Gian Lorenzo Bernini nella Roma di Urbano VIII

Nel 1713, si pubblicò la biografia «Vita del cavalier Giovanni Lorenzo Bernino descritta da suo figlio» dedicata al cardinal Lodovico Pico della Mirandola a spese di Rocco Bernabò.

Nel Quinto Capitolo, il biografo parlò della vita dell’illustre Babbo, regnante Papa Urbano VIII, annotando delle curiose nuove a proposito dell’elezione, avvenuta il 6 agosto 1623.

«Si venne dunque all’elezione co’ voti, quali furono in sufficienza a favore di esso ma nel raccoglierne il numero, se ne trovò uno di meno, e ciò, o fosse fatto ad arte per distornarne la preveduta elezione, o altro che stato si fosse, porgeva almeno apertura agli emoli di slungarne il trattato. Altri però al fatto non si oppose che il medesimo Cardinal Barberini, che quanto era più vicino a sperar quella Dignità, tanto più pronto mostrossi a rifiutarla. Poiché i Cardinali adherenti a lui maggiormente s’innamorono della sua virtù, ed i contrarii restarono si fattamente ammirati di quella heroica azzione, che, toltone il suo, di cinquantatrè voti, cinquanta concordemente l’elessero per Pontefice».

Il nuovo Pietro fu descritto «di anni cinquantacinque, di alto spirito, e nobile intendimento, e perciò tanto maggiormente eziandio capace di operazioni illustri, e gloriose».

Il giorno dell’elevazione, il Bernini fu chiamato al cospetto del Pontefice, il quale gli disse: «Gran fortuna è la vostra, o Cavaliere, di veder Papa il Cardinal Maffeo Barberini, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavalier Bernini viva nel nostro Pontificato». Lo Scultore sarebbe stato ammesso, senza preavviso, nelle stanze pontificie, al desco papale e – addirittura – in camera da letto. Il comportamento umile e modesto del Bernini non suscitò mai invidie e gelosie da parte dei cortigiani, perché «superiore ad ogni sinistro concetto, e perciò tanto maggiormente meritevole di quell’honore».

Bernini, sotto paterno consiglio del Pontefice, si dedicò alla pittura, lavorando anche per i principi Barberini, Chigi di Roma per il cardinale Leopoldo De Medici e per i principali signori d’Europa. Si dedicò quindi alle caricature, deformando «l’altrui effigie in quelle parti però, dove la natura haveva in qualche modo difettato, e senza toglier loro la somiglianza, li rendeva su le carte similissimi, e quali in sostanza essi erano».

Gian Lorenzo considerava Raffaello il più grande pittore di sempre, somigliante «a un gran mare, che raccoglieva in sé l’acque di tutti i fiumi cioè il perfetto di tutti gli altri insieme. Il secondo luogo dava al Correggio, poi a Tiziano; ultimo poneva Annibale Caracci. Di Guido Reni dava giudizio in generale, e diceva, essere stato ricchissimo nelle idee, e perciò tanto maggiormente vago nelle pitture».

Egli stesso pittore e scultore, dichiarava che la differenza tra scultura e pittura constasse nel «mostrare quel che è, mentre la pittura quel che non è». La scultura poneva certe regole nella dimensione, mentre la pittura «può render lontano ciò ch’è d’appresso, piccolo ciò ch’è grande, e fiaccato ciò che per altro non ha rilievo».

Gian Lorenzo consigliava ai suoi allievi d’innamorarsi del bello mostrato dalla natura, «consistendo tutto il punto dell’arte in saperlo conoscere, e trovare» e, quando gli fu chiesto, perché biasimasse le opere belle, rispose: «Non doversi biasimare le opere malfatte, che da sé medesime si vituperano, ma le Opere belle nelle parti biasimevoli, perché col biasimare qualche parte, si veniva a lodare il tutto, col fondamento che il perfetto si cerca col riflettere alle mancanze, che ha il buono. Tuttavia per dar gran lode a una cosa, non bastava ch’ella havesse pochi errori, ma che havesse in sé molti pregi».

Gian Lorenzo fu sempre concentrato nello studio degli antichi, che celebrarono nelle loro opere la maestà e la magnificenza, al fine di trovare «il bello della fabbrica col commodo dell’habitazione». Egli così, grazie ad uno studio indefesso, alla perfezione nell’arte della pittura, dell’architettura e della scultura, «con uscir tal volta dalle Regole, senza però giammai violarle, essendo suo detto antico che chi non esce talvolta di Regola, non la passa mai. Ma il far ciò, non è impresa da tutti».

Domenico Bernini afferma che la confidenza tra Urbano VIII ed il celebre Babbo fu una delle gioie e privilegi, di cui poté godere lo Scultore, sicché, il Pontefice «un giorno con una particolar confidenza, commosso dall’animo presago di sua prossima morte, proruppe in un’apparente tenerezza verso il Bernini e in questi sentimenti a lui parlò: “Cavaliere, gran cose in poco tempo havete fatto per cui si è reso glorioso il Pontificato nostro e il nome vostro. Ma ritrovandoci l’ora cadente nell’età, rimane a voi solamente prepararci il Sepolcro, a Noi il disporci alla morte. E siamo certi, che ogni altro Nostro comandamento vi sarà stato men grave di questo”. E qui si tese in espressioni così affettuose verso di lui, e con tanto amore tirò un lungo discorso, che ben quindi comprender poté il Cavaliere, quanto costante fosse stato l’animo di quel Pontefice alla sua propensione. Formonne dunque il disegno, in cui parve, che adunati tutti i suoi spiriti per far cosa veramente superiore ad ogni arte». Dai contemporanei, il tumulo fu chiamato «miracolo dell’Arte, disegno, mai veduto, mi maestria inarrivabile. Mirabile l’Artefice che’ l formò, e ne colpì il lavoro».

Il Cardinale Panciroli, segretario di stato, così chiosò:

Bernin si vivo il grand’Urbano ha finto,

E sì ne duri Bronzi e l’alma impressa,

Che per torgli la fe’, la morte istessa

Sta sul sepolcro a dimostrarlo estinto.

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