Christopher Willibald Gluck fu artefice di un’importante «riforma» del melodramma, meritando certamente forti responsabilità nel campo dell’espressione lirica, piuttosto che nella rappresentazione drammatica, considerata da Benedetto Croce contraria alla natura fantastica della intuizione. Gluck si formò, dal 1737 al ’41, sotto l’esperta guida di Giovan Battista Sammartini a Milano, presentando poi le sue prime opere in diversi teatri italiani, debuttando con l’Artaserse, presso il Ducale nel 1741 e concludendo la parabola con il Poro, presso il teatro Regio di Torino nel 1744. L’anno successivo si trasferì a Londra, dove conobbe Haendel, per seguire le peregrinazioni delle compagnie italiane, componendo pasticci ed opere d’occasione.
Nel 1756, fu invitato dal conte Giacomo Durazzo, perché componesse un’opera per il Teatro Argentina di Roma, Antigono su libretto di Pietro Metastasio, la quale non accennò a idee riformatrici e laddove il genio iniziò, seppur discontinuamente, ad affiorare.
Fu senz’altro influenzato dal ballerino fiorentino, Gaspare Angiolini, il quale considerava la danza quale mezzo espressivo, nella codificazione del linguaggio drammatico, che risultò compiuto nell’Orfeo ed Euridice, rappresentato presso il Burgtheater di Vienna su libretto di Ranieri de Calzabigi. Le idee riformatrici furono in parte formate sui ragionamenti di Francesco Algarotti e dello stesso librettista toscano, in merito al quale Gluck scrisse:
«Il principale merito tocca al signor Calzabigi e se la musica ha avuto qualche splendore credo di dover riconoscere che gliene sono debitore».
Nelle sue opere continuò ad esercitare pienamente l’arte italiana, cosicché, quando a Parigi scoppiò la polemica tra piccinnisti e gluckisti, Padre Giovan Battista Martini (l’insegnante di Mozart) sentenziò che Gluck aveva armonizzato le più riuscite intuizioni drammatiche dell’arte italiana, con alcune della francese ed il bello della musica strumentale dei tedeschi. Il giudizio dell’illustre francescano sollevò delle forti polemiche in Parigi tra i sostenitori dell’opera italiana, che considerarono il padre un traditore della causa. L’Italia ebbe comunque non pochi meriti nella definizione dei canoni riformatori, i quali sarebbero stati seguiti ed attuati poi da Salieri, Spontini e Luigi Cherubini.
Iphigénie en Aulide fu rappresentata il 19 aprile 1774 presso l’Opéra di Parigi, risultando una felice elaborazione verso ulteriori conquiste del teatro musicale moderno. Il musicista non fu aiutato affatto dall’uso della lingua francese, meno incline, poiché maggiormente povera di quella italiana, di vocali, e quindi più adatta al vero genere drammatico, secondo l’errato giudizio del librettista, François-Louis Gand Le Bland Du Roullet. Infatti, forti inclinazioni drammatiche erano state raggiunte in lavori precedenti in lingua italiana come il già citato Orfeo, Alceste (Burgtheater di Vienna, 1767) e Paride ed Elena (sempre in Vienna, 1770).
Nel 1773, Gluck scrisse al Mercure de France:
«La mia musica tende solamente alla più grande espressione e a rinforzare la declamazione della poesia. Ed è perciò che io non uso i trilli, i passaggi, né le cadenze, che gl’italiani prodigano. La loro lingua che si presta con facilità non mi offre perciò alcun vantaggio: essa ne ha indubbiamente molti altri; ma, nato in Germania, per quanti studi abbia fatto della lingua italiana e la francese, non credo mi sia consentito apprezzare le delicate sfumature che possano far preferire l’una all’altra. Mi converrà sempre quella in cui il poeta mi fornirà il maggior numero di mezzi vari per esprimere le passioni».
Egli si sentì guidato dall’«imitazione della natura, nella ricerca di una melodia nobile, sensibile e naturale, con una declamazione esatta, secondo la prosodia di ciascuna lingua e il carattere di ciascun popolo».
Gluck riuscì a giungere ad una forma drammatico – musicale di forte impatto emotivo, grazie alla riflessione condotta sul testo nell’intuizione compositivo del genio, ben lontano da qualsiasi arido atto programmatico nella concezione del dramma. Andrea Della Corte nello studio, Gluck e i suoi tempi (Sansoni, 1948), scrisse:
«Certamente Gluck osservò, mediò, criticò, anche decise. Ma si può ingenuamente supporre che, caso per caso, abbia voluto o riformare o rivoluzionare, correggere o migliorare, il recitativo e l’aria, il coro e il balletto, e questo o quell’elemento tradizionalmente italiano o francese? Si può immaginare un artista polemico? Non fecondo, ma riflessivo, non era pertanto un intellettuale da tavolino, un artefice di forme. Ciò che grandeggia nella sua arte è l’intensità del sentimento, e questa sempre s’incarnò in una sua forma. Quando il vigore scemava, tornavano comodi gli schemi ed i procedimenti dozzinali. In lui non è da scorgere un’evoluzione conseguente verso una meta prefissa, un ideale, una novità e usanze, superamenti e stanchezza. E’ la bellezza delle sue opere sta nelle realizzazioni del suo più forte sentimento».
La trama. Atto primo. L’esercito greco è in attesa di salpare per Troia, quando il cielo di Aulide improvvisamente si abbuia, a causa della rabbia di Diana nei riguardi di Agamennone, al quale gli oracoli chiedono la vita di sua figlia, Ifigenia, perché torni il sereno. Il re dell’Argolide e capo supremo degli Achei trema al pensiero che presto la figlia raggiungerà Aulide, in compagnia della madre, Clitemnestra, affinché possa incontrarsi con il promesso sposo, Achille, re della Tessaglia. Per tentare di salvare la vita all’amata prole, invia Arcante, capitano delle sue guardie, a Micene, affinché sparga la falsa voce dell’infedeltà di Achille. Il messo giunge in ritardo, quando un carro festoso, con a bordo la promessa sposa, giunge, seguito da guardie e cortigiani, salutato festosamente dal popolo riunito in Aulide. Clitemnestra, dopo aver ricevuto gli omaggi dei sudditi, si allontana ed, incontrando Arcante, conosce dell’infedeltà di Achille, il quale si precipita da Ifigenia, onde rassicurarla in merito e preparare il corredo nuziale.
Atto secondo. Il re ha concesso le nozze tra la figlia e l’eroico Achille, il quale è stato prescelto ad assumere il comando dei greci contro Ettore ed i Troiani. Il corteo nuziale ha finalmente inizio, quando giunge Arcante, per comunicare alla sposa, che dovrà abbandonare la cerimonia, poiché è stata prescelta vittima dal padre in sacrificio a Diana. La frustrazione contro la decisione di Agamennone è notevole, mentre Achille si dichiara deciso a punire il re per simile decisione, Clitemnestra difenderà in ogni modo la vita dell’amata e disgraziata figlia. Agamennone deve affrontare Achille, ma, quando è sul momento di dover decidere la sorte della figlia, in disubbidienza della volontà deistica, ordina ad Arcante di accompagnare la regina e Ifigenia a Micene, onde nasconderle agli occhi di tutti.
Atto terzo. Il popolo chiede a gran voce che si compia il sacrificio, per consentire la partenza alla volta di Troia. Ifigenia, disobbediente alla volontà paterna, sembra pronta ad affrontare il suo crudele destino, tanto da respingere Achille, che vorrebbe indurla a fuggire, per salvarsi. Nulla sono valse le suppliche della madre, che è sul punto d’impazzire dal dolore. Sulla riva del mare, Ifigenia è inginocchiata, pronta al sacrificio estremo, davanti a tutto il popolo greco accorso, quando Achille, seguito da alcuni armigeri, disarma il boia Calcante. Clitemnestra si offre vittima al posto della figlia, invocando l’intervento di Giove. Un tuono squarcia le nuvole, annunziante che l’ira di Diana è finalmente placata, perché colpita dall’altissimo senso del dovere di Ifigenia e dal sincero dolore di Clitemnestra. La gioia invade gli astanti, che si esercitano in canti e danze, mentre si appresta il cerimoniale, per la celebrazione delle nozze.