All’alba del mattino di Sabato santo, 9 aprile 1300.
I Viandanti sono in attesa dell’aiuto celeste, per entrare nella città di Dite, impediti dal diniego dei demoni, che hanno riferito a Virgilio di non accettare che un umano possa procedere più oltre, invitandolo a tornare indietro. Virgilio rimase naturalmente scosso per il dialogo, avuto con i diavoli, sicché si allontanò un poco, rimanendo sempre in ascolto, mentre la sua vista era impedita a causa del buio, che lo circondava.
Rassicurò Dante, garantendogli una sicura vittoria sulla volontà dei demoni, «se non… Tal ne s’offerse. Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». Dante si accorse come Virgilio avesse cambiato discorso, e ciò provocò un ulteriore aggravamento della sua condizione di pena, avendo interpretato l’interrotta frase in modo alquanto drammatico.
In questo primo scorcio, notiamo un insegnamento sempre valido: quando l’uomo è dominato dalle condizioni fisiche – infere, deve ricorrere al «cielo», sede di Urano, all’intellettualità, deve quindi sublimare l’Elemento Terra con l’Elemento Aria, unico in grado di fermare e mutare il corso degli eventi.
Il Poeta rivolse al suo Maestro una preoccupata quanto giusta osservazione, chiedendogli se mai un’anima del Limbo fosse discesa così in basso, ed il Mantovano ammise che raramente il viaggio era accaduto. Quindi rammentò quando, evocato dalla maga Eritone, che richiamava le anime nei loro corpi, fu costretto a recarsi dentro le mura di Dite, al fine di riportare sulla terra uno spirito, domiciliato nel nono cerchio, nella Giudecca, destinato ai traditori dei benefattori. Esso era il punto più basso ed oscuro dell’inferno dal Primo Mobile, cielo più esterno, che racchiude tutti gli altri cieli, il cui centro è la Terra, secondo la visione aristotelico – tolemaica dell’universo.
Ciò tranquillizzò Dante, perché Virgilio conosceva per bene «’l cammin».
Il Tosco evidenziò forte fastidio per l’aria irrespirabile, che produceva il fiume, che circondava interamente la città di Dite, in cui sarebbero entrati senza ricorrere alla forza.
Ancora una volta Dante ci rammenta quanto sia scomodo, arduo, difficoltoso «entrare» nell’Elemento Terra, compatto, unito e come si riveli necessario ammorbidire lo stato attraverso l’uso dell’«umido» (la città di Dite è infatti circondata dall’acqua), ricordando come solo l’Elemento Aria possa far tacere ogni sovvertimento fisico.
Mentre Virgilio continuava a parlare, lo sguardo di Dante si volse verso le torri arroventate, dove s’erano affacciate le tre furie infernali insanguinate. Il Poeta riuscì a scorgerle con attenzione, notando che «membra feminine avieno», per capelli dei «serpentelli e ceraste» che cingevano anche le tempie, ed infine erano circondate da «idre verdissime». Virgilio riconobbe subitaneamente le ancelle di Proserpina, «regina de l’etterno pianto», e dopo averle indicate col loro nome: Megera «dal sinistro canto», la piangente Aletto a destra e «Tesifon nel mezzo», tacque a lungo. Erano le dee della vendetta, che perseguitavano chi si fosse macchiato di delitti orrendi.
Le furie si squarciavano il petto con le unghie, si battevano con le palme della mano e lanciavano grida così terribili, che spaurarono Dante, il quale si strinse alla sua Guida.
Invocavano Medusa, perché trasformasse l’umano in pietra ed ancora recriminavano di non aver vendicato l’aggressione di Teseo contro l’inferno.
L’eroe greco, figlio di Egeo, re d’Atene, compì sulla scia di Ercole molte imprese, tra cui, coll’aiuto della sedotta Arianna, uccise il Minotauro; quindi abbandonò la donna presso l’isola di Nasso. Dante ricorda quando discese nell’Ade, per rapire Persefone, ma non riuscì nell’impresa, poiché fu catturato ed incatenato ed, in seguito, liberato da Ercole.
Virgilio pregò il Poeta di tener chiusi gli occhi, perché se solo per un attimo avesse incrociato lo sguardo della Gorgone, non sarebbe più tornato sulla terra. Al fine di difendere l’Allievo, egli stesso stese le sue mani sugli occhi.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
Sono versi assai famosi, assai criticati. Non dobbiamo fermarci al senso letterale, poiché quattro sono le chiavi di lettura della Commedia. Dante, in questo caso, intende fornirci lo spunto, affinché la nostra ricerca non possa mai chiamarsi terminata. Egli stesso si pone quale Maestro, quale Guida, il quale indica la strada, ma ognuno deve incamminarsi sul suo sentiero personale della conoscenza, in attesa della Grande Iniziazione.
Lungo le acque dello Stige, si sentiva il «fracasso d’un suon, pien di spavento», che, come un vento impetuoso colpisce per lo sbalzo della temperatura la selva, abbattendo violentemente qualsiasi vegetale mentre i pastori e gli armenti scappano impauriti, faceva tremare ambedue le sponde.
Virgilio chiese a Dante di aprire gli occhi, ordinandogli di guardare su un antico pantano, dove s’era infittita la presenza del vapore. Immediatamente scorse mille e più anime, arrabbiate ed impaurite, che scappavano davanti al procedere veloce di una figura, che attraversava il fiume Stige, rimanendo con i piedi asciutti. La sua condizione celeste infatti gli permetteva di non essere toccato dalla sua parte umido – ricettiva, rimanendo altresì distratto dalle grida dei dannati. Con la mano sinistra, cercava di rimuovere il fumo dal volto, che – pareva – gli recasse fastidio e provasse sofferenza: era il messo celeste, davanti al quale, per consiglio di Virgilio, si sarebbe dovuto inchinare. Egli apparì a Dante assai sdegnato verso i diavoli. Quindi si fermò davanti la porta di Dite, aprendola con un bastoncino, poi si rivolse ai suoi abitanti, «gente dispetta», perché scacciati dal cielo, chiedendo loro il motivo di tanto arroganza. Perché si fossero opposti alla suprema volontà, che più volte li aveva colpiti con pene sempre più dure. Rammentò quanto fossero inutili le resistenze, e ciò che accadde a Cerbero, il cane dai cento occhi, guardiano del terzo cerchio, ch’era stato pelato sul mento e sulla gola.
Quindi, si rivolse «per la strada lorda», tacendo e mostrando preoccupazione molto più importante rispetto a ciò che aveva affrontato. I Viandanti si avviarono verso la città senza incontrare alcun ostacolo.
Dante sentiva curiosità nel vedere la condizione delle anime rinchiuse, perciò si guardò d’intorno: una «grande campagna» piena di dolore e tormento. E gli si manifestò la visione di Arles, dove il Rodano sfocia nel mare impaludandosi; e Pola, presso il golfo del Quarnaro, che racchiude e bagna i confini italiani, dove i sepolcri romani rendono il luogo accidentato. Nella città di Dite, la desolazione era resa ancor più amara, perché dalle tombe rialzate uscivano delle fiamme, che le rendevano arroventate, tanto che alcuna arte umana avrebbe reso quel ferro più incandescente. Tutti i «coperchi eran sospesi», per permettere di ascoltare i lamenti, che provenivano dall’interno, così strazianti, propri di anime dolenti. Dante chiese chi fossero rinchiusi in quegli avelli ed il Mantovano rispose che all’interno erano prigioni per l’eternità gli eretici ed i loro seguaci, aggiungendo che il numero dei dannati per quel peccato fosse in gran numero superiore a qualsiasi immaginazione (mentre Dante scriveva la Commedia, l’Inquisizione funzionava a pieno regime). Ogni eretico era stato sepolto in compagnia di un suo simile all’interno di tombe infuocate.
Il fuoco, in questo caso, simboleggia l’opposto della purificazione, perché usato nella gradazione umana. Ogni Elemento, infatti, è soggetto ad una duplice significazione, ridotta allo spazio spirituale, in cui è utilizzato.
Quindi si volse verso destra e «passammo tra i martiri e li alti spaldi».