Dal 1840 al 1847, la Gazzetta di Augsburg incaricò Heinrich Heine di curare la critica musicale. L’amicizia con Meyerbeer e Liszt furono propedeutiche al nuovo incarico, perché avevano ingentilito il gusto musicale ed acuito l’intuito, misto ad una sottile linea ironica, cui neanche Gioachino Rossini era sfuggito:
«La musica di Rossini è l’eco sincera de’ miei dolori e delle mie gioie; amore e odio, gelosia e rabbia; in essa si ripercuotono tutte le passioni, tutti gli affetti, tutti i desideri di un’anima solitaria onde il predominio della melodia che è sempre stata l’espressione dell’io isolato».
Dell’amico Gustave Meyerbeer, sentenziò:
«Nelle sue opere prevale la parte armonica e nell’onda di quel fiume pulsante di giovinezza le melodie guizzano e fuggono in alto e lontano; simili ai sentimenti del compositore esse obbediscono alle comuni tendenze del popolo».
L’arte del Meyerbeer gli apparve più vera, più umana, perché sentiva la trasformazione vicina, preparata dai passati rivolgimenti politici, dalle angosce inenarrabili del genere umano e dei suoi ideali artistici, ammirandone la grandezza dell’epopea di speranze nella maestà delle forme elleniche, della Rivoluzione francese.
«Alla Rivoluzione si devono attribuire tutti le angosce dell’illustre maestro. Durante le prove, egli terrorizza gli artisti ed i cantanti, sfinendoli a furia d’interminabili ripetizioni, perché mai pago. Ogni stonatura gli lacera il cuore e rimane sempre traccia d’insoddisfazione anche quando il pubblico si scatena in entusiastiche acclamazioni. Le sue opere, a differenza di Mozart e Rossini, appagano già alla prima rappresentazione, degnandosi critiche assai positive della stampa».
Heine fu altresì amico di Franz Liszt, il pianista audace, fremente, impetuoso, che unì nella critica ad Hector Berlioz.
«L’ingegno di Berlioz è tagliato al fantastico non per intima inclinazione di sentimento ma perché si compiace d’idealismi sentimentali e tende alla maniera del Callot, del Gozzi, dell’Hoffmann e crea il piccolo pezzo accarezzando inaureandolo, eternizzandolo. Quanto a Liszt, non vi dico nulla della sua fama; l’Europa tutta la conosce. Egli è di carattere freddo, si, ma nobile, buono, sincero. Io gli voglio bene: pure la sua musica, come quella di Berlioz, non mi è simpatica, non armonizza con i miei gusti particolari. Io sono ebreo e vedo quei fantasmi dei quali gli altri odono solo la voce. Voi sapete difatti che nel mio cervello si disegnano nettamente le immagini dei suoni, e che la musica è visibile agli occhi del mio spirito. Del resto, tutt’e due sono le figure più spiccate della nostra repubblica musicale, dico le più spiccate e non le più perfette e serene».
Di Franz Liszt più particolarmente scrisse:
«Lo udii lo scorso inverno nel concerto a favore del’infelici italiani. Non rammento che cosa suonasse; ma giurerei che variasse quale tema dell’apocalissi. Di primo tratto non mi apparvero ben definiti i quattro mistici animali: ne udivo lontan lontano gli urli selvaggi, speicalmente il ruggito del leone e lo stridio dell’aquila. Vedevo nettamente il bue col suo sacro libro. Poi si dischiuse a’ miei sguardi la valle di Josafat, immensa e circolare come il campo d’un torneo, e intorno all’orribile pianura si stipava infinita moltitudine di popolo. E ciascuno aveva il pallore della tomba sul volto e tremava in ogni suo membro. Ed ecco Satana avanzarsi in quel feroce tumulto; ultimo comparve Cristo, splendido nel fulgore dell’armatura dorata e del palaffreno negro come la pece: inchidò al suolo con la lancia divina prima Satana, poscia la Morte e il popolo giubilava…»
Anche Fryderyk Chopin fu giudicato più da poeta che da musicista.
«Chopin è non solo squisito esecutore di musica, ma benanco contrappuntista finissimo. Egli è profondamente grande. Le genti colte, le quali vogliono ingentilirsi, lo ammirano con fervore d’affetto. La sua fama è aristocratica e respira un mite profumo di lodi eleganti come la sua figura. Quand’egli suona non è né polacco, né francese, né tedesco; la sua patria è la patria di Mozart, di Goethe, di Raffaello; è la terra promessa dei miraggi e della poesia! E ogni volta che io lo ascolto raccogliere sul pianoforte i sogni errabondi del suo cervello mi pare di udire qualche vecchio amico del mio paese che mi visiti e mi racconti strane storie ivi avvenute durante la mia assenza. E a volte mi assale un vago desiderio d’interromperlo e di domandargli: come stanno le belle Ondine con gli argentei veli scherzosi sovra i riccioli di spiga? Amano sempre il canuto dio delle acque, il dio della barba bianca? E le rose dischiudono ancora le vaghe corolle di viva porpora? Gli alberi cantano ancora antiche leggende nelle blande notti lunari?»
Dell’autore della Nona Sinfonia, scrisse:
«La musica di Beethoven tende alla soave agonia del mondo fantastico, all’annichilimento della natura e del senso: essa mi mette nella schiena i brividi del terrore. I miei amici scuotono la testa e sorridono, ma io afferro il possente significato della sordità che fu il suo calvario, quando la musica non era per lui se non l’amaro, straziante incubo di altri tempi».
Ed ecco gli ultimi giudizi critici di Heine, meno approfonditi e più sfuggenti: dell’Halévy e del poeta Delavigne:
«Questi due artisti si rassomigliano per vari aspetti, tutti e due non hanno soverchia originalità: sono invece seguaci non ultimi di ottime cuore».
E dell’Auber:
«All’Opéra Comique si diede La parte del diavolo, libretto dello Scribe, musica dell’Auber; poeta e musicista hanno virutù e difetti uguali: grazia, spirito, famtasia. Peccato che l’uno non sia poeta e l’altro musicista!»
Terminata l’esperienza di critico musicale, l’Heine non si occupò di questioni musicale, se non nel 1847, illustrando le condizioni precarie di Gaetano Donizetti:
«La malattia di Donizetti si aggrava di giorno in giorno, e le ultime notizie sono dolorosissime. Mentre le di lui romanze deliziano il mondo intero e il di lui nome vola ben alto sull’ali della fama, il poveretto muore pazzo in un ospedale qui vicino all’orgiante Parigi! Fino a pochi giorni addietro egli si affannava attorno alle cure della persona come un fanciullo e, vestito di gala, con il petto coperto di medaglie, col cappello fra le mani, sedeva immobile, da mattina a sera, senza muovere gli occhi e senza dire una parola, una sola. Ahimè! Adesso tutto è finito; la sua ragione è spenta; egli più non riconosce anima viva».
Un anno dopo, Donizetti spirava, seguito, nel 1868, da Rossini; un’epoca gloriosa per l’arte italiana si era chiusa e l’astro di Verdi sorgeva all’orizzonte.