Lo scrittore il 28 settembre 1786, arrivò a Venezia.
Annotò come la gondola fosse il mezzo «per trasportare più sollecitamente i passeggeri che han fretta» e ricordò, quando bambino, fosse stato felice di giocare con un modellino di gondola, di proprietà del padre, così, grazie a questi ricordi giovanili «sentii una gioia che, da gran tempo non avevo più provata». Preso alloggio presso l’albergo Regina d’Inghilterra, «poco lontano dalla piazza di S. Marco», rammentò che avrebbe protratto la permanenza «finché non sarò sazio di contemplare il quadro che presenta questa città» e Venezia è un bellissimo museo senza mura né soffitti. Quindi, gli si affacciarono dei pensieri tristi, deliziandosi, comunque, «di quella solitudine che ho per tante volte desiderata; poiché un uomo in nessun luogo si sente mai così solo e così abbandonato, come quando si aggira sconosciuto in mezzo ad una folla di gente sconosciuta». La solitudine spesso è stata la splendida compagnia di tanti uomini illustri, che hanno imparato ad amarla e trattarla come una fedele amica.
L’indomani, 29 settembre, descrisse quanto fosse stato attratto dal popolo veneziano, di cui individuò «le esistenze prive di volontà e soggette alla necessità delle cose. […] non fu la necessità che insegnò a questo popolo a cercare la propria salvezza in un luogo così infelice, e che pure essi seppero rendere felicissimo; e fu questo luogo che li fece cotanto destri ed avveduti». Lodò l’attento lavoro compiuto nel costruire case e nel bonificare le paludi e «così il Veneziano dovette trasformarsi in un uomo tutto speciale, come la sua Venezia che non la si può paragonare che a se stessa».
Dopo il pranzo, lo scrittore girò per «canali e canaletti», senza una guida, passando su «ponti e ponticelli», fin quando arrivò al Ponte di Rialto, «di un arco solo di marmo bianco».
Essendo la festa di S. Michele, lo scrittore rimase ammirato dalle «signore ben vestite, avvolte in un velo nero che, molte insieme, si facevano traghettare per far visita alla chiesa dove si celebrava la festa dell’Arcangelo». Quindi entrò nelle Lagune «e di là nel Canale della Giudecca, avvicinandomi alla piazza di S. Marco; e mi credevo cosi anch’io padrone del mare Adriatico, come si sente ogni Veneziano quando si sdraia nella sua gondola». Ripensò ai tanti racconti piuttosto fantasiosi su Venezia del defunto babbo, ora egli si trovava in «un’opera grande, degna di rispetto, è l’opera delle forze umane riunite insieme, è l’opera non di un dominatore, ma di un popolo intero».
La sera del 30 settembre, si avviò senza una meta «nei più remoti quartieri della città», al fine di «studiare, in ogni sito abitato, gli usi, i costumi e la natura dei cittadini; e questi usi e costumi variano da quartiere a quartiere». Ecco la particolarità della nostra Italia: tradizioni e usi, che si trasmettevano da padre in figlio, da famiglia in famiglia e addirittura da rione a rione: la ricchezza, la bellezza della nostra cara Italia.
Armatosi di una pianta della città, si diresse, verso mezzogiorno, alla torre di S. Marco, per godere di uno spettacolo unico.
Il 1 Ottobre, domenica, lo scrittore dovette annotare «la grande sporcizia delle strade»; ormai è diventata tradizione anche non esser capaci a tenere le nostre città pulite.
Il 2 ottobre si recò alla chiesa di S. Maria alla Carità, in cui il Palladio aveva progettato di riprodurre «un edificio monastico sul modello d’una casa privata, d’una famiglia ricca e ospitale de’ tempi antichi». La delusione fu evidente, quando notò che solo «la decima parte dell’edificio è compiuta; anche questa però è degna di quel genio divino». Annotò ammirato: «Nel disegno generale e nell’esecuzione delle parti c’è una tale precisione quale io finora non ho veduta mai. Bisognerebbe star qui anni ed anni a studiare quest’opera. Non ho veduto mai cosa più sublime e perfetta, e credo di non sbagliarmi». Quindi passa a descrivere la chiesa: «La chiesa c’era di già: da questa s’entra in un atrio a colonne corinzie che ci rapisce e ci fa dimenticare preti e frati. Da un lato c’è la sagrestia, dall’altra una sala del Capitolo, di fianco c’è la più bella scala a chiocciola del mondo, con la gabba ben sviluppata e aperta.
I gradini di pietra fissati nelle pareti e disposti in modo che l’uno serva di sostegno all’altro; non ci si stanca mai di salire e scendere per questa scala. Che sia ben costrutta, lo si può dedurre dal fatto, che Palladio stesso la dice opera ben riuscita.
Dall’atrio si passa nel grande cortile interno. Dell’edificio che doveva sorgergli attorno, non ne è eseguita, purtroppo, che la terza parte, tre ordini di colonne poste l’uno sopra l’altro; al pianterreno portici, al primo piano un andito ad arco che conduce alle celle, al piano superiore muro con finestre. Si badi che questa mia descrizione vuol essere completa, tenendo sottocchio i disegni».
Il 3 ottobre visitò la Chiesa del Redentore, «opera bella e grandiosa del Palladio», il quale «era tutto penetrato dello spirito degli antichi», ponendosi quindi l’idea della perfezione nel costruito.
Uscito dal luogo sacro, si avvicinò ad un gruppo nutrito di spettatori, composto per lo più da popolani, che ascoltavano le storie in dialetto veneziano di un pover’uomo.
Si diresse verso la Chiesa dei Mendicanti, dove si trovava il Conservatorio: «le donne eseguivano dietro la grata un oratorio; la chiesa era piena di fedeli, la musica assai bella e le voci stupende. Un contralto rappresentava nel cauto il re Saul, il personaggio principale del poema. Non ebbi mai la minima idea d’una voce simile. Alcuni passi della musica erano proprio belli, il testo perfettamente adattato al canto, cioè di un latino che tanto si avvicinava all’italiano che talora si doveva ridere; ma così la musica vi trova largo campo. Il piacere sarebbe stato assai grande se quel maledetto maestro di cappella non avesse con modi sì rozzi segnato il tempo battendo un rotolo di carta contro l’inferriata». Secondo lo scrittore, il Maestro, col suo comportamento antiartistico, avrebbe desiderato attirare la piena attenzione del pubblico.
Il 2 ottobre gran serata al Teatro S. Moisè, che deluse alquanto il celebre letterato: «Alla musica manca il concetto e ai cantanti quella potenza interiore che sola può fare in modo che tale spettacolo riesca perfetto». Poi, si trasforma in un severo critico musicale: «Nessuna parte potrebbe proprio dirsi cattiva: ma le due donne fecero del loro meglio, non già per far bene la loro parte, ma per dar nell’occhio e per piacere agli spettatori. E’ sempre qualche cosa. Sono due belle figure, hanno buona voce e sono gentili, vispe e graziose personcine, gli uomini invece non mostravano alcuna traccia di potenza interiore e meno ancora si davano pensiero di farsi graditi al pubblico e non avevano nemmeno una bella voce».
Assistette anche ad un pubblico dibattimento presso il Palazzo Ducale: l’avvocato era basso, tozzo, «con un profilo straordinariamente pronunziato una voce tonante come bronzo, e uno slancio come se tutto ciò che diceva gli stesse in realtà e grandemente a cuore». I giudici erano disposti a semicerchio con di fronte gli avvocati ed il pubblico riempiva la sala. L’accusa era rivolta contro la moglie del doge, che sedeva sulla banchetta a poca distanza dal suo accusatore; ella era di una certa età, ma ancor piacente.
Il 4 ottobre, «dopo mezzanotte» raccontò della serata trascorsa presso il Teatro di S. Luca, dove assistette ad una produzione improvvisata «con maschere». Tra gli attori, il migliore fu Pantalone, brava anche l’unica donna impiegata «come artista non è un gran che, ma recita e si presenta per bene». La commedia presentava molti incidenti, che avrebbero divertito il pubblico per più di tre ore, il quale dimostrò così di partecipare attivamente a quanto si stesse svolgendo in scena. La rappresentazione scenica è, alla fine, la rappresentazione della vita quotidiana, anche se «allestita con più gentilezza, intrecciata con fiabe, per mezzo di maschere allontanate dalla realtà, ed a questa avvicinata per mezzo de’ costumi».
Venerdì 5 ottobre. Lo scrittore visitò l’Arsenale, salendo su «un bastimento della portata di 84 cannoni, la cui ossatura è di già finita». Quindi, osservò un’antica galera finemente decorata in oro da sembrare un mobile.
La sera nuovamente a teatro. La critica non fu, ancora una volta, affatto benevola verso gli attori, i quali «facevano del lor meglio». Il dramma narrava la storia di due famiglie nemiche, i cui pargoli si amano teneramente, tanto da celebrare clandestinamente anche il matrimonio. La situazione si sarebbe resa ancor più drammatica colla sfida a duello dei capifamiglia, che avrebbe appianato la vita ai parenti.
«Cadde la tela; le acclamazioni si fecero più clamorose e si gridò «fuori» finché le due principali coppie acconsentirono a comparire sul proscenio; e, fatti i loro inchini, si ritrassero poi dalla banda opposta. Il pubblico non era ancora contento; continuò ad acclamare e gridare «morti» e anche questo chiasso durò, finche i due «morti» uscirono fuori, e fecero il loro inchino: ed avendo alcune voci gridato «bravi i morti» furono trattenuti con gli applausi per un bel pezzo sulla scena, e infine anche a questi fu concesso di ritirarsi».
Il 6 ottobre, lo scrittore torna col pensiero alla tragedia, cui aveva assistito la sera prima, esprimendo alcune considerazioni. Il pubblico teatrale avrebbe desiderato commuoversi, «quando l’eroe declama perbene», ed oltre al commuoversi, «vuol ridere e divertirsi».
Venerdì 7 ottobre, si recò al Teatro S. Crisostomo, per assistere all’«Elettra» di Claude-Prosper Jolyot de Crébillon. Il giudizio espresso fu poco rispettoso; lo scrittore protestò d’essersi annoiato, nonostante la bravura rivelata degli attori.
In mattinata, s’era recato presso la Chiesa di Santa Giustina, dove, alla presenza del Doge, aveva assistito alla messa solenne in commemorazione di un’antica guerra coi turchi.
«Allorquando nella piccola piazza approdano le barelle dorate che portano i principi e una parte della nobiltà, e i gondolieri, con abiti bizzarri, lavorano faticosamente coi remi dipinti in rosso, e lungo la riva il clero, le confraternite con candele accese fissate su stanghe e ne’ candelieri d’argento, portabili, si presentano, si pigiano, fluttuano e attendono, e poi quando vengono gittati dei ponti coperti di tappeti dalle navi alle rive, e sulle strade, compariscono prima le lunghe vesti violette dei Savi, e poi i lunghi e rossi vestiti ilei senatori, e infine quando scende il vecchio ornato d’un berretto frigio d’oro, in un talare d’oro lunghissimo, col mantello di ermellino e tre servi s’impadroniscono del suo strascico, quando tutto ciò accade, su una piccola piazza, davanti alla porta principale d’una chiesa, davanti alla quale sventolano le bandiere turche, par di vedere un antico tappeto a ricami, molto ben dipinto e ben colorato». La spettacolo appagò molto lo scrittore, abituato a funzioni celebrative assai meno maestose. La figura del Doge gli apparve «slanciata e ben complessa» e, pur essendo chiaramente debole di salute, «per amor della sua dignità si tien ancora diritto sotto il suo abito pesante».
La sera ordinò «il famoso canto dei gondolieri quali cantano il Tasso e l’Ariosto con melodia lor propria. […] Col chiaro di luna, entrai in una gondola, avendo uno dei cantori a prora e l’altro a poppa; essi cominciarono la loro canzone, e cantarono alternativamente verso per verso.
La melodia che noi conosciamo per mezzo di Rousseau, è una cosa di mezzo tra il corale e il recitativo. Essa segue sempre il medesimo andamento, senza alcun ritmo. La modulazione della voce è sempre la stessa, ma, a seconda del contenuto del verso, si muta in una specie di declamazione, tanto rispetto al suono quanto al ritmo. […] In lontananza è udito da un altro, che conosce quella melodia e ne comprende le parole; e quest’altro risponde alla sua volta, col verso successivo; indi torna a ripigliare il primo, e così via, l’uno è sempre l’eco dell’altro. […] Per farmelo gustare essi scesero alla riva della Giudecca; lungo il canale si separarono. Io andavo su e giù tra l’uno e l’altro, in modo che m’allontanavo sempre da colui che doveva dar principio al canto, e mi avvicinavo a quello che aveva cessato, e così di seguito. Allora soltanto cominciai a comprendere il vero senso di quel canto. Come voce che viene di lontano fa un effetto assai singolare, par come un lamento privo di tristezza e inspira nell’animo un sentimento che non si può definire e che commuove fino alle lagrime».
Assai emozionante, quando il canto è compreso dalla donna e dal suo uomo pescatore: «Queste donne hanno l’abitudine, quando i lor mariti son sul mare alla pesca, di sedersi alla sera, sulla riva del mare e di farvi echeggiare, con alta voce, questa canzone, finché, da lontano, risponde ad esse la voce dei loro cari; e in tal modo ci si divertono e questi e quelle».
L’8 ottobre, lo scrittore visitò Palazzo Pisani Moretta, per vedere «La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro» di Paolo Veronese, di cui traccia un’interessante disamina:
«La sua grande arte che consiste nel fondere con la più deliziosa armonia i chiari oscuri artisticamente distribuiti, e la varietà degli altri colori, evitando una tinta troppo uniforme nell’intero quadro: quest’arte è qui più che evidente perché il quadro è perfettamente conservato, ed ha ancor tanta freschezza che par dipinto da ieri: e perché è cosa certa che se un quadro di questa specie ha subito qualche guasto, il nostro godimento nel contemplarlo diminuisce immediatamente senza che noi stessi ne sappiamo la causa. […] La varietà graduale dell’espressione da quella della madre a quella della sposa e delle figlie è piena di verità e felicemente riprodotta. La principessa più giovane, inginocchiata dietro alle altre, è una bella creaturina, con un visino graziosissimo, che palesa un carattere capriccioso e bizzarro; e sembra che non voglia acconciarsi per niente affatto a quella triste posizione».
Attorno a mezzogiorno, accompagnato da una guida, si era recato al Lido, dove si era dedicato alla raccolta di alcune conchiglie; ne avrebbe approfittato, per visitare il cimitero inglese ed ebreo.
Il 9 ottobre, si recò a Palestrina, di fronte a Chioggia, per vedere i Murazzi, che la Repubblica aveva fatto costruire, per difendere il Lido dal mare.
Il 10 ottobre, si recò nuovamente a teatro (S. Luca) per la rappresentazione di «una buona commedia!»: «Le baruffe chiozzotte» del Goldoni, che tradusse in «Liti e chiassi di Chioggia». «I personaggi sono tutta gente di mare, abitatori di Chioggia e le lor mogli, sorelle e figlie. I chiassi soliti di questa gente, nella buona e nella cattiva ventura, i loro litigi, le loro ire, la bonarietà, la volgarità, l’arguzia, gli umori loro e i loro semplici costumi: tutto è assai ben riprodotto. La commedia è del Goldoni;[…] assistetti con vero piacere a questa rappresentazione; e benché non mi fosse dato di comprendere qualche allusione speciale, ne compresi però abbastanza bene tutto l’intreccio. […]
Il genio dell’autore si manifesta felicemente nel seguente personaggio. Un vecchio marinaio il cui corpo e specialmente gli organi della voce si son irrigiditi per una vita dura menata fin dall’infanzia, forma vivo contrasto con quel popolo mobile, ciarliero e schiamazzatore; egli prima di parlare prende come la rincorsa, col movere delle labbra e con l’agitare delle mani e delle braccia, finché, finalmente, mette fuori ciò che ha pensato; e poiché non può esprimersi che in modi concisi, adopera, per abitudine, un serio laconismo, in modo che tutto ciò che dice suona come proverbio o sentenza; e di contro spicca poi in un modo bellissimo l’agire violento ed appassionato degli altri personaggi.
Non ho mai visto tanto tripudio quanto ne manifestò questo popolo nel vedersi riprodotto sulla scena con tanta verità. Fu un ridere ed uno schiamazzare dai principio alla fine. Ma bisogna anche dire che gli attori hanno recitato in modo eccellente. Questi attori s’erano distribuiti i caratteri dei varii personaggi quali nel popolo si trovano più di frequente, a seconda delle rispettive attitudini.
La prima attrice, graziosissima, fece molto meglio, che nella parte di appassionata eroina sostenuta ultimamente. Tutte le donne, ma più specialmente quest’ultima imitavano nel modo più grazioso le voci, i gesti, le maniere del popolo. Gran lode si merita l’autore che dal nulla ha saputo cavare una produzione cosi divertente. Ma una tal cosa è possibile solamente con un popolo giocondo come questo. La commedia è composta da mano maestra».
L’11 Ottobre attese ad una disamina delle commedie e concluse che « il mio entusiasmo per la commedia popolare è accresciuto di molto». Era l’ora di preparare le valigie.
Ed il 14 ottobre, alle 2 di notte, annotò:
« Sono gli ultimi momenti del mio soggiorno qui, a Venezia; tra poco si parte col battello postale per Ferrara. Lascio volentieri Venezia, poiché per restarvi con piacere e profitto, dovrei fare altri passi che sono fuori del mio programma; ma ormai tutti lasciano la città, e vanno ai loro giardini e ai loro possedimenti sulla terra ferma. Io frattanto credo di avere ben arricchita la mente di cognizioni e di riportarne meco un quadro unico e interessante».