Il 7 maggio del 1915, Gabriele D’Annunzio fu invitato presso l’Ateneo di Genova, per ricevere una targa a cura dell’Istituto di coltura superiore genovese. Molte bandiere tricolori e gli stendardi dell’antica Repubblica genovese addobbavano i viali della Facoltà di Lettere, mentre le autorità si riunivano nell’aula magna. Quando il festeggiato entrò, fu subito acclamato a gran voce dai presenti; egli strinse calorosamente la mano di alcuni superstiti dei Mille, mentre i goliardi agitavano i berretti tradizionali.
Prese la parola il Magnifico Rettore dell’Università, il senatore professor Edoardo Maragliano, che nel suo intervento riassunse le nobili tradizioni universitarie, «focolare si studi e di passioni patriottiche, luogo di studi caro a Giuseppe Mazzini ed a cento e cento altri patrioti della grande epopea».
Seguì poi il discorso del presidente dell’Associazione universitaria di Genova, che con nobili parole, consegnò la targa al Poeta, celebrando così il suo ritorno in Italia dopo l’esilio parigino.
Quindi prese la parola D’Annunzio:
«Come ringraziare il Rettore magnifico, il Collegio insigne dei Dottori, voi tutti, o giovani, voi figli non inermi dell’Armata di San Giorgio, e voi qui convenuti dalle terre lontane, pellegrini d’amore in veste affocata, simile a quella passante nell’immaginazione di Dante prima dell’esilio? Come vi ringrazierò di avermi accolto in questa Sede severa dei vostri studi, e delle vostre prove, di avermi ammesso a questo focolare del vostro spirito, il più profondo fra tutti, dove due vostri fratelli immortali, uno coronato di mirto e di lauro, l’altro di cipresso e di quercia, custodiscono la fiamma che qui arde ai Penati del pensiero italiano? Quella fusione magnanima che l’altro dì ci parve di udire crosciare all’adunata del popolo intorno all’alto Simulacro, quella fusione di sangue e di anime io la sento in voi meravigliosamente perfetta, o compagni della più bella fra le mie speranze; o voi che per tanti anni, con sì costante fede io ho annunziato, aspettato, invocato. Ecco e non invano io ho ben veduto splendere i vostri occhi sul lido, sulle piazze, nelle vie e nei giardini! La bellezza d’Italia è così forte che mentre nel ritorno la presentivo, mentre la riconoscevo, ella sembrava mi fendesse il petto, mi percolasse con una gioia che era quasi dolore. I monti, la neve, l’ombra dei monti, i torrenti, i fiumi, i boschi rinverditi, le nuvole, i fiori, e quel che sulla terra è il cielo unico d’Italia, il lume d’Italia, l’odore d’Italia non comparabili ad altri mai. Tutto mi era ebbrezza e ansietà di passione!
Ma nei vostri occhi, ma nei vostri visi, ma sulle vostre fronti imperlate di sudore, nel vostro soffio io mi rivolgevo; ma nel sorriso di tutta la vostra freschezza io ho sentito una primavera più potente che quella delle selve, dei colli, dei prati, degli orti! Ho sentito una rinascita più impetuosa che quella d. tutte le altre creature! Ieri, in quei giardini di Andrea Doria, ove era disceso quel muto Leone di Trieste che stava a capo della strada dei Giustiniani, voi faceste di voi catena intorno a me, camminando lungo i balaustri, lungo le stipi, annodati per le braccia, vincolati per i polsi e per la mani, stretti l’uno all’alito, catena e ghirlanda, forza e gentilezza, resistenza e grazia! Accesi in volto, accesi negli occhi, fermi e «pieghevoli», voi eravate una vita sola! Siete una giovinezza sola, siete un’altra Giovane Italia!
E il fuoruscito senza Beatrice rivivente, adolescente come voi, un po’ più pallido di voi, ma immune degli anni, immune della morte, si conduce come uno di quei semidei che guidavano la primavera sacra per le conquiste misteriose. E Goffredo è presente colla sua bella chioma intonsa e coi suoi begli occhi marini: egli torna dall’aver lavato il cavallo polveroso nel Timavo, come uno del due Dioscuri lavò il suo quando il Timavo era un fiume latino! Egli ora ben conosce la via che passa da Aquilea e va verso San Giusto, e più oltre, e più oltre! E Jacopo Ruffini non deterso del sangue che oggi luce d’Oriente, sarà il valido Alfiere della coorte giovanile.
Giovani! Ora è molti anni ad un’altra adunata di giovani dicevo: «Ah, se potessi tendere a ciascuno la mano fraterna e leggere nei limpidi occhi il proposito certo!» Dicevo: «Voi siete l’imminente primavera d’Italia! La mia fede, la mia costanza, la mia aspettazione mi fanno degno di essere l’annunziatore della vostra, volontà vittoriosa».
La vostra volontà vittoriosa ora è in piedi, è armata e sta per irrompere! Se vi guardo, se vi considero, l’Italia mi sembra una vergine terra, come quando apparve ad Acate protesa dalla nave fatale, come quando per la prima volta su questo mare Tirreno risuonò la voce di ebbrezza del divino suo nome.
«Stanotte prima dell’alba molti di voi partiranno per la terra di lunge che divampa. I vostri petti sono messaggeri di fede, o pellegrini d’amore! Quella fiamma stessa che ardeva nei giovanetti notturni al sasso di Quarto, arde nei vostri cuori. Se è vero, come io giuro, che gli italiani hanno riacceso il fuoco sull’ara d’Italia, prendete i tizzi colle vostre mani e soffiate sopra essa. Teneteli in pugno, scoteteli, squassateli! Dunque passiate, ovunque andiate! E appiccate il fuoco, miei giovani compagni, appiccate il fuoco pugnace, siate gli incendiari intrepidi della grande Patria!
La notte — come si vedevano nella notte omerica i roghi accesi di monte in monte per l’annunzio delle vittorie — noi vedremo in sogno splendere lungh’essa l’Italia le vostre fiaccole correnti sino a Marsala, fino ai mari d’Africa. «Partite! Apparecchiatevi! Obbedite!» — diceva il sacerdote di Marte ai giovani consacrati. Voi siete la semente di un nuovo mondo. Partite! Apparecchiatevi, obbedite! Io dico a voi poiché mi fate degno di consacrarvi, poiché siete le faville impetuose del sacro incendio: «Appiccate il fuoco! Fate che domani tutti gli animi ardano! Fate che tutte le voci siano un solo clamore di fiamma: Italia! Italia!».
Le ultime frasi furono accolte da un crescendo straordinario di applausi, che si trasformò in una unga ovazione per l’Oratore. Tanti gli occhi che s’erano inumiditi. Il Poeta fu abbracciato ed a stento riuscì a sottrarsi al travolgente entusiasmo.