Pietro Giordani su Giacomo Leopardi in una lettera al Cavaliere Felice Carrone, Marchese di S. Tommaso

Il Giordani scrisse al Marchese Carrone una lettera, onde lamentarsi per le critiche eccessive verso il Leopardi, che sarebbero perdurate alla scomparsa dell’infelice poeta.  Ricorda come la sola vicinanza ad Antonio Ranieri «il quale amollo più che fratello», scongiurò un’esistenza priva di ogni supporto e rapporto umano. Egli fu «inseparabil compagno nella solitudine e nei dolori all’amico: né in sette anni lo abbandonò un momento, sino alla morte». Pur non essendo di famiglia agiata, il Ranieri spese molti danari, perché le povera ossa dell’amico carissimo non andassero perdute, nonostante l’impegno pubblico di tanti falsi amici, che poi si sottrassero all’investimento. Quindi, stampò (non in Italia!) le composizioni già note di Giacomo, unitamente ai manoscritti ritrovati in Germania, dove trovarono asilo i suoi desiderata, presso il libraio Raudry.

«Povero Leopardi, morto a tempo, e vissuto inutilmente!».

Egli fu umile nella grandezza sproporzionata rispetto ai suoi simili, ma si mostrò sempre «modesto e cauto. Sospirò de’ suoi dolori, gemette delle umane miserie. E furono sospiri e gemiti di cuor profondo e sincero, di mente altissima e delle più rare nel mondo. Io voglio confessare, non umilmente ma liberamente ch’io m’inginocchio adorando la mente di Giacomo Leopardi, il quale […] paragono a quanto ne’ lor tempi migliori ebbero di più sublime e perfetto i Greci». 

Le poesie si rivelarono meravigliose come le prose, nella dimostrazione di un perfetto uso della lingua italiana, adoperata con significati ancor più nobili e lucenti.

Si, Egli fu «infelicissimo, si fece poeta degl’infelici. […] Non poetò alle corti, né alle accademie, pianse coi dolenti».

Egli fu interamente «Italiano o, se volete, un Greco, o piuttosto un uomo, che non poté essere del suo tempo, ma sarà di tutti i tempi», giudizio che comprendiamo ed apprezziamo enormemente.

Raggiunse una perfezione assai squisita, sapendo raccontare del vero e chi lo intende lo ammira ed ama smisuratamente.

Giacomo fu «maestro unico di tante cose, antiche e moderne, a se stesso; con pochi libri, senza aiuto d’uom vivo, e chiuso in sua casa, in piccolo paese del Piceno: e di là usci nei vent’anni, filologo di greco e latino pari a pochissimi; dico pari in Europa e in quelle regioni dove si studia; erudito come se avesse letto e viaggiato quarant’anni poeta (a chi sa veramente che è poesia) da mettersi innanzi a tutti i nostri dopo l’Alighieri; rappresentando come lui sì eccellentemente non l’ombre ma il vero, nel mondo delle cose e nel mondo dei pensieri». Fu un terribile scrutatore dei misteri umani, penetrati con acuto e sincero discernimento, al fine di coglierne il fallo, giammai arrogandosi il diritto di trovarne le ragioni, astenendosi così «dalla temerità di coloro che tutto spiegano, e insolenti vorrebbero bruciare chi non è capace delle loro spiegazioni».

Raggiunti i vent’anni, iniziarono le pene e le malattie, che non poteva certo consolare cogli studi. «Sentì di meritare la gloria», invece i deliri dei detrattori giunsero a vilipenderlo e a rappresentarlo in modo odioso.

Il Giordani conclude, che tutto ciò che produsse il Leopardi dovesse essere finalmente stampato in Italia, abituata a maltrattare «quelli de’ quali più si doveva gloriare».

Parma, 15 settembre 1839

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