Il 23 maggio 1592, Giovanni Mocenigo denunciò al Padre Inquisitore di Venezia Giordano Bruno.
Giovanni Francesco Mocenigo nacque a Venezia il 5 luglio 1558. Appartenendo ad un’agiata famiglia veneziana, si suppone – non essendovi documenti a riguardo – che abbia ricevuto un’accurata istruzione, che gli avrebbe permesso d’intraprendere la carriera politica. Conobbe il pensiero del Bruno, leggendo il «De triplici minimo et mensura» (De monade numero et figura) e chiese all’amico editore Giovan Battista Ciotti se sarebbe stato possibile invitare il Filosofo in Venezia. Il Bruno accettò immediatamente, attratto dalla possibilità di ricevere un incarico presso l’Università di Padova. Purtroppo, il Mocenigo si dichiarò deluso dell’insegnamento ricevuto, sicché denunciò a Fra Gabriele da Saluzzo, Inquisitore veneziano, il Filosofo.
Così inizia la lettera, che avrebbe segnato la drammatica fine del Filosofo, esponente del libero pensiero:
«Io, Zuane Mocenigo, fo’ del Clarissimo messer Marcantonio, dinuntio a V. Paternità Molto Reverenda, par obligo della mia conscientia…».
Giordano Bruno avrebbe posto in discussione il fenomeno della transustanzazione, durante le conversazioni svolte in casa del principe e si sarebbe dichiarato contrario alla Messa ed alla religione. Il Frate avrebbe dichiarato che il Cristo, «mago» come i suoi apostoli, avrebbe conquistato gli uomini seducendoli e per ciò condannato alla crocefissione, che avrebbe accettato contro la sua volontà.
Quindi un’ulteriore gravissima accusa: «che il mondo è eterno et che sono infiniti mondi; et che Dio ne fa infiniti continuamente» a sostegno della sua onnipotenza.
Alla fine della vita, ogni anima non sarebbe stata giudicata, poiché «le anime, create per opera della natura, passano d’un animal in un altro» e «doppo i diluvii ritornano a nascer».
Il Bruno è accusato di voler creare una nuova religione, perché «la nostra fede catholica è piena tutta di biastemie contro la maestà di Dio». Si dovrebbe colpire la corruzione della Chiesa, togliendo la carità al corpo sacerdotale, rei di «imbrattare il mondo», a causa della loro chiara ignoranza, al contrario della sua conoscenza, che sfiderebbe anche quella di S. Tommaso. Il Nolano ribadirebbe l’antico principio «non far ad altri quello che non voressimo che fosse fatto – al fine di – per ben vivere, et che se ne aride di tutti gli altri peccati».
L’eresia della religione cattolica non sembrerebbero scandalizzare l’Eterno e ciò desterebbe viva sorpresa nel Nolano.
Il Bruno non sarebbe nuovo a questo tipo di accuse, poiché il conte è stato informato in merito: «M’ha detto d’aver havuto altre volte in Roma querele all’inquisitione di cento et trenta articuli, et che se ne fugì mentre era presentato», accusato di aver annegato nel Tevere i denuncianti.
Il conte si era affidato alle sue cure, poiché non conosceva la vera «triste» indole del Frate. Quando n’ebbe contezza, dubitò «che se ne possi partire, come lui diceva di voler fare, – allora – l’ho serrato in una camera a requisition sua, et perché io lo tengo per indemoniato, la priego far rissolutione presta di lui».
Quindi, dichiara i testimoni, tra cui i membri di un’accademia del «Ser Andrea Moresino del Clarissimo ser Giacomo» pronti a confermare siffatte accuse; allega tre libri «del medesimo a stampa et insieme un’opereta di sua mano, di Dio, per la dedutione di certi suoi predicati universali, dove potrà metervi il suo giuditio».
«Et col fine a V. P. M. Reverendo, bascio riverentemente le mani.
Di casa, alli 23 Mazo (Maggio) 1592.
Di V. P. M. Reverendo,
Servitor obbedientissimo.
ZUANE MOCENIGO»
Due giorni dopo, il 26 Maggio 1592, un’altra lettera, inviata
«Al molto Rev.do P. e Sig.r mio Ossequiosissimo,
Il P. Inquisitore di Venetia.
Molto Rev.do et Sig.r mio osservantissimo».
Impedito al Bruno di fuggire, il trattenuto dichiarò di non temere l’Inquisizione, che tutt’al più lo avrebbe costretto a rivestire l’abito, «perché non offendeva alcuno a viver a suo modo et poi che non si riccordava d’havermi detto cosa alcuna cattiva, et che se pur l’havea detta, l’haveva detto a me solo, et che però non poteva temere che io gli nocessi per questa via». Il Conte quindi l’avrebbe incalzato, ricordandogli tutte le eresie: non credere nella Trinità, credere che il fato conduca il mondo, ma – al tempo stesso -, stendendogli la mano in segno d’aiuto, che il Filosofo avrebbe rifiutato, pregandolo solo di lasciarlo libero, in cambio dell’insegnamento gratuito e dello svelamento di certi segreti.
Quindi il Conte si scusa con l’autorità ecclesiastica, per aver stimato il Bruno, non conoscendo i suoi trascorsi, ma di essersi immediatamente allontanato, quando ne venne a conoscenza.
«Come ho ottenuto con grandissimo obligo alla Paternità Vostra molto Reverenda, per la diligentissima cura che ne ha havuta: et col fine le bascio riverentemente le mani.
Di casa alli 25 mazo 1592.
Di V. P. M. Rev.ma
Servitor obligatissimo
ZUANE MOCENIGO».
A causa di queste denunce, il 26 maggio 1592, scatterà l’arresto.