Il cardinale Agostino Chigi si rivelò l’ingegno più abile ed acuto nel mondo degli affari ed il più generoso mecenate di letterati e di artisti, che vivesse in Roma fuori della Corte pontificia all’inizio del XVI secolo. Nacque a Siena nel 1465 e si trasferì nella Città eterna nel 1485, meritandosi presto l’aggettivo di Magnifico per la straordinaria attenzione riservata alle arti.
Il nipote, Fabio Chigi, che, eletto al soglio assumerà il nome di Alessandro VII, scrisse nella sua biografia, che lo zio ignorasse esattamente l’ammontare del suo capitale e l’estensione delle terre possedute, seppur si mostrasse vestito sobriamente e fosse nei modi cortese e gentile con tutti. Avrebbe dedicato la massima attenzione all’arredamento dell’abitazione, trasformata in un museo grazie ai quadri dei più rinomati artisti, con cui arredava le ampie pareti; s’interessava agli studi storici e si dilettava di poesia, musica e numismatica. Quando spostò la sua abitazione da S. Giovanni dei Fiorentini presso la Porta Settimiana, Giulio II Della Rovere volle esaminare il progetto, perché non superasse in splendore la costruenda villa dei Riario, con cui il Chigi era in evidente competizione. La sua vita s’intersecò straordinariamente con quella della Chiesa, regnanti e condottieri: Cesare Borgia non avrebbe sottomesso la Romagna senza i prestiti di Don Agostino.
Quando Sebastiano del Piombo giunse a Roma nel 1511, Giulio II ed il cardinal Chigi erano i dioscuri romani, presso cui si svolgeva tutta l’intensissima vita artistica, caratterizzata dai più grandi ingegni dell’arte. Don Agostino si sarebbe distinto dal Pontefice, offrendo sicura protezione agli umanisti, categoria non partecipe delle azioni petrine, e che offrirà importanti indicazioni per gli affreschi della Farnesina, grande espressione della rinascenza in Roma. Don Agostino stimava che l’opera di mecenate delle arti avrebbe consegnato il suo nome alla storia, per cui legò il suo nome a Raffaello, al Sodoma, a Sebastiano del Piombo, al Lorenzetto ed a tanti altri. Michelangelo fu l’unico artista, che non si pose alle dipendenze del Cardinale, essendo tra i preferiti del Pontefice; ciò avrebbe evitato il possibile incontro – scontro con Raffaello, artista gradito sommamente dal Chigi.
La costruzione della villa del Cardinale in Trastevere sembra fosse già a buon punto nel 1509, come sappiamo da un diarista dell’epoca; nel 1511, si conclusero i lavori e l’anno appresso le bellezze sarebbero state decantate da alcuni umanisti.
Baldassarre Peruzzi ricevette l’incarico di decorare la volta della loggia colle storie di Perseo e Medusa; ed i timpani delle lunette coi dodici segni dello Zodiaco, mentre Sebastiano si sarebbe dedicato a dipingere le lunette della loggia stessa, ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, da cui il Cardinale scelse i seguenti episodi: Tereo che insegue Filomela e Progne, le figlie di Crecope, che guardano dentro la cesta di vimini affidata loro da Pallade; la caduta di Icaro; Giunone sul carro tirato dai pavoni; Scilla che taglia i purpurei capelli a Niso dormiente; la caduta di Fetonte; Borea che rapisce Oritia; Flora che riceve il soffio di Zeffiro. Il Vasari scrisse che Sebastiano «vi fece alcune poesie di quella maniera ch’aveva recato da Vinegia, molto disforme da quella che usavano in Roma i valenti pittori di quei tempi1».
Tereo insegue Filomela e Progne. Progne, sorella di Filomela e figlia di Pandione re dell’Attica, si era congiunta in matrimonio con Tereo, re della Tracia, seduttore della cognata. Le due sorelle alleate, per colpire il re fedifrago, decidono di compiere un infanticidio, servendo poi le carni al padre – re e fuggire.
Inseguite da Tereo colla scure, pregarono gli Dei, affinché le tramutassero in uccelli e così avvenne che l’omicida Progna si trasformò in rondine, Filomela in usignolo mentre Tereo in upupa.
La favola si concluse con Filomela piangente in un bosco e Progne tornata a nidiare nella reggia.
Sebastiano scelse l’attimo precedente, in cui i tre tragici protagonisti si sarebbero trasformati in uccelli. Il re, Tereo, che indossa un abito rosso vinato, è descritto nel profilo destro, mentre brandisce una verga, colla quale vuole scagliarsi contro la moglie, Progne, e la cognata, Filomela, che sono di fronte. Una delle due donne, che ha indosso una veste verde ed un ampio mantello giallo, con grandi rigonfiamenti nelle maniche bianche della camicia, ripara la testa col braccio, mentre presenta la figura di profilo verso lo spettatore. Dell’altra figura, è prefigurata solo la testa, sulla quale vola un piccolo uccello. Le bellissime forme delle due donne, entrambe bionde, richiamano lo stile delle cortigiane di Palma il Vecchio.
Le figlie di Cecreope guardano dentro la cesta di vimini affidata loro da Pallade. Nel secondo libro delle Metamorfosi, Ovidio narra della cattura di Pallade e la prigione dentro una cesta del mostro Erittonio, figlio di Efesto, che fu consegnata alle figlie di Cecrope, re d’Atene, colla proibizione di aprire la gerla. La terza ed ultima sorella disattese l’ordine e così vide un essere dal volto umano e col piede di serpente.
Al centro della composizione, sullo sfondo di un cielo azzurro appena solcato da alcune nuvole sparse, è seduta di profilo a destra una delle sorelle in veste gialla, ricoperta da un ampio mantello verde; accanto, spostata in dietro, l’altra sorella, che indossa un corsetto giallo ed un grande mantello rosso; entrambe hanno le maniche ampie bianche ed i capelli biondissimi. Sono concentrate nell’atto di alzare furtivamente il coperchio della cesta di vimini, mentre due grossi uccelli volano attorno alle figure e sarebbe stato un corvo ad avvertire Pallade dell’avvenuta contravvenzione all’ordine.
La caduta di Icaro. Nell’VIII libro delle Metamorfosi, Ovidio narra di Dedalo, che, desideroso di tornare a Creta, fabbricò delle ali per sé e per il figlio Icaro, avvisato che non s’avvicinasse troppo al sole. L’impunito figlio disattese l’ordine e così
E cade, e chiama il padre, e ‘l mar l’asconde.
Dedalo è posto in basso di schiena colle ali aperte, mentre si rivolge al figlio meravigliato, che sta piombando dall’alto, a precipizio, mentre i frantumi delle ali disperdono nel vento. Le figure sono rappresentate nude; a parte il terrorizzato Icaro, che indossa sul ventre un panno leggero svolazzante bianco a strisce azzurre.
Giunone guida per l’aria il carro tirato dai pavone. Iris, che descrive scendendo l’arcobaleno, è espresso nel I e nel XIV delle Metamorfosi, mentre nel II libro, il pavone attende a servire la Dea su un carro lucente.
Sebastiano ha rappresentato Giunone, bionda e sul capo una ghirlanda di fiori seduta di profilo a destra sul carro, tirato da due pavoni, sullo sfondo dell’arcobaleno disegnato nel cielo. La dea indossa un mantello bianco, appuntato sopra la spalla sinistra, mentre la destra è denudata, scoprendo il seno. Impugna una verga sottile.
Scilla taglia gli aurei capelli a Niso dormiente. Nell’VIII libro delle Metamorfosi, è raccontata la favola di Niso, re di Megara, dalla chioma purpurea e fatale, e fonte di sicurezza dagli attacchi del re di Creta, di cui era perdutamente innamorata la figlia, Scilla, che avrebbe reciso la capigliatura al padre dormiente, per porre nelle mani del re nemico ed amato la terra dei suoi avi.
Niso ha il viso incorniciato da una lunga barba bianca, giace addormentato coperto da un gran mantello verde ed una tunica azzurra, con la testa reclinata sul braccio ripiegato sopra il cuscino. Scilla è colta nell’atto di tagliare i capelli del genitore, servendosi di due grandi forbici. Sulla scena dominano due corvi neri contro lo sfondo del cielo azzurro.
La caduta di Fetonte. Il figlio di Elio, spinto dall’ambizione, chiese al padre di poter condurre, per un solo giorno, il carro del sole; nonostante il rifiuto, Fetonte salì sull’egregio dono di Vulcano, ma, essendo inesperto della guida, precipitò sulla terra arsa, mentre il carro si frantumava in aria.
Sebastiano si concentrò sulla caduta, prefigurando il corpo seminudo del giovane, coperto sulle pudenda da un panno bianco a strisce azzurre, mentre stringe un mantello verde svolazzante con la mano destra e la sinistra alla testa in atto disperato. Due pernici sembrano vegliare sulla precipitosa caduta.
Borea che rapisce Oritia. Borea, re della Tracia, s’innamorò di Oritia, figlia di Eritteo, re di Atene, il quale, non concedendo la mano della fanciulla, causa il rapimento dell’amante, che presto diventerà madre di diversi figli. Oritia, avvolta in ampio mantello verde, è stretta a Borea, che batte nell’arie le sue poderose ali.
Flora che riceve il soffio di Zeffiro. Flora è seduta in terra, col braccio sinistro al seno ed il destro sul ventre, in profilo di sinistra; indossa una veste gialla con un grande mantello viola scuro. Una nuvola di fumo bianco le esce dalla bocca, come da quella si Zeffiro, di cui è rappresentata solo la testa di profilo, in alto, dinanzi alla dea.
Pur essendo il racconto mitologico da sprone alla fantasia dell’autore, il lavoro non soddisfece pienamente il cardinal Chigi, perché Sebastiano non fu, in genere, d’indole favorevole al mito; inoltre lo spazio, in cui descrivere il complesso carattere delle Metamorfosi, era piuttosto esiguo.
Nella pittura della prima lunetta, si coglie la piacevolezza del colorito, seppur il braccio di Tereo risulti mal disegnato; i corpi delle due sorelle sembrano confondersi.
Nella seconda lunetta, i nudi dei protagonisti risentono della tirannia dello spazio, tantoché Dedalo sembrerebbe seduto sulla lunetta.
Giunone, nella quarta lunetta, risulterebbe poco nobile, per essere una dea, ed il carro non splenderebbe così come nella descrizione di Ovidio.
Nel centro della sala, al quinta lunetta è la più riuscita nella bella figura di Scilla; il colorito è più forte, il disegno più robusto che nelle altre storie.
Nella caduta di Fetonte, riluce lo studio di Sebastiano sul corpo nudo del figlio di Elio.
La figura di Flora risulterebbe troppo grossolana nelle forme e nella pesantezza del suo colorito.
Sebastiano dovette, con difficoltà, armonizzarsi col lavoro precedente del Peruzzi, il quale, estraendo le sue forme dal Sodoma e dal Pinturicchio, era riuscito ad adattarla coll’antico, donando una veste classica, offrendo un effetto decorativo assai maggiore, poiché basato sopra i canoni di un più severo rigore architettonico. Sebastiano importò la sua natura veneziana, adattandola ad un sistema di proporzione del tutto differente dal Peruzzi, presentandoci, tuttavia, l’eleganza delle linee, la vaghezza del colorito, configurando una vesta affatto indegna delle nobili creazione di Baldassarre Peruzzi.
(1) VASARI, Le Vite, Vita di Sebastian Viniziando frate Del Piombo e pittore, volume V pg. 862 e seg., Letteratura Einaudi, Torino 1986.