Martedì 24 ottobre 1922, Benito Mussolini tenne un duro discorso presso il Teatro S. Carlo di Napoli, in cui manifestò dichiaratamente le intenzioni di conquistare il potere.
Un cronista de La Stampa di Torino annotò che sin dalle 7,30 delle squadre di fascisti s’erano riunite presso il Teatro, le cui porte furono aperte alle 8.
Si notò la presenza del Sindaco, il Liberale Alberto Geremicca, e della Giunta; i senatori Francesco Torraca, Beniamino Spirito, ed Enrico Arlotta.

Il palcoscenico, dove presero posto il gruppo dei decorati con medaglia d’oro era adornato di numerosissimi gagliardetti tricolori e fiamme nere. Poco più tardi, l’ingresso degli onorevoli Giuseppe Bottai, Giuseppe Caradonna, il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, l’ammiraglio Costanzo Ciano, il futuro Ministro dell’Economia Alberto De Stefani, Giacomo Acerbo.
Alle 10, entrò Benito Mussolini, per tenere il suo discorso.
«Fascisti! Cittadini! Può darsi, anzi è quasi certo, che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione, per voi che siete abituati alla foga meravigliosa e ricca della vostra oratoria. Ma io da quando mi sono accorto che era impossibile torcere io collo alla eloquenza, mi sono detto che era necessario ridurla nelle sue linee schematiche ed essenziali».
Dopo aver cordialmente salutato i vari gruppi, arrivati da tutta Italia «a compiere un rito di fraternità e di amore», fermamente li esortò ad evitare qualsivoglia «incidente, neppure minimo, perché oltre ad essere delittuoso sarebbe enormemente stupido. Esigo che a radunata finita tutti i fascisti che non sono di Napoli abbandonino in ordine perfetto la città. Tutta l’Italia guarda a questo nostro convegno perché, lasciatemelo dire senza quelle vane modestie che qualche volta sono il paravento dell’imbecille, non c’è nel dopoguerra mondiale un fenomeno più interessante, più originale, più potente del fascismo italiano. Questo movimento è a volte politico, sindacale, militare e religioso, ed assomma, quindi, in sé le necessità, tutte le speranze, tutte le passioni della nuova anima italiana».
Quindi, passò ad illustrare il programma politico del nuovo Movimento.
«Siamo al punto in cui o la freccia si diparte dall’arco o la corsia troppo tesa nell’arco si spezza. Legalità o illegalità? Conquista parlamentare o insurrezione? Per mezzo di quale strada il Fascismo diventerà Stato, poiché vogliamo diventare Stato? Chiedendo le elezioni a breve scadenza con una legge elettorale riformata, è evidente a chiunque che io ho già scelto una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto alle due estreme possibilità. La richiesta partiva da me e partiva da un partito che ha già masse organizzate in modo formidabile, che raccoglie tutte le generazioni della nuova Italia, tutti i giovani italiani più belli, fisicamente ed individualmente.
Eppure, malgrado gl’incidenti di Bolzano e Trento (la marcia organizzata dal Partito Nazionale il 1 ottobre del 1922, che determinò le dimissioni dell’ultimo borgomastro di lingua tedesca), il deficiente Governo che siede a Roma, e dove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell’onorevole Facta stanno i signori Taddei, Amendola e Alessio, pone il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico».
Quindi Mussolini ripeté le richieste avanzate all’Esecutivo: lo scioglimento della Camera, la riforma elettorale per permettere elezioni a breve scadenza, severi provvedimenti d’indole finanziaria, cinque portafogli ed il commissario per l’aviazione. Specificò che fosse assegnato ad esponenti del Partito Nazionale Fascista il Ministero degli Esteri, della Guerra, della Marina, dal Lavoro e dei Lavori pubblici.
«In questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al Governo. Che cosa si è risposto? Nulla, peggio ancora: si è risposto in modo ridicolo. Malgrado tutto, nessuno degli uomini politici più in vista d’Italia ha saputo varcare le soglie di Montecitorio per vedere i problemi del Paese».
Quindi accusò l’Esecutivo di aver offerto dei Ministeri senza portafoglio, condannando i Fascisti al «servaggio».
«Non intendiamo di rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un misero piatto di lenticchie ministeriali».
Era necessario nell’arco dello Stato liberale «le forze della nuova generazione italiana che sono uscite dalla guerra e che si sono formate gagliardamente nel dopoguerra. Quando si determinano dei forti contrasti d’interessi e d’idee, si ha l’urto della forza, ecco perché noi abbiamo raccolte, potentemente inquadrate, ferreamente disciplinate, le nostre legioni; perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria rocchi a noi che ne siamo degni, tocchi al popolo italiano, che ha diritto, che ha il dovere di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte le incrostazioni parassitarie di un passato che non può prolungarsi oltre il presente, perché ucciderebbe l’avvenire».
L’oratore passò all’analisi dei rapporti tra monarchia e Fascismo.
«Ho già detto che discutere sulla bontà e malvagità dei regimi in assoluto e in astratto è perfettamente assurdo. Ogni popolo ha nelle sue epoche in determinato modo, in determinati momenti, in determinate azioni, il suo regime. Nessun dubbio che il regime unitario della gente italiana si appoggia altamente alla Monarchia di Savoia. Nessun dubbio ancora che la Monarchia italiana, per le sue origini e per lo sviluppo della sua storia, non può opporsi a quello che sono le tendenze delle nuove forze nazionali. Non vi si oppose quando concesse lo Statuto, non vi si oppose nel 1915, quando il popolo italiano chiese e impose la guerra, non avrebbe ragione di opporsi oggi che il Fascismo non intende d’intaccare il regime delle sue manifestazioni immanenti, ma piuttosto intende liberarlo da tutte le superstrutture che aduggiano la funzione storica di questo istituto, e nello stesso tempo comprimono tutte le tendenze della nostra anima. Il Parlamento e tutto l’armamentario della democrazia non ha niente a che vedere con l’istituto monarchico, non solo: ma si aggiunga che noi non vogliamo nemmeno togliere al popolo il suo giocattolo, dico giocattolo perché gran parte del popolo d’Italia lo stima per tale.
La democrazia chiede che i principi siano immutabili, in quanto che siano applicabili in ogni tempo, in ogni luogo ed in ogni evenienza. Noi non crediamo che la storia si ripeta, noi non crediamo che la democrazia del XIX secolo sia la super – democrazia, poiché se la democrazia può essere utile ed efficace per la Nazione può darsi che il secolo XX sia qualche altra forma politica che contenti più la società nazionale.
L’esercito sappia, ricordi che noi, manipolo di pochi e di audacissimi, lo abbiamo difeso, quando i ministri consigliavano gli ufficiali di andare in borghese, per evitare conflitti».
Il Fascismo, dichiarò Mussolini, sarebbe vissuto nel mito della Nazione, perché diventasse sempre più grande «spiritualmente e materialmente», dedicandosi all’educazione delle masse, che la compongono, perché vieppiù si arrivasse ad una pacificazione nazionale
Avviandosi alla conclusione dell’intervento, lodò «il popolo coraggioso che affronta romanamente la lotta per la vita, che non crea un argine per il fiume ed il fiume per un argine, il quale vuol rifarsi una vita, conquistare la ricchezza lavorando e sudando, godere sempre, con l’anima raccolta, la potente nostalgia di questa meravigliosa terra, che è destinata ad un grande avvenire specialmente se il Fascismo non tralignerà. Vedo il Fascismo raccogliere coordinare tutte le energie, che disinfetta certi ambienti, che toglie dalla circolazione certi uomini, che ne raccoglie latri, sotto i suoi gagliardetti. Ebbene, o alfieri di tutti i fanti d’Italia, alzate i vostri gagliardetti e salutate Napoli, la metropoli del Mezzogiorno, la regina del Mediterraneo!»
Il Corriere d’Italia così commento il discorso di Benito Mussolini:
«Il discorso è notevole per la dichiarazione che il leader fascista fa di avere ormai tolto il dilemma: o legalità o insurrezione, scegliendo il primo dei due termini. Non solo il tono, ma il contenuto del discorso di Mussolini è già diverso da quelli che furono i toni ed il contenuto dei precedenti suoi discorsi. Ma come può l’onorevole Mussolini, il quale dichiara di essere il primo a soffrire dello stillicidio rissoso domenicale e desiderare la pacificazione, come può – diciamo – rimproverare al Governo di mettere il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico, sino a quando le risse domenicali continuano e la pacificazione è impedita dall’esercizio della violenza? Non ci soffermiamo su altri punti del discorso che rivelano l’intimo travaglio del fascismo, per esempio sulla definizione che Mussolini dà del sindacalismo fascista, cauta ma cercata colla preoccupazione di non disgustare nessuno delle due correnti che dividono il fascismo: quella che vuole fare davvero del sindacalismo e quella che in realtà non vuole farlo, ovvero sulla parte polemica che si dedica alla democrazia e della quale svolge concetti già noti. L’onorevole Mussolini rivela anche le ragioni per le quali sono sinora fallite le trattative per condurre i fascisti al Governo. I fascisti avrebbero chiesto e chiedono ancora cinque portafogli. Non insiste più l’onorevole Mussolini nelle elezioni a dicembre e non precisa quale debba essere la riforma elettorale. Si capisce che su queste basi, l’andata dei fascisti al Governo non deve essere facile, e come gli uomini che hanno sinora trattato coll’onorevole Mussolini abbiano preferito di concludere che il problema deve essere avviato per la via diritta e cioè portato innanzi al Parlamento. L’onorevole Mussolini non ha risposto all’onorevole Giolitti, il quale ammette il diritto del Partito fascista a prendere il posto che gli spetta, ma per le vie legali. E non ha soprattutto dimostrato come l’aver scelto tra i due temi del dilemma quello della conquista costituzionale, contrasti con la forza militare della quale il Fascismo intende ancora valersi per il raggiungimento dei suoi scopi. Se tuttavia l’onorevole Mussolini si propone davvero di avviare nella via della pacificazione, noi prendiamo atto delle sue parole come di un nuovo sintomo per la salvezza del nostro Paese ed attendiamo i fatti».
Epoca:
«Nulla di nuovo nelle parole del capo del Fascismo, se non un’intonazione più calma e vedute più tranquille delle questioni tra cui il Fascismo vive ed opera. Dopo il discorso di Udine e dopo il discorso di Cremona, nulla vi era d’aggiungere, come ben disse l’oratore stesso. Notevole, tuttavia, due cose in contrasto, l’energico e lodevolissimo richiamo ai fascisti, onde non si perpetui la tristezza della rissa sanguinosa e l’ingiusta invettiva contro tre uomini che veramente non meritano l’astio dei fascisti. Quello che ancora non era ufficialmente detto, e che fu dichiarato dall’onorevole Mussolini, è la misura delle richieste dei fascisti per partecipare al governo. E’ evidente che le richieste erano suggerite dalla non volontà di partecipazione, perché l’onorevole Mussolini non poteva credere che sinché la Camera è quella che è, fosse possibile che gli altri partiti cedessero ai fascisti cinque portafogli importantissimi».
Il Mondo:
«L’onorevole Mussolini ha implicitamente riconosciuto e confessato l’errore e l’inanità di una politica di violenza, quando ha ricordato che più di una volta egli ha tentato di gettare ponti verso la parte opposta, e quando ha allontanato dal fascismo i responsabili delle risse domenicali. Sarebbe facile obiettare che in più episodi gli stessi capi del fascismo sono stati costretti a sconfessare i gregari, che si erano resi colpevoli di violenze, e che l’accordo recentemente stipulato per la gente di mare dimostra che le trattative per la pacificazione non possono riuscire infruttuose quando effettivamente rispondono alla sincerità di un sentimento ed alla equità di un proposito tenace. Più che il passato, noi dobbiamo considerare le dichiarazione dell’onorevole Mussolini per l’avvenire e trovare in esse la manifestazione di un nuovo spirito di moderazione e di patriottica responsabilità».