Giove nacque da Saturno e Rea.
Dopo aver bandito il padre, s’impossessò del dominio dell’Olimpo e distribuì il potere coi fratelli, ritenendo per sé il cielo.
Essendo iniziato il suo regno con un delitto, non riuscì a governare in pace, perché Gea, desiderosa di vendicare i suoi nipoti, i Titani, precipitati nel Tartaro per volontà di Giove, istigò i Giganti, figli dei prigioni, alla ribellione contro il padrone del cielo. Gli assalitori allora unirono più montagne, al fine di raggiungerlo, molte delle quali precipitarono in mare, originando le isole. Giove chiamò in soccorso gli Dei, che rifiutarono l’invito, rifugiandosi in Egitto sotto spoglie animalesche, e forse da quest’episodio sarebbe poi nata la venerazione che gli egiziani avrebbero provato per gli animali.
Allora Giove saettò con la folgore gli assalitori, vincendoli. Tra i più feroci nemici, si distinsero il gigante Encelado, confinato da Giove nelle viscere dell’Etna; ed il centimane Briareo, sotterrato nell’isola di Ischia con Tifone, metà uomo e metà serpente:
Vedea Briareo, fitto dal telo
celestial giacer, da l’altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo1.
Ottenuto ormai l’impero del mondo, Giove incaricò Prometeo, figlio di Giapeto, di formare l’uomo, ad immagine e somiglianza del padre degli dei. Egli unì dell’acqua e del fango ed alitò il fuoco sacro rapito dal carro del Sole, scatenando l’ira di Giove, che ordinò ad Efesto di catturare il titano, per condurlo agli estremi confini della terra ed incatenarlo ad una rupe, dove un’aquila gli avrebbe roso di giorno il fegato, che sarebbe ricresciuto di notte. Più tardi, per volontà di Giove, Prometeo sarebbe stato liberato dall’intervento di Ercole.
Intanto gli altri dei sentirono della gelosia e fastidio per non essere stati interpellati a proposito della nascita dell’uomo e ciò li arrogò il diritto di formare una donna, dotata da ciascuno delle deità di doni speciali. Pallade le donò la saviezza, Venere la bellezza, Apollo l’arte della musica, Mercurio l’eloquenza: ella fu Pandora (πᾶς, tutto, e δῶρον, dono), perché formata dal dono di tutti gli dei. Anche Giove volle partecipare alla nuova creazione, sicché le regalò un vaso, dove potesse contenere tutti i doni ricevuti, da regalare a Prometeo, che – per timore dell’inganno – rifiutò il vaso, il quale fu accolto dal fratello Epimeteo, che sposò anche la donna. Quando fu aperto il vaso fatale, tutti i mali si sparsero sulla terra, mentre la speranza, vero dono celeste, restò nel fondo.
Giove si esercitò nella protezione di diverse mortali; al fine di conquistare la principessa fenicia, Europa, si tramutò in un toro, generando Minosse e Radamanto; per trasportare in cielo Leda, si mutò in un cigno, procreando Castore e Clitennestra; comparve nella forma di un satiro, per fecondare Antiope, regina delle Amazzoni, e generare Zeto ed Anfione; assunse le sembianze di Anfitrione, per congiungersi con la moglie Alcmena, generando Ercole. Si tramutò in pioggia d’oro, per penetrare nelle fessure della stanza di metallo, ov’era imprigionata Danae, madre di Perseo; assunse le sembianze di un giovinetto, per fecondare Semele, madre di Bacco; si finse Diana, per dare un figlio a Calisto, Arcade; ed in forma di pastore si palesò a Mnemosine, per generare le Muse.
Il lapito Perifa, re di Atene, fu assunto quasi agli onori divini per le meritevoli azioni condotte contro i centauri, attirando le gelosie di Giove, che mal sopportava che un mortale ricevesse troppi complimenti. Deciso così a fulminarlo, Apollo intercedé, ricevendo il permesso di trasformare l’uomo nell’aquila, simbolo di Giove e custode delle folgori.
La capra Amaltea, che aveva allevato l’imberbe padre degli dei, fu posta tra le quarantotto costellazioni antiche, mentre il corno dell’abbondanza o cornucopia fu donato alle Ninfe, fidate nutrici.
Licaone, figlio di Pelasgo, sovrano dell’Arcadia, si distinse nel voler sacrificare per primo degli animali agli dei, manifestando così tutta la sua crudeltà, quando decise di offrire in olocausto tutti gli stranieri, che sarebbero passati nel suo regno. Giove assunse sembianza umana e chiese dell’asilo; quando fu giunta la notte, Licaone si organizzò, per togliergli la vita, ma fu colto da un dubbio: sapendo che spesso gli dei solevano scendere sulla terra, s’argomentò di scoprire la vera identità dello straniero, imbandendogli della carne umana. La fiamma vendicatrice distrusse il palazzo di Licaone e l’empio fu trasformato in un lupo.
Giove fu nominato Lucezio o Diespiter, padre del giorno; Feretrio, perché il suo tempio ospitava le spoglie dei vinti; Ospitale, quale preposto all’ospitalità; Tonante, Dio delle mosche, perché, quando Ercole offriva sacrifici agli Dei fu assalito da uno sciame di mosche, ma offrendo la vittima a Giove, gl’insetti si dileguarono.
In Roma, fu nomato Giove Statore, perché grazie alle preghiere di Romolo, aveva trattenuto i Romani davanti ai Sabini. Il re volle poi che si edificasse un tempio dedicato al dio. Giove Laziale, poiché protettore dei popoli latini; Giove Capitolino, perché adorato in Campidoglio.
In Africa, era detto Giove Ammone, poiché, essendo Bacco prossimo alla morte per sete, implorò il suo soccorso, che si manifestò in forma d’ariete, per battere la zampa, scaturendo la fonte d’acqua. Bacco in omaggio al miracolo gli consacrò il tempio di Giove Ammone (da άμμος, sabbia) e lo rappresentò in forma d’ariete, le cui corna simboleggerebbero la forza ed il coraggio.
Gli uomini antichi tributarono il culto più solenne al padre degli dei. Il tempio più maestoso fu edificato nella città greca di Olimpia, dov’era possibile mirare la statua scolpita da Fidia.
I suoi oracoli erano in Dodona, nell’Epiro, una regione ricca di querce (pianta al dio dedicata), dove vi eressero un tempio, per adorarlo sotto il nome di Giove Dodoneo. Da quella foresta, fu tratto il legno, che sarebbe servito agli Argonauti per il loro viaggio. Al dio, erano immolati la capra, la pecora ed il toro bianco oppure sale, farina ed incenso.
Il Giove greco – romano fu rappresentato con maestoso aspetto, con lunga e folta barba, assiso sopra un trono d’avorio, con la folgore stretta nella mano destra quale simbolo d’onnipotenza, ed una statua della Vittoria nella sinistra. Le Virtù sono sedute al lato, ed ai piedi l’aquila a lui consacrata.
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(1) DANTE ALIGHIERI. Inferno, Canto XII, vv. 28 – 30