Giacomo Leopardi cercava fuori dalla storia e dal suo presente gl’ideali della vita, quando ripiegò su se stesso, per specchiarsi nella fantasia e cercare le condizioni dell’animo e della mente per il canto Alla sua donna (1823), non dedicata ad un’amata.
Pietro Giordani azzardò che celasse la libertà sotto il velo della donna, mentre Giacomo nell’articolo scritto sopra le sue prime canzoni:
«La donna dell’autore è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche volta nel sonno, o una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova».
Il Poeta manifestava un veemente bisogno d’amore, proveniente dal suo cuore, che lo accendeva di desiderio e proiettavano sullo spirito tutte le seduzioni. Raccolto in se stesso, vagheggiava quest’immagine di suprema bellezza, che gli brillava nella mente, seppur non poteva ricercare nella sua triste realtà.
La mutazione interiore del Poeta fu dovuta anche all’abbandono della solitudine di Recanati, per abbracciare il rumore delle vita nelle grandi città visitate, come Bologna, Milano, Firenze. I dolori fisici e le sollecitudini del suo animo modificarono la concezione della vita e quindi dell’arte, il cui preannuncio fu chiaro nei versi a Carlo Pepoli (1826), eccellente lavoro di stile, dove Leopardi concentrò quei concetti, che avrebbero fornito della materia ai più importanti suoi componimenti di prosa e di poesia. L’Epistola manifesta unisce il giovanile vagheggiamento delle care immagini, ed il disprezzo per la felicità, la gloria e l’amore, che in età più tarda avrebbe vissuto chiaramente. Egli augura all’amico di avere la capacità di astrarre il pensiero dalla realtà, per dedicarsi alle beate visioni, vera consolazione dell’animo. Prevede invece per sé la caduca virtù del caro immaginar, consolandosi tristemente quale investigatore del paurose forme del vero. Francesco De Sanctis così scrisse:
«L’Epistola è tutta in versi sciolti, con periodo a onda, con andatura franca e scorrevole, con abbondanza di epiteti, con familiarità di tono. Queste qualità spiccano più dirimpetto allo stile chiuso e concentrato e solenne delle Nuove Canzoni (pubblicate a Bologna nel 1824). La differenza procede dal genere, essendo chiaro che il poeta ha avuto innanzi il tipo oraziano, un’elegante familiarità, come in una conversazione tra gente a modo.
E non è solo la differenza di genere, che ci spiega una forma così aliena dalla sua maniera, ma ancora il suo stato morale. Qui non è più di chiuso e di solo, quell’umor nero e denso che senti nelle Canzoni. Anzi ci si vede un ambiente grato e un umore discorrevole, un’espansione che solleva lo spirito e rende ilare il volto, anche a dir cose tristi.
In effetto, tristissimo è l’argomento di questa Epistola. Si vuol provare che, non avendo la vita nessun altro fine se non la felicitò, o non potendo questo fine esser raggiunto, tutto quell’operare che si chiama vita non è ozio. E’ un concetto fondamentale della sua filosofia, espressa già poeticamente in diversi modi. Ma questo concetto, che nelle altre poesie è un sentimento connesso e intimo con la sua persona, qui piglia forma di una tesi, svolta accademicamente. Non trovi né la novità di un pensiero importante apparso per la prima volta innanzi alla spirito, né il dolore di una così terribile convinzione congiunto con un soffrire provato e reale. Quel dolore è già scontato, e quella novità è passata. Rimane una tesi splendida, svolta con facondia, e che ha tutta l’aria di un paradosso, dove il motivo estetico è meno il dolore di una così crudele verità, che il piacere di dimostrarla con tanto gusto; il poeta ci s’intrattiene, e ci rimane sopra. Ma se la felicità non è possibile, rimane come unico campo l’illusione, concessa a chi ha intatta la virtù dell’immaginazione e la gioventù del core. La fine della poesia ci rivela colui che già era tutto dietro alla composizione dei suoi dialoghi, fondati nello stesso concetto dell’Epistola, anzi è un annunzio e quasi una prefazione delle sue “Operette morali”. L’ “Epistola” è il programma di tutte le sue speculazioni in prosa sull’ “acerbo vero”».
Al fiorir della primavera, nel Poeta si svela un ricordo delicato, una pietà gentile verso una giovinetta, che amò; e frutto di quel palpitare fu l’ode Il risorgimento (1828), che si rivelò una testimonianza formidabile, malgrado lo scarso pregio, nella storia psicologica di Giacomo. Di tutt’altra condizione letteraria sono A Silvia (1828) e Le ricordanze (1829), che aprono il terzo e perfetto momento della poesia leopardiana. La frase classicheggiante, la ricercatezza dei concetti, la gravità delle sentenze, che sono atte nella prima maniera, risultano vacui rispetto alla semplicità diafana ed accorata di A Silvia, in cui il fantasma poetico è mimeticamente compenetrato col sentimento amoroso. Lo struggersi dell’innamorato confluisce nella speranza perduta, che si esacerba nella sconsolata meditazione del vero. In A Silvia, essendo l’oggetto dell’amore scomparso da molti anni, la memoria si nutre allora di ricordi; così mentre Silvia morì a causa del chiuso morbo, la speranza perì a causa del vero. Di tanto, incredibile amore, gli resta null’altro che la tomba; egli condannato a sopravvivere a quegli affetti, ch’erano l’unico spirto alla sua vita dolente.
Nelle Ricordanze, la protagonista è Nerina, forse Maria Belardinelli, morta nel 1827, mentre per altri Silvia e Nerina sono identificate con Teresa Fattorini. E’ probabile immaginare che nelle due donne, Giacomo abbia voluto ridestare i ricordi pietosi, gli affetti appena risorti, di cui era stato intessuto il suo passato.
La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio (1829) sono due liriche, che si discostano dalla maniera, con cui Leopardi concepì le altre composizioni, dove il paesaggio si mostra quale espediente d’arte, mentre qui offre il nome al componimento. Il Poeta contempla il paesaggio coll’anima serena, dipingendolo con tanta evidenza nella semplicità dell’espressione, in cui vibra la semplicità di quegli spettacoli. Abbandonata la contemplazione elegiaca, Giacomo torna in sé, tramutando la serenità in sofferenza. Sono i componimenti forse più riusciti e maggiormente perfetti, e sono anche gli ultimi, in cui il geniale concepimento dell’artista vinca sulla fredda meditazione del filosofo pessimista.