«Il conte Ugolino» nell’analisi critica di Francesco De Sanctis

Nella prima e seconda zona del nono cerchio (XXXIIo Canto dell’Inferno), sono puniti i traditori dei parenti e quelli della patria e del partito.

«Nel primo ingresso del pozzo, troviamo i giganti, e verso la fine Lucifero»; il De Sanctis analizza bene come mitologia e Bibbia si mescolino quale espressione di una sola idea.

Lucifero

«I giganti sono incatenati; Lucifero è immane carname vuoto d’intelligenza»; egli è stato degradato a pura bestia, come tutti coloro che ivi giacciono: «carne ammassata a carne, la carne come carne». Lucifero ha tre teste con relative tre facce di «colore proprio» e sei braccia, «grandi elle sole come un gigante; è la poesia della materia. […] I personaggi, vuoti di spirito, sono meri segni di concetti, figure assolutamente simboliche». Egli è stato vinto da Dio, che lo ha poi cristallizato, il re dell’inferno esprime così «la più bassa e materiale espressione». Tutti i protagonisti sono compresi nell’acqua ghiacciata, ma, essendo pur privi dello spirito, «possono esprimere le loro sensazioni»; essi sentono freddo, così come dolore e pianto, che, nell’Antenora, si ghiaccia così da impedirne la discesa. Pur potendo parlare, il ghiaccio lo impedisce, bloccando quindi ogni movimento.

«Ma come qui, fra questi esseri petrificati, può aver luogo il conte Ugolino, il personaggio più eloquente e più moderno della Divina Commedia?».

Il Conte Ugolino

Egli fu tradito dall’arcivescovo Ruggieri, al quale (come Paolo con Francesca) è legato attraverso l’odio, essendo stato «offeso in sé e ne’ suoi figli». E’ attaccato al teschio del suo nemico, il quale non emette lamento, essendo perfettamente petrificato: «Ugolino è il tradito che la divina giustizia ha attaccato a quel cranio; e non è solo il carnefice, esecutore di comandi, […] ma è insieme l’uomo offeso che vi aggiunge di suo l’odio e la vendetta».

Ruggieri diviene per contrappasso il pasto dell’uomo, che non riesce a saziarzi dell’artefice della sua morte, per quanto il suo dolore rimanga «vivo e verde». Egli non trova soddisfazione nell’erodere quel cranio, che possa placare la sua sete di vendetta, affogata nel dolore infinito. Ugolino vive nel presente il passato, in uno strazio eterno congiunti, che gli ravviva la rabbia.

Dante celebra attraverso la poesia il tradimento, «colpa qui punita in tutte le sue gradazioni», Ugolino risulta lo strumento «fatale dell’eterna legge».

«O tu che mostri per sì bestial segno

odio sovra colui che tu ti mangi,

dimmi ‘l perché», diss’io, «per tal convegno,

.

che se tu a ragion di lui ti piangi,

sappiendo chi voi siete e la sua pecca,

nel mondo suso ancora io te ne cangi,

.

se quella con ch’io parlo non si secca1».

«Già in pochi tratti il Poeta ha abbozzata questa colossale statua dell’odio, di un odio che rimane superiore a quel segno bestiale, che già ha fatto tanta impressione in Dante».

Ugolino odia molto, poiché ha amato molto ed il dolore disperato, che prova, è causato dalla minor forza della vendetta in confronto all’offesa ricevuta.

Ugolino era in un carcere buio, fiocamente illuminato da una scarsa luce, che penetrava attraverso un piccolo foro, presso il quale giaceva. Grazie alla luna, contava i suoi mesi di detenzione «nell’incertezza del suo destino e l’accanimento de’ suoi nemici». Egli ignora quindi la sua sorte, gettato in un’ansia infinita:

[…] quand’ io feci ‘l mal sonno

che del futuro mi squarciò ‘l velame2.

Sogna i suoi figli attraverso la visione di il lupo e ’ lupicini:

In picciol corso mi parieno stanchi

lo padre e ’ figli, e con l’agute scane

mi parea lor veder fender li fianchi3.

Essi arrivano nel momento di più acuto dolore e dello strazio; domandano del pane. Ugolino unisce il suo sogno con quello dei figli, e così come non può soddisfare la legittima richiesta della prole, egli intuisce che morirà per fame. Quindi chiede a Dante come non si commuova a quella scena infame:

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli

pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;

e se non piangi, di che pianger suoli4?

Quando sentì il rumore della chiave, che apriva la porta, guardò verso i figli, ignari della loro sorte; l’amore paterno rischiara la figura di Ugolino, raddolcendo «anco il suo accento».

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto

a l’orribile torre; ond’io guardai

nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, sì dentro impetrai5:

ed i figli iniziano a piangere, ma il padre «non lacrimò e non fe’ motto, perché rimase impietrato. L’amore gli vieta ogni espansione».

Perciò non lacrimai né rispuos’io

tutto quel giorno né la notte appresso6,

Ugolino vive in sé «la morte del sentimento, rimasto senza lacrima, senza accento, senza gesto, senza espressione». Ma all’apparir della prima luce del giorno:

nel doloroso carcere, e io scorsi

per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi7;

Vive un impeto istantaneo di furore tanto da mordersi le mani, gesto incompreso dai figli, i quali, pensando ch’io ’l fessi per voglia  di manicar, si offrono quale cibo, così sarebbe finita anche la loro agonia.

se tu mangi di noi: tu ne vestisti

queste misere carni, e tu le spoglia8

Ugolino sente la necessità di tornar padre, al fine di non suscitare nell’animo della figliolanza la tristezza, e così lo dì e l’altro stemmo tutti muti. «Egli invoca la terra che si apra e l’inghiotta; e la maledice e la chiama crudele: ahi dura terra, perché non t’apristi?»     

Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,

dicendo: “Padre mio, ché non mi aiuti?9“.

invece, il padre li vede morire «uno ad uno, e fu uno strazio di tre giorni»:

Quivi morì; e come tu mi vedi,

vid’io cascar li tre ad uno ad uno

tra ’l quinto dì e ’l sesto10,

[…]

e due dì li chiamai, poi che fur morti11.

L’uomo morì prima che il corpo smettesse di vivere; non fu ucciso dal dolore ma dalla fame ed il tragico tratto scatena la furia di Dante, che se ne lamenta contro quella città, che «aveva dannato a perire quattro innocenti»:

muovasi la Capraia e la Gorgona,

e faccian siepe ad Arno in su la foce,

sì ch’elli annieghi in te ogne persona12!

«E’ la natura stessa, che viola le sue leggi, esce dalla sua immobilità, acquista coscienza, anima e moto, e corre a punire la rea città. Una catastrofe tanto straordinaria di natura, una pena così fuori del corso ordinario delle cose alza la colpa allo stesso livello e le dà proporzioni colossali».

Ugolino si mostra quale simbolo dell’«odio eterno, insoddisfatto, immenso», salvo tornare lacrimevole padre in mezzo ai figli, carnefici inconsapevoli, del babbo, che trafiggono con ciascuna parola rivolta.

«La loro innocenza, il loro amore si convertono in istrumenti di martirio del padre, e gli spezzano l’anima, e ne fanno una belva, qua e là, sul suo piedistallo infernale».

«Francesca e Ugolino – conclude il De Sanctis – sono i due episodii rimasti vivi in tutto il mondo civile nelle classi anche illetterate».

.

 (1) DANTE ALIGHIERI. Inferno, XXXII Canto, vv. 133 – 139

(2) DANTE ALIGHIERI, Inferno, Canto XXXIII, vv. 26 – 27

(3) op. cit., vv. 34 – 36.

(4) op. cit., vv. 40 – 42

(5) op. cit., vv. 46 – 49.

(6) op. cit., vv. 52 – 53.

(7) op. cit., vv. 56 – 58.

(8) op. cit., vv. 62 – 63.

(9) op. cit., vv. 68 – 69.

(10) op. cit., vv. 70 – 72.

(11) op. cit., v. 74.

(12) op. cit., v. 82 – 84.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo:
search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close