«Silvia» si chiamava Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi. Nata nell’ottobre del 1797, sarebbe morta giovanissima, all’età di 21 anni; Giacomo s’innamorò nel maggio del 1818 e le dimostrò solo alcuni cenni d’affetto. «Silvia» rappresentò l’ideale di un adolescente, tantoché il suo ricordo gli rimase impresso nell’anima, unitamente ad una simpatia cara e soave, che avrebbe conservato per tutta la vita. Nella lirica, il Poeta immagina di rivederla dopo il trapasso, per domandarle se anche lei abbia conservato intatto l’amore.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? Perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo, combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovinezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? Questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti; e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Il Poeta si rivolge silenziosamente all’anima della defunta Silvia, perché, sebbene non avvalorasse gli argomenti proposti nell’intento di dimostrare l’immortalità dell’anima, non credeva nel totale annullamento del trapasso.
Chissà se Silvia ricorderà ancora il periodo, in cui viveva all’interno tempo, pieno della sua bellezza, che si manifestava attraverso gli occhi, che ridevano ed erano così ansiosi di conoscere ed incontrare la vita, che non riusciva a lasciarli fermi.
Eppure la gioia provata era sempre manifestata in misura composta, quasi meditativa, mentre viveva il passaggio dall’adolescenza alla gioventù.
La quiete delle stanze era interrotta dal canto della giovane, che si spandeva lungo la strada, mentre, ogni giorno, era seduta, intenta a tessere con perizia, fantasticando su cosa le avrebbe riservato il futuro, che non poteva che presentarsi roseo e pieno di positivi presagi. Era il mese di Maggio, e così come sbocciano i fiori, sarebbe sbocciato l’amore di Giacomo, il quale si dedicava con cura allo studio all’interno della biblioteca paterna. Attratto da quel dolce e giovanile canto, lasciava allora le carte, si alzava dal tavolino, dove avrebbe dedicato gli anni più belli della sua vita a struggersi di studio, per recarsi al verone, che era dirimpetto alle stanze della giovane, per ascoltare meglio il suo canto ed il suono del pettine, prodotto dalla mano veloce di Silvia, che percorreva la tela.
Giacomo perdeva il suo sguardo nel cielo limpido primaverile, le vie assolate e lontano il mare Adriatico e la catena degli Appennini. Era impossibile trattenere sulla carta ciò che esplodeva dentro il cuore del sensibilissimo Poeta; una dolcezza soave, che minava i cuori di tanto coraggio, tanto che la vita appariva bella e ridente ed il destino, che sarebbe stato vissuto dai due innamorati.
Quando col pensiero, dopo tanti anni, il Poeta rivisita quei sogni, stracciati dal tempo, allora un’angoscia opprimente gli schianta quasi il cuore, muovendosi a pietà per se stesso e per la sua triste condizione. Sembra davvero gridare contro la natura traditrice, che all’inizio illude, per poi cancellare senza alcuna pietà tutte le più serene aspettative, ingannando le genti.
Il pensiero ricorre ancora a Silvia, paragonata ad una fresca erba, inaridita gelata improvvisamente dall’arrivo del’inverno con i suoi tempi freddi e rigidi. La morte, a causa della tisi, che le avrebbe negato le gioie della gioventù, durante la quale avrebbe sentito lodarsi per la bellezza, per il bel colore dei capelli, che le avrebbe scaldato il cuore. Eppure, nonostante i tanti complimenti, mai avrebbe assunto un atteggiamento civettuolo, anche quando si sarebbe fermata a colloquiare con le amiche dei primi innocenti amori, dei primi innocenti baci.
Così come ella moriva, finivano anche le dolci speranze di Giacomo, tramutate in fuggevoli illusioni. Il destino si mostrò terribile col Poeta, che non riuscì a gustare le delizie della gioventù.
Silvia anelava ad un futuro pieno di speranze e trovò la morte; Giacomo capì che il mondo non era quel luogo di dolcezze; furono entrambi presi in giro dallo scorrere implacabile del tempo e Silvia «fu una stella luccicante in cielo oscuro, che a poco a poco l’annuvola e la involge nella sua oscurità» (F. De Sanctis).
Anche Giacomo presto avrebbe subito la stessa sorte della sua Silvia, abbandonato così anche dal conforto della gloria.
Mi piace! Una bella riflessione su questo capolavoro di Leopardi. Due vite accomunate dalla fine funesta e, forse per questo, alla fine unite. Chissà! Grazie!https://istantaneevissute.wordpress.com
Ti ringrazio per il bel messaggio. Si, due vite tragicamente unite nel nome di un amore meraviglioso ed impossibile da vivere.