I rapporti tra i rappresentanti del Futurismo e gli aderenti si rivelarono assai problematici, tanto da sfociare spesso in incidenti il 15 aprile 1919 ne rappresentò il punto di arrivo.
Negli anni prebellici, il socialismo neutralista di Filippo Turati aveva trovato il suo tenace avversario nella forza interventista dei Futuristi. La rivista Lacerba, fondata a Firenze da Giovanni Papini e Ardengo Soffici nel 1913, si schierò col movimento fondato da Marinetti, pubblicando il Programma politico futurista.
L’anno dopo, il Soffici scrisse nel suo articolo Per la guerra che «l’idea che socialisti si fanno del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni – tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente complessa, così colorita, così varia, multiforme, incoercibile – non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero una specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti, eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare». Concluse quindi che i socialisti – secondo la sua analisi – non capivano il motivo di una guerra, che era combattuta anche per difenderli dal comune nemico: i tedeschi. «Ogni buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i quali si servono del proletariato per liquidare le loro partite».
Nell’immediato periodo postbellico, la polemica rinfocolò su Roma futurista in un articolo di Mario Carli il 13 luglio 1919 (Partiti d’avanguardia: se tentassimo di collaborare?)
«Ho esaminato seriamente l’ipotesi di una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti, combattenti ecc.) e i Partiti cosiddetti d’avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, repubblicani. Il terreno comune c’è. E’ la lotta contro le attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chiamino borghesia e plutocrazia o pescecanesimo o parlamentarismo. Sono una casta che deve cadere e cadrà».
Alla vulgata, si aggiunse Giuseppe Bottai con due lunghi articoli del 9 novembre e del 21 dicembre 1919: «Futurismo contro Socialismo»:
«Noi siamo contro il socialismo, perché astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovato e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi di masse sociali. Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza. Siamo contro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria».
Il 14 dicembre del 1919 Mannarese espresse l’impossibilità di trovare un accordo in unione d’intenti e di lavoro fra le due avanguardie, sottolineando l’identità di socialismo e masse proletarie con loro relative e legittime aspirazioni.
Sette giorni più tardi, ancora Giuseppe Bottai confutò le tesi del Mannarese:
«Prima caratteristica del futurismo è questa, libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! Ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non già infirmare l’esattezza del grido futurismo contro socialismo».
Concluse Giuseppe Bottai con l’invettiva che non si potesse essere antisocialisti senza essere antiborghesi, confutando vieppiù l’equazione socialismo – proletariato, sostenuta dal Mannarese, essendo «il socialismo uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi», poiché «in parecchi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, operai, lavoratori – proletari!»
Purtuttavia, l’autore si riteneva capace d’intendere la portata economica del socialismo ed, al contempo, le esigenze dei ceti umili o dei proletari, proditoriamente intercettate. Bottai rivendicò per il movimento futurista l’azione, al fine di elevare il popolo, mancante dell’ottica assolutistica. Concluse postulando un programma nei rapporti col socialismo, dove, tra l’altro, non si escludeva «una possibile comunanza di vedute economiche: il che non implica affatto nessuna fusione», ribadendo che la volontà contraria al socialismo non significasse porsi contro il proletariato. Accusò il socialismo di miopia prospettiva rispetto alla visione degl’inizi e ciò fu particolarmente apprezzato, quando tanti socialisti confluirono nel nascente fascismo.