«Ecco l’inverno, sentilo che viene!» Lettera di Pier Paolo Pasolini a Franco Farolfi dell’inverno del 1941.

Davvero interessante il giudizio assai lusinghiero, che Pasolini espresse sulla decadente musica di Debussy, così vicina ai pittori impressionisti.

Quindi la promessa di corteggiare qualche bella ragazza, utilizzando il filo dell’ironia; è la seconda volta che il Poeta annuncia la sua volontà di scoprire l’universo femminile, anche se con tratti ingenui o, appunto, ironici.

Il doveroso omaggio all’influenza di Baudelaire, pur precisando che la «maledizione» non sia stata l’essenza della sua poesia, alla quale mancherebbe qualsiasi afflato futurista, piuttosto che un’inclinazione ungarettiana ne «L’incantatore di serpenti».

Pasolini si lamentò anche del lavoro di ricerca, cui era – suo malgrado – sottoposto, sulle Rime del Tasso, al fine di soddisfare le esigenze del docente di Letteratura, il professor Calcaterra. Ricercare sul Tasso, non lo esaltava affatto, poiché nel suo spirito aleggiava forte la presenza di Ungaretti.

Fu sempre presente la pratica dello sport nella vita dello Scrittore, come la pallacanestro – almeno in età giovanile -; pur ammettendo di non riuscire da campione, ne riceveva comunque consolazione, così come nello sci (davvero poetica la descrizione dell’ambiente montanaro delle Dolomiti).

Preso da «furor poetico», Pasolini compose una poesia, che inviò all’amico Farolfi, attendendo un suo sicuro giudizio. Emerge che l’atto poetico sia avvenuto su schemi logici, quasi prestabiliti.

Caro Franco,

ieri ho ricevuto la tua lettera.

Debussy lo conosco poco, ma quel poco mi piace moltissimo: non posso dire altro.

Claude Debussy (1862 – 1918)

Al primo momento di buon umore e d’ozio ho già pronto un piano d’abbordaggio; mi avvicino a una ragazza carina qualunque, la saluto levandomi il cappello e glielo metto sotto la bocca dicendole «sputateci dentro»: lei naturalmente non ci sputa ed io la ringrazio pel piacere che mi fa non sputandoci dentro. Quindi mostro di sentirmi in obbligo e di doverle ricambiare il piacere, e faccio il gesto di pestarle un piede, ma all’ultimo momento non glielo pesto. «Ora siamo amici, le dirò, perché coloro che si scambiano gentilezze e piaceri sono amici». E così ce ne andremo a spasso per viali cantando, e sussurrando parole d’amore.

Charles Baudealire (1821 – 1867)

Le mie due poesie1 non mi piacciono più: mi sono fra le più antipatiche, solo d’«invettiva» mi paiono belli il primo2 e gli ultimi due versi3. Forse, dato che leggi Baudelaire, è giusto quel che tu trovi di poeta maledetto in me; ma fra la mia e tale poesia c’è una differenza sostanziale: in me la poesia maledetta non rappresenta che saltuarie contingenze, mentre nei poeti maledetti è il partito preso, la sostanza, l’essenza.

Ardengo Soffici (1879 – 1964)

Quando poi a Soffici ed ai futuristi; non c’è assolutamente nulla; c’è se mia nella prima (non nei concetti ma nel suono) un andamento ungarettiano. Ma non meritano assolutamente altre parole.

Torquato Tasso (1544 – 1595)

Sono, ora, preso nel vortice di una nuova occupazione, l’esercitazione d’italiano; le Rime del Tasso dopo S. Anna: la bibliografia è immensa, sono orami in totale quattro ore di lavoro in biblioteca, solo per annotare e guardare che libri vi siano intorno a questo argomento. E’ questo il classico lavoro universitario, fatto per puro senso di retorica e di erudizione, da cui aborro e che stroncherò con atto di coraggio, sul viso stesso al professor Calcaterra4, quando pronuncerò la mia relazione.

Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970)

Cosa può importare a me, che idolatro Cézanne, che sento forte Ungaretti, che coltivo Freud, di quelle migliaia di veri ingialliti ed afoni di un Tasso minore?

Vado spesso a giocare a palla – canestro: sono schiappone, ma mi diverto molto, lo sport è veramente la mia più pura, continua, spontanea consolazione. Ora ho una voglia frenetica di andare a sciare: sogno le dolomiti, come una terra alta, sopra le nubi, solatia, risonante di grida e risa. Ti ricordi come in cima ai picchi il vento sollevi nembi di nevischio, quando tutto è sereno? E le camerette di legno, i bambini del paese, e tutte le altre magnifiche cose? Pensa inoltre che noi passiamo i nostri vent’anni senza una festa da ballo. E’ triste, per non dire disgustoso: ma noi siamo virili e guerrieri.

Accludo a questa lettera una poesia che ho scritto circa un mese fa; non ti obbligo a leggerla, ma penso che probabilmente ti interessa; e poi interessano soprattutto a me i tuoi giudizi freschi e spontanei. L’ho scritta in uno di quei momenti che i classici sogliono chiamare «furor poetico»: scrivevo senza sapere quello che avrei scritto e come sarei andato avanti, eppure i versi mi uscivano chiari, come prestabiliti. Ero triste e pieno d’ignoti desideri: scrivendo mi sono sfogato. Rileggendo a distanza di tempo questa poesia ho ritrovato lo stato d’animo che me l’ha ispirata. Essa è soltanto uno stato d’animo: il titolo e il significato logico gliel’ho dato in seguito; il significato narrativo, logico, è dato dalla leggenda del suonatore di flauto che si fa seguire, incantandoli, dai fanciulli di un paese, e poi li chiude dentro una grotta; il significato allegorico è: il suonatore di flauto rappresenta il passaggio, segreto, dall’ingenuità alla malizia, dall’impubertà all’adolescenza.

Tutto ciò, ti ripeto, è secondario e susseguente; è parallelo al significato principale che ha fatto nascere la poesia che è rimpianto della fanciullezza perduta ed esaltazione della giovinezza violenta e sensuale.

Il flauto magico

Ecco l’inverno, sentilo che viene!

il vento soffia; le nubi, scompigliato mare

aprono gli occhi fuggendo senza tregua:

mi coprono il volto i capelli di quei nudi sogni

gelidi e fuggenti! Sui colli è il fango,

umide le forre curvano le schiene, gli antri

ed i muschi odorano di morti.

Oh, ch’io di qua mi fugga e cada via

sulle benigne schiene di quei monti

dove, di verdi ramarri incoronati

e di stillanti gemme,

conduca il sole per mano primavera,

rami agitando e frondosi peschi!

Oh, ch’io mi tenga fra le ferme mani

la forata canna, e così dolce suoni

per le piane e le piazze, le forre ed i canneti,

le ridenti contrade e gli orti seminati,

i paesi, le strade, e via pei verdi rugiadosi broli,

così dolci suoni, e così bello vada

il mio corpo di fanciullo adulto,

che non indugi la stirpe dei ragazzi,

non sprezzanti né ostili, ad inseguirmi

con incerto passo. Cantino poi con me

le melodie, danzino poi con me tutti fioriti

di cinte e serti, tutti turbati di novello amore.

Suona, o mio flauto tenero danzante!

Ammirate, fanciulli, l’agevole mio passo?

Nel tergo glauco io porti il più piccino:

lì con le mani giuochi, tra il serto che mi cingo

di bianchi fiori. Andiamo, tenera mia greggia:

il monte è largo, umida la selva.

Io vi farò miei schiavi, ed il più bello

(quale fra voi?), lucidi i capelli

se ne starà diritto presso la mia coppa.

E’ primavera. Io sono il principe. Andiamo.

E’ dolce il marzo delle vostre membra,

teneri uccelli, fuggiti dal bosco!

Voi non udite il pianto delle madri?

Piangono esse sopra i letti vuoti!

Ma andiamo, è primavera, e romba il tuono,

e ad ogni passo l’ora s’allontana…

vergini impubi, e voi nel vico guardarmi non ardite:

l’impudico segreto della mia adulta vita si vergogna!

Vi narrerò, col suono del mio flauto

Delle trascorse nudità notturne la cupida violenza.

.

Tanti saluti e auguri ai tuoi.

Ti abbraccio

Pier Paolo

.

(1) L’incantatore di serpenti e Invettiva.

(2) Vi stanerò, stupide bestie grasse,

(3) Ché se il mio cuore è uno storpio fuggente

È anche un eroe barbuto e furibondo

(4) Docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna, al quale Pasolini presenterà la tesi di laurea sul Pascoli.

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