Esiodo nella Teogonia spiega come prima del Principio ci fosse il Caos; poi Gea, quale ricovero sicuro per tutti gl’immortali, di cui l’autore non lascia traccia dell’origine, e nei recessi il Tartaro oscuro; quindi Eros, l’Amore.
Omero narra che alla Madre Terra gli uomini offrissero dei sacrifici, così come si rivelerebbe nel Terzo libro dell’Iliade.
Il tragediografo greco Eschilo ricorda come le offrissero gli stessi sacrifici dediti agli dei inferi, chiamati inferie dai Latini, mentre il poeta romano Quinto Orazio Flacco le assegnò il maiale quale vittima sacrificale.
Nella tomba dei Nasoni, lungo la Via Flaminia, una pittura la ritrae come figura di donna assisa sopra un rupe, che assiste all’aspro combattimento tra Ercole ed Anteo.
In una medaglia di Giulia maggiore, figlia di Augusto, la Terra posa la destra sopra un globo stellato, dove sono rappresentate le quattro stagioni in vece di quattro fanciulli, che la guardano. L’Inverno ha un manto, che gli pende dagli omeri; gli altri sono rappresentati nudi. Essa si finge madre del Cielo e delle stelle.
In un’antichissima lucerna, conservata presso il Museo capitolino, la Terra si trova tra i sette pianeti, seguendo l’interpretazione dello scrittore, Macrobio. Essa ha alla destra l’alato Mercurio, mentre alla sinistra un turbato Saturno sembra riflettere pesantemente. Marte coll’elmo e Venere colle chiome annodate pongono tra loro Gea, mentre la Luna ha di fronte Giove, ed in mezzo il Sole raggiante. Seguendo l’antica teoria geocentrica, i pianeti sarebbero così rappresentati a significare l’effetto ch’essi avrebbero sulla Terra ciascuno nel proprio giorno.
I Latini imposero ad Eros il nome di Cupido, il quale non avrebbe – secondo Esiodo – dei genitori, ma succederebbe al Caos ed a Gea.
Per la poetessa greca Saffo, Eros nacque dall’unione di Venere col Cielo, mentre lo storico greco Acusilao (VI – V secolo a. C.) lo immaginò nato dalla Notte e dall’Etere.
Il poeta siceliota Teocrito, inventore della poesia bucolica, lo favoleggia nato dal Caos e dalla Terra.
Marco Tullio Cicerone, invece, individuò tre Eros; il primo, figlio di Mercurio e Diana; quindi figlio di Mercurio e Venere; e l’ultimo nato da Venere e Marte.
Il pittore greco Zeusi raffigurò Eros colle ali coronato di rose.
Gli furono assegnati vari simboli, tra cui l’arco e la face. Innumerevoli furono gli attributi affidati dai poeti antichi.
Il poeta romano Properzio lo descrisse fanciullo ed impacciato nello scagliare la freccia, che spesso colpiva il bersaglio sbagliato, a testimonianza che l’amore è cieco.
Il biografo greco Plutarco scrisse che Eros fosse il compagno delle Muse, delle Grazie e di Venere.
Anche Francesco Petrarca, rivisitando le antiche interpretazioni, scrisse ne Le Rime:
Ei nacque d’ozio e di lascivia umana,
Nudrito di penser dolci, e soavi,
Fatto signor’, e Dio da gente vana.
Nella città di Megara, Eros fu scolpito da Skopas insieme al Desiderio ed alla Passione.
Il pittore greco Pausia dipinse Eros nel tempio di Esculapio in Epidaurio, che imbracciava la lira.
Nella città della Beozia, Tespie, Eros era venerato come tra gli dei più antichi sotto forma di pietra informe, la quale fu tolta da Gaio Giulio Cesare (101 a. C. – 44 a. C.), restituita dall’imperatore Claudio (10 a. C. – 54 d. C.) e definitivamente trasportata in Roma per ordine di Nerone (37 – 68), dove fu consumata nel fuoco.
I Tespiesi organizzarono delle feste in onore, articolate in gare di musica e di ginnastica.
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AMORE E PSICHE.
E tu, cura soave
Di tacite donzelle,
Cui mentre Ebe sorride, il giovin seno
Penetri ardito, i nostri carmi avrai;
Né la candida tua Psiche, e le belle
Forme, e la notte, e gli amorosi guai
Inonorati andranno.
Or ella è teco, e dell’antico affanno,
Che ricompensa un più propizio Fato,
Dolce memoria suona
Per l’Olimpo beato.
Vergine avventurata in mortal velo
Di bellezze immortali adorna apparve;
Stupì vedendo, e l’adorò la terra.
Venere al terzo Cielo
Tornò da’ freddi suoi vedovi altari
Te consigliando alla giurata guerra.
Ma la vendetta invano
Volgean gli occhi di Psiche.
Ardesti, e a te l’antiche
Arma cadean di mano.
Vittima incerta entro a funereo letto
Tradotta al monte, abbandonata e pianta,
Giù per valli profonde in ricco tetto
Peso a un Zefiro amico ella scendea.
Là di se in forse i vuoti di vivea
Fra tema e speme a sconosciuto amante;
E tu le usate prove,
Terribil Nume, esercitar solevi
Sovra Nettuno e Giove;
Poi col favor dell’ombre
Ti raccogliea nella segreta reggia
Talamo aurato d’immortal lavoro.
Ivi alle tue fatiche
Offria dolce ristoro
Il molle sen di Psiche.
Irrequieta Diva,
Che nelle gioie altrui t’angi e rattristi,
Tu dall’inferna riva
L’aure a infettar del lieto albergo uscisti;
La giovinetta intanto
Gli avidi orecchi a tue menzogne apriva;
Né vide più nell’amator celato,
Che spoglie anguine ed omicida artiglio,
Fin che il terror poteo nel cor turbato
Strano eccitar d’atrocità consiglio.
E già un placido sonno
Gli Occhi d’Amor chiudea,
Quando alle quete coltri
Perversa il piè volgea.
Apparia nella manca
La lucerna vietata;
Era l’infida e mal secura destra
D’ingiusto ferro armata.
Primi s’offriro ai desiosi sguardi
Sovra l’estrema sponda,
Amor, gli aurei tuoi dardi:
Psiche li tocca appena, e n’è ferita.
Scorge la chioma bionda,
Il volto e l’ali, Amor conosce ed ama;
E cade il ferro, e la lucerna incauta
Coll’ardente liquor l’omero impiaga.
Fuggiva il sonno; a lei vergogna e duole
L’alma pungean. Tu rapido movevi
Per l’aura lievi a volo.
Te ritenne Citera. Ivi t’accolse
La rosata di Psiche emula antica,
E medicava la pietosa mano
L’offese della tua dolce nimica,
Mentre la sconsolata
Te richiamava lagrimando invano.
Parlò a lungo il dolore,
Poscia il furor non tacque,
E invocò morte, e si lanciò nel fiume:
Cara un tempo ad Amore
La rispettaron l‘acque.
Lei che raminga in traccia
Del perduto Signor scorrea la terra,
Incoraggì soave
La Dea, che al crin le bionde spiche allaccia;
A lei stendea le braccia
Racconsolando, e la compianse Giuno.
Sola Venere altera
Non calmò l’ire gravi, e su l’afflitta
Compier giurò la sua vendetta intera.
Chi dir potria l’oscura
Carcere, e i duri uffici!
Chi l’auree lane, e la difficil‘onda!
Amor dov’eri? a te che tutto sai,
Come furono ignoti
Della tua Psiche i guai!
Ella, come imponea la sua tiranna,
Osò d’entrar per la Tenaria porta,
E por vivendo il piede
Ne’ tristi regni della gente morta.
Allo splendor dell’auro
Lei l’avaro nocchier pronto raccolse,
E varcò la palude.
Latra Cerbero invano,
Le gole il cibo e gli occhi il sonno chiude.
Ella passa, e il soggiorno
Tenta di Pluto, e il fatal dono chiede:
Ricusa i cibi, e al giorno
Da Proserpina riede.
Deh qual ti mosse femminil disegno,
Psiche, ad aprir la chiusa urna fatale?
Là dell’ira immortale
Era il più orribil pegno:
Ed ecco un vapor nero
Uscia la cara a te luce togliendo,
E rendea l’alma al mal lasciato impero.
Ma vide Amor dall’alto,
Vide, e pietate il prese:
Sentì l’antica fiamma,
Ed obliò le offese,
E a più beata sorte
La conservò da morte.
E volgea ratto al sommo Olimpo l’ali,
E innanzi al Re, che i maggior Dii governa,
Narrò di Psiche e di se stesso i mali,
E chiedea modo a tanta ira materna.
Impietosiva il gran Tonante, e Imene,
Siccome piacque a Citerea placata,
Obblio versò sulle fraterne pene;
E l’ambrosia celeste Ebe ministra
Dolce a Psiche porgea.
Ella bevve, e fu Dea.
(Ludovico Savioli)