E’ forse uno dei Dialoghi più famosi di Platone, dedicato al processo, che vide imputato il suo maestro, Socrate.
«Io non so quale sia, o cittadini ateniesi, l’impressione che avete provato nel sentire i miei accusatori».
Inizia con questa perorazione dell’imputato uno dei processi più celebri della storia dell’umanità; Socrate si complimenta con i suoi accusatori, bravi e convincenti nell’elencare le menzogne scagliate contro il Filosofo, accusato di essere un ottimo oratore, di cui diffidare. Egli parla direttamente al pubblico, cui confesserà la verità.
Cos’è la verità? Può l’uomo nella sua finitezza ed imperfezione raccontare cosa sia davvero la verità, oppure – e spesso anche in buona fede – sarà bravo narratore di ciò che presume sia il vero? E cosa intendiamo per vero?
Socrate confessa, alla bell’età di settant’anni, di dover giustificare la sua attività: indagare, secondo l’arringa di Meleto, « sulle cose celesti ricercare su tutte le cose che stanno sotto terra, e rendere più forte il ragionamento più debole».
Se il filosofo scoprisse che «sulle cose celesti» forse si potrebbe avviare una discussione, arrivando persino a minacciare la non esistenza degli dei, il potere religioso si sentirebbe minato nelle fondamenta; qualora riuscisse a rafforzare attraverso l’uso della ragione il pensiero della minoranza, allora il potere politico si sentirebbe minacciato.
Egli insegna ai giovani senza pretendere alcun compenso, al contrario di altri sedicenti maestri, addirittura capaci anche di pagare le persone, perché ascoltino le loro lezioni. Allora perché tutto questo baccano, queste dicerie attorno alla sua scuola? Semplicemente – afferma il Filosofo – perché egli possiederebbe una certa sapienza: di quale genere? Umana; alla cui testimonianza invocherà il dio di Delfi.
Sappiamo che nella città della Focide, molti cittadini greci si recavano, onde interrogare le Pizie, che, attraverso discorsi enigmatici, sciolti da alcuni sacerdoti, avrebbero parlato per conto del dio Apollo.
L’amico e filosofo Cherefonte, come tanti altri suoi compatrioti, si recò a Delfi, al fine di chiedere all’oracolo se vi fosse sulla terra un uomo più sapiente di Socrate. La Pizia rispose che non vi fosse alcuno; Cherefonte, allora, gli riferì l’enigma, che lo trasse nello sconforto.
Cosa avrebbe voluto indicare il dio?
Socrate allora si recò presso un politico, ritenuto sapiente, il quale ebbe a dimostrare tutta la sua inaffidabilità, nonostante la convinzione di sapere, al contrario Socrate era certo di non sapere.
(Difficile che un politico sia un sapiente; come si sarà sbagliato Socrate?)
Allora, il filosofo si rivolse ad un secondo ritenuto sapiente, ma non cambiò il responso e così i nemici salirono a due.
A questo punto, pensò di rivolgersi a dei poeti, a dei compositori di tragedie e ditirambi, cui avrebbe sottoposto l’analisi dei lavori, scoprendo che ebbero a seguire più l’istinto naturale che la sapienza nella scrittura delle loro opere. Arrivò il turno degli artigiani, che dimostrarono di sapere ciò che Socrate ignorava, ed in virtù di ciò ritenevano di essere sapienti in tutto. Socrate rimase ancora incatenato nel dubbio: non conosceva l’arte degli intervistati e, allo stesso momento, ignorava ciò ch’essi ignoravano.
Forse Socrate vorrebbe indicarci che non dobbiamo cercar fuori la risposta a ciò che ci viene da dentro?
Siccome la permalosità è un male, che accomuna tutti gli uomini fin dall’antichità, si formò un’invisibile lega per il comportamento ed il giudizio poco rispettoso di Socrate nei riguardi degli intervistati. Il Filosofo fu considerato un superbo sapiente, mentre ripeteva il responso della Pizia: «Socrate è sapiente, perché si è reso conto che, per quanto riguarda la sua sapienza, non vale nulla» e ciò quindi sarebbe stato il motivo, per indagare, ricercare; per cui chi sa di non sapere, è l’unico che sa. Il metodo, adottato dal Filosofo, affascinò tanti giovani, che iniziarono ad imitarlo, provocando delle difficoltà agl’interrogati, i quali si sarebbero adirati con Socrate, accusato addirittura di corrompere i giovani.
E’ lo scontro generazionale, che tormenta la nostra stupida umanità. Non vi è spazio per i giovani, perché possano esprimere le loro idee (ammesso che ne abbiano) e così la tensione è continua tra colui che ha vissuto e colui che si affaccia per la prima volta nella società. Quando un giovane metterà in difficoltà un anziano, da quest’ultimo penso sia «illecito» aspettarsi cattive parole all’indirizzo del vincitore. Brutta davvero l’umanità.
L’accusa specifica contro Socrate quale sarebbe? Non esiste, perché egli non insegna nulla ai giovani, ma li invita a condurre delle ricerche continue, mentre le accuse sarebbero inerenti all’ateismo ed a provare di rinforzare le cause deboli, tutto qui.
Egli chiama allora i suoi accusatori: Meleto per i poeti, Anito per gli artisti e politici, Licone per gli oratori; il gruppo è davvero nutrito, povero Socrate.
Meleto accusa il filosofo di sostituire gli antichi deità con dei nuovi. Chiamato a rispondere l’accusatore su ciò che renderebbe migliori i giovani, egli, dopo una brutta esitazione, risponde: «Le leggi», che dovranno essere conosciute anzitempo dai giudici. Quindi, i giudici renderanno migliori i giovani; ed, aggiunge Socrate, anche i consiglieri dei giudici eserciteranno il medesimo buon ufficio.
Gli ecclesiasti, che compongono l’ecclesia corromperebbero i giovani? Per Meleto, è impossibile; a parte Socrate, tutti gli uomini contribuirebbero al miglioramento dei giovani.
Socrate allora espone uno strano parallelismo: come i giovani sarebbero corrotti dal solo Socrate; anche i cavalli potrebbero essere rovinati da un solo uomo? Meleto reagisce affermando che i cavalli saranno resi migliori da un solo o da pochi uomini, poiché non molti sarebbero gl’intenditori, mentre la maggior parte provocherebbero solo guai.
A questo punto, Socrate chiede all’interrogato se sia preferibile vivere tra le buone persone anziché tra le cattive. Meleto si dichiara convinto che le cattive persone compiano atti ostili verso il prossimo, mentre le buone persone agiscano con amore verso gli altri. Quindi, si cercherà sempre di star vicino ai buoni per paura di ricevere cattive azioni. Se Socrate deliberatamente agisse per il male, contaminerebbe chi gli è vicino, il quale, a sua volta, ritrasmetterebbe il male ricevuto, quindi l’accusa di corrompere i giovani deliberatamente, verrebbe a cadere.
(La presunzione, che brutta malattia!)
Socrate passa ad un altro capo d’accusa; egli vuol capire meglio se sia accusato d’imporre una nuova religione composta da nuovi dei o piuttosto non credere alle deità, ritenute tali dai cittadini ateniesi. Meleto lo accusa di ateismo, che cade nel momento in cui Socrate gli ricorda di essere semplicemente un convinto e tenace sostenitore delle tesi religiose di Anassagora.
Quindi Socrate commenta la morte, a cui potrebbe essere condannato:
«In effetti, nessuno sa che cosa sia la morte e se essa non si trovi ad essere per l’uomo il maggiore di tutti i beni; e invece gli uomini ne hanno paura, come se sapessero bene che essa è il più grande dei mali».
In poche parole, ecco sintetizzato il grande enigma. Le religioni sono sorte – a nostro avviso – al fine di offrire una spiegazione al grande trapasso, che – sin dai tempi di Socrate – era ritenuto il salto nell’impossibile verso una condizione peggiore di questa vita. Sono riuscite nell’arduo compito? Credo che ci vorrà ancora del tempo.
«E questa non è forse ignoranza, e anzi la più riprovevole, l’essere convinti di sapere le cose che invece non si sanno?»
Così conclude, l’Ateniese; ed il suo monito pensiamo sia ancora valido per l’uomo moderno, perché la spiegazione non è legata all’evento, alla temporalità, ma, stabilito che il tempo non esiste, si pone come valore archetipale nel tentativo di giustificare tale fatto. Lascia comunque aperta la porta ancora al dubbio, affermando:
«non sapendo a sufficienza per quanto concerne le cose dell’Ade, sono anche convinto di non saperle».
Il Filosofo invita i cittadini a non preoccuparsi troppo dei beni materiali, per porre l’attenzione al mondo dello spirito, unica condizione per un reale miglioramento dell’uomo.
Quanto siamo oggi lontani dal suo ammonimento, immersi nella società del consumo, che tende a spostare l’attenzione dell’uomo al possedimento dei beni materiali, dalla cui accumulazione nascerebbe la felicità. Non siamo affatto convinti – al contrario – che il pauperismo sia il bene dell’uomo; disprezziamo invece vivere solo per contare il numero degli oggetti presenti nelle nostre dimore, spesso vuote di uomini.
Il Filosofo ha sempre incontrato i suoi giovani seguaci senza ricevere alcun compenso, tantoché i suoi accusatori non hanno prodotto nomi di testimoni ed il suo insegnamento si è svolto solo in ambito privato, essendosi rifiutato di partecipare all’attività politica.
Egli rammenta che nel 406 (a. C.) fu sorteggiato quale giudice rappresentante democratico del Consiglio dei Cinquecento, che intentò un processo contro degli ammiragli, rei di non aver offerto soccorso a dei naufraghi, seppur al termine di uno scontro vittorioso. Il Filosofo si schierò contro il Governo – rischiando la vita – che avrebbe desiderato condannare collegialmente il gruppo dirigenziale navale anziché singolarmente, come prescritto dalla legge.
Socrate rivendica come ogni suo atto sia stato sempre intentato per amore della giustizia a disprezzo della morte. Egli non ha mai svolto opera di proselitismo; non si è sottratto alla richiesta di chi desiderasse ascoltare i suoi insegnamenti, «giovane o vecchio che fosse». Non ha professato alcuna dottrina, non ha fornito insegnamenti e chiama a testimoni i diversi ragazzi presenti.
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Socrate accoglie il verdetto di condanna a morte: colpevole. Ed ora cosa accadrà? Perché al posto della pena capitale, non potrebbe pagare una multa oppure, in ultima istanza, terminare i suoi giorni in esilio? Non avendo mai chiesto compenso per l’attività pubblica, non sarà in grado di pagare alcuna multa; in esilio attirerebbe dei giovani, curiosi ed interessati ad ascoltarlo e quindi potrebbe essere accusato nuovamente di corruzione. La condanna a morte cadrebbe per intero sui cittadini per volontà di Zeus, rei di aver tolto la vita ad un uomo sapiente. E così sarà.
Quindi Socrate si rivolge a coloro che hanno votato per l’innocenza, invitandoli a non lasciarlo solo e discorrendo, condurlo alla morte. Quindi il Filosofo tenta un’interpretazione spirituale dell’evento finale: «una migrazione dell’anima da questo luogo, che è quaggiù, ad altro luogo. Se la morte come un sonno che si ha quando nel dormire non si vede più nulla neppure in sogno, allora la morte sarebbe un guadagno meraviglioso».
Migrare, andar lontano, da un capo all’altro di un luogo inconoscibile, fin quando l’anima risiede nel corpo, dove incontrare Omero, Orfeo, Odisseo, coi quali poter discutere, ragionare: la gioia suprema per il Filosofo, che gradirebbe più volte morire. La morte potrebbe essere anche un lungo sonno ed in effetti, quando dormiamo, spegniamo ogni accesso alla realtà circostante, dimentichiamo ogni preoccupazione, cadiamo in uno stato, dove cessano i rumori della vita. Allora, il morire, in entrambe le interpretazioni, può essere la miglior soluzione possibile per l’uomo giusto, quale Socrate si contesta.
«Ma è ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio».