Brevi note su Giosuè Carducci

Giosuè Carducci, spirito ribelle e collerico, ereditato dal padre, un medico condotto che esercitava nella Maremma, frequentò le scuole presso i padri Scolopi (che velocemente avrebbe detestato), imparando ad amare gli antichi ed, in special modo, Orazio; ammirò l’Ortis del Foscolo e la produzione poetica di Giacomo Leopardi, e, per gli stranieri, Schiller, Byron e Walter Scott. Non amò molto la poetica del Manzoni, ritenuta troppo dolce e molle.

Giuseppe Mazzini (1805 – 1872)

Presto parteggiò per le idee, propugnate da Giuseppe Mazzini, il quale avrebbe desiderato costituire una lega tra le repubbliche in nome di un Dio indeterminato e dell’umanità.

Vittorio Alfieri (1749 – 1803)

Ben presto, egli pervenne, forse inclinato da certa educazione timorata e benpensante, ad uno sdegnoso furore eroico, per cui formò la cosiddetta «alma alta e sdegnosa», secondo lo stile di Dante e Vittorio Alfieri, racchiudendovi retorica ed ambizione. Iniziò molto presto la produzione letteraria, distinto nella pratica di una diligenza formale e metrica.

Studiò presso la Scuola Normale di Pisa gratuitamente, completando in tre anni gli studi filologici; quindi si trasferì presso San Miniato al Tedesco, presso Firenze, per insegnare in una scuola media, ma fu presto allontanato, per essere stato sorpreso a mangiare carne il venerdì e quindi fu costretto a dedicarsi all’insegnamento privato.

Esordì fra il 1850 ed il 1860, periodo in declino per la nostra letteratura e soprattutto per la produzione poetica, la quale non produceva più effetti nella coscienza del popolo italiano. Aleardo Aleardi scriveva canti, che suscitavano una debole eco del Leopardi; Giovanni Prati presentava invece le forme della debole letteratura europea; eppure costoro risultavano i poeti alla moda, maggiormente esaltati. Il giovane Carducci avrebbe desiderato proporre uno stile, che si rifacesse alla forza evocativa di Virgilio e Dante. Uscirono quindi i suoi studi filologici nel dotto esercizio stilistico. In Juvenilia (1850), unì Orazio al Petrarca, Tasso al Marini, Dante levigato con Virgilio, confezionando una biblioteca poetica, che avrebbe auspicato il sorgere di una nuova letteratura interamente italiana.

Il clamore guerresco del 1859 non gli suggerì di prender parte come volontario nell’esercito piemontese, ma s’immerse nella produzione di poesie storiche, che rammentavano la vittoria dei Cimbri sui Romani, sulla morte di Alarico e Carlo Magno, realizzando – per sua stessa ammissione – declamazioni altisonanti e fredde allegorie.

Terenzio Mamiani (1799 – 1885)

Grazie alla qualità e profondità delle sue pubblicazioni, il Ministro dell’Istruzione, Terenzio Mamiani, lo fece nominare nel 1860 insegnante di Letteratura italiana presso l’Università di Bologna; Carducci aveva appena venticinque anni. Sarebbe rimasto fino alla morte, compiendo un ciclo d’insegnamento durato cinquant’anni, fortemente stimato dal corpo docente e studente e dall’Italia colta. Carducci dimostrò, nel corso dello svolgimento della sua professione cattedratica, di saper tener distinte la produzione letteraria dall’insegnamento.

Nel 1871, Roma si unì all’Italia, il Poetanon celebrò poeticamente l’evento, rimproverando alla monarchia di tollerare se non proteggere la chiesa. Negli Giambi ed Epodi (1867 – 1879), si manifestarono tutti i suoi furibondi eccessi, comincianti già coll’Inno a Satana (1865), principio di ribellione, di lotta e del progresso e fermento della vita, in contrapposizione coll’ascetismo imposto dal cristianesimo

A te de l’essere

Principio immenso,

Materia e spirito,

Regione e senso…

Salute, o Satana,

O ribellione,

O forza vindice

De la ragione!

Sacri a te salgano

Gl’incensi e i voti!

Hai vinto il Geova

De i sacerdoti.

Mentre esacerbava le sue furie poetiche, scriveva su Dante, che attraverso Beatrice gli avrebbe rivelato la bellezza del cristianesimo, Petrarca, Boccaccio, Poliziano; dopo aver studiato i tedeschi, tradusse Goethe, Heine, Klopstock, dove scoprirà la ricchezza del romanticismo.

Giovanni Pascoli (1855 – 1912)

Alla fine del 1870, grazie agl’intensi studi filologici, la purificazione si è felicemente compiuta ed egli pervenne ad una concezione formalistica della poesia. Nello stesso anno, dovette registrare la morte del figlio, Dante, di appena tre anni, ma non si abbandonò a lamenti poetici nello stile del Pascoli. In Pianto antico, si permise l’unica lacrima possibile dagli occhi, che mai avevano conosciuto pianto

L’albero a cui tendevi

La pargoletta mano

Il verde melograno

Da’ bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo

Rinverdì tutto or ora,

E giugno lo ristora

Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta

Percossa e inaridita.

Tu dell’inutil vita

Estremo unico fior,

Sei nella terra fredda,

Sei nella terra negra;

Né il sol più ti rallegra

Né ti risveglia amor.

Carducci si rivolse agli studi storici, immergendosi nella cultura egiziana con l’ode Alessandria; quindi la sua attenzione guardò all’ellenismo, non cercando il vero storico, ma trovando consolazione e rifugio dal presente.

«Tutta questa letteratura che esiste ora è abietta. Tutta questa società è tal cosa che non merita ci occupiamo di lei. Ritorniamo dunque all’arte pura, ai greci e ai latini!» scriveva nel 1874 all’amico Chiarini.

Giacomo Leopardi (1798 – 1838)

Quando ritenne oggetto di critica la cultura rinascimentale, dimenticò gl’innegabili influssi cristiani e mistici; non comprese l’importanza di Giordano Bruno, perché troppo lontano dal suo sentire poetico. Nel giudicare Leopardi, arrivò all’esaltazione delle giovanili canzoni patriottiche, più vicine al suo sentimento poetico. Egli esaltò il passato dell’Italia con passione, escludendo il papato ed il cattolicesimo, ritenuti stranieri dalla nostra cultura, e considerandoli intrusi e che tanto avrebbe desiderato cacciare, per poi col tempo accettare, anche per salvaguardare la grandezza e le bellezze ad esso legate. La vera religione del Carducci si rivelò nell’amore per la natura, come descritto nell’ode Su Monte Mario:

Solenni in vetta a Monte Mario stanno

nel luminoso cheto aere i cipressi,

e scorrer muto per i grigi campi

mirano il Tebro,

mirano al basso nel silenzio Roma

stendersi, e, in atto di pastor gigante

su grande armento vigile, davanti

sorger San Pietro.

Mescete in vetta al luminoso colle,

mescete, amici, il biondo vino, e il sole

vi si rifranga : sorridete o belle :

diman morremo.

Diman morremo come ier morirò

quelli che amammo: via da la memorie,

via dagli affetti, tenui ombre lievi,

dilegueremo.

Morremo; e sempre faticosa intorno

de l’almo sole volgerà la terra

mille sprizzando ad ogni istante vite

come scintille;

vite in cui nuovi fremeranno amori

vite che a pugne nuove fremeranno,

e a nuovi numi canteranno gl’inni

de l’avvenire.

E voi non nati, a le cui man la face

verrà che scorse da le nostre, e voi

disparirete, radiose schiere,

ne l’infinito.

Addio, tu madre del pensier mio breve,

terra, e de l’alma fuggitiva! quanto

d’intorno al sole aggirerai perenne

gloria e dolore

fin che ristretta sotto l’equatore

dietro i richiami del calor fuggente

l’estenuata prole abbia una sola

femina, un uomo,

che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti

tra i morti boschi, lividi, con gli occhi

vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,

sole, calare.

Sull’ode aleggia lo spirito epicureo, in un magma distinto in materialismo e positivismo moderno. Nella celebre ode Alla stazione in una mattina d’autunno, il poeta sentì il dolore del congedo, che manifestava al temporale d’autunno l’impressione del vuoto spirituale. Nell’ode Courmayeur, la sorgente alpina canta come un’antica sibilla le lotte delle generazioni del passato. Ne Alle fonti del Clitunno, la storia italiana si lega al paesaggio, fornendo un quadro eroico gigantesco.

Attraversando un lungo travaglio, sperimentò tutte le forme esistenti, rimate e non rimate, ma non ricevette soddisfazione da alcuna, allora inventò una forma di prosa ritmica, strofica e simmetrica: l’ode barbara, quale riproduzione degli schemi lirici greci e dei romani. L’opinione pubblica dapprima non accettò tale novità, per poi cedere alla grandezza manifesta. L’esperimento ebbe anche miseri imitatori, finché si capì che solo Carducci era in grado di esprimere nella giustezza il miracolo dell’inventiva. Purtroppo, non ebbe larga eco all’estero, per il contenuto non umanamente profondo e la lingua assai dotta. Mostrando arte e poesia, determinerà l’ulteriore svolgimento della letteratura italiana.

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