«Perché hai voluto impadronirti dei miei sensi così terribilmente?» Lettera di Gabriele D’Annunzio a Natalia De Goloubeff

«Sono arrivato qui così stanco e triste che non ho potuto ricevere nessuno.

Ora son qui, e il cuore mi duole; e non v’è nulla che non sia dolente in tutto me.

Perché a un tratto il malvagio demone s’è risvegliato in me?

Tu non m’avevi mai posseduto come nella notte folle di baci. Tu non m’avevi mai dato una voluttà così strana e così profonda. La tua bocca divina faceva divino il mio corpo. La mescolanza era così perfetta che io non sentivo più la forma vivente delle tue labbra ma soltanto l’essenza della tua musica.

Perché, d’improvviso, un’immagine orrenda s’è sovrapposta a quella stessa bocca che aveva cantato per tutte le mie vene quel canto silenzioso?

Tristezza inevitabile della passione! Oscura vendetta della voluttà superata!

Cerchiamo affannosamente la sincerità e la lealtà nell’amore; e, quando la sincerità e la lealtà ci feriscono, abbiamo quasi il rimpianto delle dolci menzogne.

Mi ricordo di quel giorno, qui, in questa stanza. Eri avida di me. M’avevi bevuto. E, senza esitare, confessavi la tua esperienza.

E, a un tratto, ieri l’imagine abominevole ricomparve e mi straziò, e contaminò e umiliò il mio amore. E, a una a una, tutte quelle fresche e feroci confessioni, mi tornarono nella memoria; e mi diedero un’angoscia contro cui non valsero le resistenze dell’anima.

Che miseria è la nostra! Nelle più alte ebrezze della passione noi non possiamo dare alla creatura amata se non quello che già demmo a chi fu l’oblio di un’ora o di un giorno: uno stesso atto, una stessa carezza, uno stesso spasimo!

O cara bocca ove la voce trema quando mi parla!

Perché hai voluto che io ti amassi così? Perché hai voluto impadronirti dei miei sensi così terribilmente?

26 marzo 1909»

Il D’Annunzio si trovava a Milano, presso l’Hotel Cavour, impegnato nell’allestimento della Fedra. La lontananza unita alla stanchezza producono un veleno per il corpo, per l’anima, sicché: solo il dolore. Ma il dolore genera, inspiegabilmente, il demone lussurioso, che ricorda quanti baci ricevette da quelle labbra così seducenti e morbide. Quanta piacere intenso, strano e allo stesso tempo profondo. La divinità della donna, la sua natura nobile, riusciva a rendere l’humus (l’uomo) divino anch’esso; la trasfigurazione del proprio stato dovuto esclusivamente al concorso di lei, creatura infrangibile nella sua antica costituzione. La passione, il trasporto, la voglia conquistarono immediatamente le due anime, legate attraverso i corpi, che una melodia di passione sembrò improvvisamente nascere da quella divina unione. Ora, la solitudine mostra i suoi fantasmi orribili; la lontananza è mistero di dolore e di solitudine. Il momento dopo, quando tutto tace, lascia i corpi trafitti dal desiderio, sanguinanti, spossati. E dopo tanta gioia, l’altra faccia del sentimento.

Nonostante gli amanti cerchino il solo bene, che può venire dall’amore, quando quel bene assoluto, per una misteriosa cabala, si trasforma in un’arma minacciosa, allora ci si abbandona a se stessi.

Il desiderio incontrollato, che s’impossessò dell’alcova, riempiendola colla sua suggestione, trasportò la voglia oltre, sempre più alla ricerca dell’assoluto piacere, trasformando in un elisir la pienezza della vita. E poi il racconto seguito; impossibile dirlo, dire nasconde il (tra)dire.

Ancora quest’immagine orrenda riempì la testa e la fantasia di lui, che divenne, ben presto, la vittima nelle mani di un indicibile carnefice spirituale. I ricordi come un dolce veleno, che si spargono lentamente nel cuore dell’anima. E nonostante sentiamo amore, desiderio, purtroppo non possiamo solo che replicare gesti, carezze e parole dette mille volte moltiplicato mille. Nulla è nuovo nel gesto.

Perché un amore così amaro, solitario, sfibrante, segnato da un cupo, inesauribile dolore?

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