Borgia, Bramante fece una grande scalinata semicircolare a foggia d’anfiteatro, dove potesse gran numero di gente stare a vedere gli spettacoli che li dentro si facevano».

Giulio II ordinò al Bramante di rimodellare l’edilizia di Roma, fin da Via Giulia, dove sarebbero dovuti sorgere gli uffici e le Curie cittadine. Eresse delle fontane in Piazza S. Pietro ed in Trastevere, dove la bellezza fosse precipuamente rappresentata dall’acqua. Costruendo il cortile della Cancelleria e della chiesa di S. Lorenzo in Damaso, preparò febbrilmente i disegni, affidandone la realizzazione a dei giovani artisti, tra cui Raffaello, che li rievocherà idealmente nella Scuola di Atene, dove attorno alla figura di Archimede – Bramante, chino col compasso sopra una lavagna posata in terra, propone un problema di geometria a degli allievi attenti ed ansiosi, che seguono la mano possente del maestro.

Il Bramante ravvisò in Raffaello l’ideale continuatore del suo spirito architettonico, che poi travasò in Michelangelo, così come rilevato dal Breve di Leone X diretto a Raffaello:

«Oltre l’arte della pittura, nella quale tutto il mondo sa che siete eccellente, anche siete stato riputato tale dall’architetto Bramante in genere di fabbricare; sì che egli giustamente reputò nel morire che a voi si poteva addossare la fabbrica da lui incominciata qui in Roma del tempio del Principe degli Apostoli».

Pur dichiarandosi un seguace degli stilemi bramanteschi, Michelangelo, padre dell’arte barocca seicentesca, rivelò un’arte notturna, penosamente combattuta dal dubbio interno, tempestosa come la sua anima, così invasa da un dolore quasi eroico e mistico, tipico dell’uomo moderno, mentre il Bramante ed il Raffaello si rivelano uomini, in cui vivono gli spiriti e le idee del Rinascimento. L’Urbinate discende dagl’insegnamenti del Bramante, laddove sia chiamato a comporre le Stanze nelle Logge Vaticane, dove la pittura vivrebbe più intimamente congiunta alla pittura.

Gli ultimi anni di Raffaello sembrano pervasi da un sogno immenso di trasfigurazione dell’edilizia dell’urbe, che solo la morte poté spezzare, così come accadde per il suo maestro. A Michelangelo, la storia riservò la gloria di coronare il Tempio vaticano con la sua cupola, che seppe alzare nel cielo chiara, schietta e luminosa, come la prima pietra della Basilica posata dal Bramante.

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