Felice Romani nacque a Genova il 31 gennaio 1788, morì a Moneglia il 23 gennaio 1865.
Si distinse quale miglior poeta melodrammatico della sua epoca, tanto da essere chiamato «Metastasio redivivo». La sua professione non fu affatto facile a svolgersi tra le esigenze dei compositori e i capricci dei divi del palcoscenico, tantoché commentava:
«Il melodramma esce, cresciuto in fretta, educato in compendio, ancor rozzo e disadorno; il maestro di musica se ne impadronisce e lo assoggetta talvolta al supplizio di Procuste; lo scorcia e lo stira a proporzione del letto in cui lo distende; lo circondano i cantanti e lo volgono e lo rivolgono come loro più giova; gli danno l’impronta dei loro capricci e la sala delle prove è l’Ebro che lo rotola e avvolge lacerato come Orfeo dalle Baccanti. Potesse egli almeno, come il figlio della Parabola, ritornare alla casa paterna e deporre le tristi spoglie acquistate vagando! Non ne ha più tempo: è trascinato a forza in teatro e comparisce sulle scene malconcio, travisato, deforme, talché il padre medesimo arrossisce di averlo dato alla luce. Credetemi, credetemi; i pericoli che corre un melodramma sono tanti che a dirli tutti ne riuscirebbe una lunga odissea di sciagure».
Felice Romani iniziò a collaborare con Vincenzo Bellini, fornendogli il libretto de Il Pirata, andato in scena presso il Teatro alla Scala di Milano il 27 ottobre 1827. Nel precedente mese d’aprile, il Catanese s’era recato, forte di una raccomandazione fornitagli da Saverio Mercadante, dal poeta, onde ottenerne la disponibilità, secondo anche la volontà di Domenico Barbaja, che era intenzionato di affidare al giovane musicista il debutto presso il teatro massimo milanese, dopo il successo ottenuto con la Bianca e Fernando l’anno prima presso il San Carlo di Napoli.
Resoconto del primo incontro, lasciò traccia scritta il Romani:
«Io solo, e subito, lessi in quell’anima poetica, in quel cuore appassionato, in quella mente vogliosa di volare oltre la sfera in cui lo stringevano e le norme della scuola e la servilità dell’imitazione. E pensai subito a “Il Pirata”, soggetto che mi parve adatto a toccare, per così dire, la corta più rispondente del suo cuore, né m’ingannai. Da quel giorno in poi c’intendemmo ambidue, lottammo uniti contro le viziose abitudini del teatro musicale, e ci accingemmo concordi ad estirparle a poco a poco a forza di coraggio, di perseveranza, d’amore».
Grazie alla decisione di collaborare, Romani aprì così le porte del massimo milanese al giovane, ma già bravo maestro, dove colsero un successo grandissimo, che si mantenne vivo nelle repliche consecutive. A proposito della prima, la moglie di Romani, Emilia Branca, raccolse in un volume dedicato all’illustre marito degli aneddoti.
Dopo l’ultima prova dell’opera, del cui successo tutti oramai erano certi, autore della musica ed autore dei versi, la sera si ritrovarono con il gruppo di amici più fidati, al solito ristorante. Bellini fu particolarmente entusiasta col suo librettista, che, più volte, strinse al petto in segno di sincera devozione per il lavoro svolto. Così il Romani replicò:
«Tu sei felice, come lo siamo tutti noi, del successo che domani certamente arriderà al tuo lavoro. Ma mi sembra che abbia dimenticato, frattanto, una cosa di non scarsa importanza. Ti pare il tuo vestito, che non brilla per l’eccessiva eleganza, sia quello più adatto per consentirti di andare a collocarti in orchestra sull’alto sgabello dell’autore – allora l’autore alla prima rappresentazione della propria opera doveva occupare tal posto in orchestra – e di apparire poi alla ribalta per ringraziare il pubblico?
– Hai ragione – rispose con noncuranza Bellini – ma non ci avevo penato. E adesso è troppo tardi per rimediare.
Felice Romani aveva indossato proprio quella sera un bell’abito nuovo fiammante.
«Si può sempre rimediare – ribatté il poeta -. Abbiamo, se non erro, si e no, la stessa taglia. Sta attento e vedrai».
E così dicendo comincia a spogliarsi, ingiungendo al Maestro di fare altrettanto. Dopo pochi minuti, fra il buonumore di tutti i presenti – erano, come abbiamo detto, gli amici del cuore e più intimi dell’uno e dell’altro – Vincenzo Bellini indossava gli abiti del Romani e questi quelli del giovane Maestro, e la dimane fu con l’abito avuto in prestito che il giovane trionfatore si presentò alla ribalta del più importante teatro del mondo per ringraziare il pubblico che lo acclamava delirante. Dopo la rappresentazione, ancora tutto vibrante del successo che, come egli stesso scrisse alla sua famiglia, gli aveva procurato un pianto di gioia infrenabile e convulso, il Bellini andando incontro al suo poeta, gli disse:
– Va là – rispose il Romani – che il vestito che tu hai dato ai miei versi vale assai più e avrà vita più lunga dell’abito che ti ho prestato».
Filippo Cicconetti ha trascritto un altro aneddoto riguardante la celebre coppia, in occasione della nuova opera, che sarebbe andata in scena presso il Teatro alla Scala di Milano il 14 febbraio 1829: La Straniera.
Il lavoro stava giungendo al termine, ma Bellini restava ancora dei versi, composti dal Romani, dell’aria finale, a suo giudizio inadatti. Recatosi quindi dal fido librettista, iniziò la riscrittura del testo, ma ancora una volta, a lavoro compiuto, il Catanese non mostrò alcuna soddisfazione.
– Ho capito, neanche questi ti vanno.
– No.
– Ed io te ne scriverà ancora degli altri finché l’aria finale di appaghi.
Il Maestro continuava ad apparire sempre più scontento. Finalmente il Romani esclamò:
«Sono costretto a confessarti che non ti capisco più, che non intendo questo tuo pensiero, né che cosa tu vuoi».
Allora Vincenzo Bellini animandosi nel viso:
«Che voglio? Voglio un pensiero che sia tutto insieme una preghiera, un’imprecazione, una minaccia, un delirio», e correndo inspirato al pianoforte creò impetuosamente la sua aria finale, mentre l’altro, guardandolo con stupore, si era posto a scrivere.
«Ecco ciò che voglio – disse il Maestro – ora l’hai conosciuto?»
«Ed eccone le parole – rispose il poeta presentandogliele. – Sono entrato nel tuo animo?»
Vincenzo Bellini abbracciò il Romani con effusione di affetto e di riconoscenza, e così nacque la celebre aria finale de “La Straniera”, il cui successo, quando l’opera apparve alla Scala, superò quasi quello de “Il Pirata”, sì che l’autore dovette presentarsi alla ribalta per trenta e più volte.
Nel 1831, debuttò presso il Teatro alla Scala di Milano Norma, grande capolavoro generato dalla felice collaborazione tra i due artisti. Romani ebbe a soffrire problemi colla Censura, che contestò i seguenti, celebri versi:
Si; parlerà terribile
Da queste querce antiche
Sgombre farà le Gallie
Dall’aquile nemiche.
La Polizia indicò nella città Roma la città di Vienna ed alla dinastia asburgica, che aveva per simbolo l’aquila bicipite. Le parole rimasero al loro posto, ma quando il Coro, alla prima, suscitò un successo clamoroso, la Censura nuovamente intervenne pretendendo il taglio completo della scena incriminata.
Nel 1834, un anno prima della morte di Bellini, il Romani fu nominato cavaliere del merito civile di Savoia e direttore della Gazzetta Ufficiale Piemontese, per cui dovette rallentare la produzione librettistica.
Nonostante i grandi successi raccolti e la naturale amicizia, che nacque tra i due, presto arrivarono i primi dissapori, causati anche da una certa gelosia artistica, che Bellini nutriva nei confronti del librettista, quando s’impegnava a lavorare con altri musicisti trascurandolo. L’ultimo capolavoro del Musicista catanese, I Puritani, nacque dalla collaborazione col poeta Carlo Pepoli. Bellini in diverse lettere se ne dispiacque e si lamentò assai, confidando che «la gloria non poteva andare disgiunta dalla poesia di Romani – invocando una presta riconciliazione, al fine di potersi – riscaldare di bel nuovo alla face di quel genio».
Fortunatamente, la frattura fu ricomposta nell’estate del 1835, certificata dalla lettera, che il Compositore scrisse all’amato e preferito librettista:
«Mi pareva di non poter stare senza di te. Com’io li dimentico, dimentica tu pure i nostri dissapori passati, che non avrebbero mai dovuto essere. Io non potrò dimenticare mai i tuoi benefizi e la grazia che ti devo, ora ricominciamo insieme altra vita più bella e più gloriosa».
Avevano davvero condiviso gran parte della carriera, tanto che il Romani commentava:
«Io gli fui compagno, collaboratore ed amico; gli fui guida, consigliere, sostegno; gli fui più che fratello».