Nell’Infinito, lirica scritta nel 1819, si evidenzia la tecnica dell’antitesi, già rivelata nel paesaggio limitatamente circoscritto dall’ermo colle e quella
…siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
In questo componimento, Leopardi registra magistralmente il tratto delle circostanze, e la descrizione dei moti interiori; il vagheggiamento dell’immensità, che porta il Poeta quasi a smarrirsi, e lo sgomento tra gli estremi del tempo e della vita.
Forse un poco meno felice, risulterebbe – a nostro avviso – la verseggiatura del canto Il sogno (1820 – 21), con chiari riferimenti alla sesta canzone in morte di Laura del Petrarca ed il secondo capitolo dei Trionfi. Il Poeta immagina la sua donna, che nel sogno tenda a consolarlo, confessandogli che
di pietade avara non ti fui mentre vissi,
l’invenzione petrarcheggiante non soffocano il carattere tutto romantico, di cui è sentito il componimento.
Assai più riuscita – secondo il nostro giudizio – si rivelerebbe La vita solitaria (1821), che s’apre con la descrizione di un paesaggio nitido, quasi a suffragio dell’Infinito, di cui l’anima del Poeta conserva lo smarrimento dell’anima nell’immensità del silenzio e della quiete infinita:
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
Nell’invocazione alla luna, troviamo alcuni immagini piuttosto convenzionali, ciò che non si ripete affatto nell’ultimo idillio: La sera del dì di festa (1820)
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
L’infelicità, che prova Giacomo, si contempera con l’affetto della donna amata in un alternarsi nella rappresentazione degli spettacoli naturali ed i dettami della vita interiore:
…per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello.
L’intermezzo romantico si chiuderebbe col Consalvo (1832), dove il sogno diventa storia, nel rifiorire dell’immagine petrarchesca della donna diletta, che torna in una visione amorosa a consolare il poeta, il quale non poteva vivere le gioie dell’amore, per le quali si struggeva profondamente comunque, che aveva trovato nella morte un modo d’essere dei suoi primi dolori. Se Consalvo è Leopardi, chi sarebbe Elvira? Ella è come Silvia, un nome amato da Giacomo, poiché non è rintracciabile, dal momento che il canto non presenta colore alcuno di realtà, ma denuncia un generico sentimento dell’amore, ovviamente, non corrisposto.
Il componimento subì le riserve del Carducci, il quale affermò che come lavoro d’arte esso non ha valore1. Probabilmente giovò il confronto che il premio Nobel fece tra Consalvo ed il trovatore Jaufrè Rudel con i versi di Giacomo, che attribuì della «povertà di vita fantastica e al difetto di movimento delle due figure. Il poeta si sforzò riparare con l’esagerazione del rilievo nel lavoro, esagerazione fatta più appariscente del contrasto nelle forme dei tre elementi onde di compone il Consalvo, che ha il motivo finale da un racconto del medioevo ove la poesia è sol nell’azione, si svolge in un sentimento romantico d’inazione, è composto e verseggiato con le forme d’un neo – classicismo un po’ barocco. E la verseggiatura è ora gonfia e smaniante dietro i contorcimenti quasi spirali che parvero un giorno il sommo dell’arte nell’endecasillabo sciolto; ora, per affettare la crisi drammatica nel concitato favellare di Consalvo innanzi il bacio, è spezzettata affannosamente, o meglio sfinimenti di Consalvo dopo il bacio sdilinquisce2».
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(1) GIOSUE’ CARDUCCI. Jaufrè Rudel. Poesia antica e moderna, pag. 10. Bologna, Zanichelli 1888.
(2) Op. cit.