Il 22 febbraio 1495, Carlo VIII entrava in Napoli, mentre tutta Italia manifestava il suo disappunto per la calata francese, in special modo Ludovico il Moro, che, per primo, lo aveva invitato a passare le Alpi.
Tra le truppe franche infatti, prestava servizio anche il suo nemico, Gian Giacomo Trivulzio oltre che un nutrito gruppo di soldati italiani.
Il Moro tentò allora di organizzare una lega, firmata il 31 marzo a Venezia, che vedeva anche la partecipazione delle truppe pontificie, dell’imperatore, Massimiliano I, e del re di Spagna, col fine di difendere la civiltà cristiana dall’attacco islamico. In verità, la natura era in chiave antifrancese.
La Spagna avrebbe inviato un’armata navale, per aiutare re Ferdinando II d’Aragona a riconquistare Napoli; i Veneziani avrebbero attaccato le coste dell’Adriatico, per impedire l’arrivo dei rinforzi ai francesi; l’impero e la Spagna avrebbero assalito via terra le frontiere franche.
Carlo VIII intuì il vero motivo della lega, quindi, lasciato a Napoli un forte presidio, ordinò il rimpatrio immediato, sperando di trovare una via di fuga.
L’ambasciatore Filippo de Commynes giunse a Firenze, unica città italiana rimasta fedele al suo re, per conoscere Savonarola, di cui ricevette un’ottima impressione, soprattutto per la conoscenza approfondita della situazione politica. Il Frate, ancora una volta, scambiava il dominio spirituale (di sua pertinenza) con quello temporale, maggiormente appetibile. Nelle sue Memorie1, il diplomatico così descrisse l’incontro:
«Egli mi parlò della lega che facevano i Veneziani meglio di me che allora ne venivo. La sua vita era, poi, la più bella del mondo, come ognuno poteva vedere; le sue prediche erano contro i vizi, ed hanno introdotto il buon costume in Firenze. Io non voglio giudicare le sue rivelazioni, ma è certo che ha predetto a me ed al re cose che nessuno credeva e che si sono avverate. Quanto al valersi, come dicevano i suoi nemici, della confessione per conoscere i segreti dello Stato, dirò che io lo credo un uomo buono, e che egli ha rivelato cose che nessuno dei Fiorentini potrebbe mai avergli detto».
De Commynes chiese a Fra Girolamo notizie su Carlo VIII; ed il Savonarola gli rimproverò la fede, ch’era stata violata, le promesse disattese, la disubbidienza alla volontà di Dio, quindi il progetto di riforma per l’Italia abbandonato. Se non fosse ritornato sulla retta via, non avrebbe potuto scampare ai castighi dell’Onnipotente. L’ambasciatore riprese la via per Parigi.
Le truppe francesi intanto soggiornavano brevemente a Roma, per permettere al re d’incontrare il papa, il quale fuggiva il giorno precedente l’arrivo dell’esercito alla volta di Orvieto.
Il comportamento del Vicario di Cristo aveva assai contratto i francesi, che, dopo essere stati invitati in Italia, mancarono dell’appoggio di Alessandro VI, il quale, grazie ad una generosa elemosina, aveva preso parte napoletana. Quindi s’era anche costituito nella lega contro Carlo VIII.
Le truppe ripresero il viaggio di ritorno ed il 13 giugno entrarono in Siena, mentre si spargeva la voce d’un imminente ritorno di Piero De Medici, che, nel racconto dello storico Jacopo Nardi, aveva allarmato l’intera Toscana. Avrebbero con ogni mezzo impedito l’ingresso del Fatuo. I Piagnoni organizzarono delle solenni processioni in onore della Madonna dell’Impruneta, mentre Savonarola dal pergamo invitava la cittadinanza a rispondere unitamente alla pesante provocazione medicea. Ancora una volta, fra Girolamo si sarebbe mostrato il giusto intermediario tra le parti. Il 26 maggio 1495, scrisse una lettera a Carlo VIII, assicurandolo che la patria fiorentina, per volontà di Dio, sarebbe rimasta fedele al trono di Francia a condizione di maggior libertà, per evitare la punizione, che l’Onnipotente aveva predisposto per i tiranni. Quindi ribadiva che la Repubblica era sorta per volontà divina, quindi non doveva essere sfiorata dalle truppe, perché scampassero al braccio di Dio.
Il 17 giugno il Frate incontrò il re a Poggibonsi, ricordandogli quando precedentemente scritto nella missiva, invitandolo a riconsiderare il progetto di riforma per l’Italia.
Quattro giorni più tardi, Savonarola poté informare dal pergamo i fedeli dello scampato pericolo, mentre Carlo VIII entrava trionfante in Pisa, perché si mostrasse favorevole e prendesse posizione contro Firenze. Al fine di non scontentare alcun contendente, il re avrebbe tradito le promesse fatte a Savonarola di riconsiderare una riforma per l’Italia, non avrebbe concesso alcuna libertà ai fiorentini, e non si sarebbe posto dalla parte dei pisani.
Mentre le truppe francesi raggiungevano Asti, il 7 luglio Ferdinando II d’Aragona rientrava in Napoli, ristabilendo il governo precedentemente caduto. I francesi così conquistarono l’Italia, per poi perderla, scontentando amici e nemici.
Nel mese di settembre, Niccolò Alamanni tornò dalla Francia, con un l’ordine di lasciare a titolo gratuito le fortezze franche a Pisa; ma nel gennaio del 1496 l’azione fu disattesa, perché Carlo VIII pretese del danaro in cambio, assegnando ai Fiorentini il fortino di Livorno.
Intanto la lega intendeva promuovere azione punitiva nei riguardi della sleale repubblica fiorentina, rintronando Piero de Medici, ma il progetto trovava la fiera opposizione di Ludovico il Mare, il quale sperava in cuor suo di estendere la sua potenza anche su Firenze. Al Fatuo fu comunque consigliato di accogliere danari e uomini, onde tentare il ritorno, accompagnato dal condottiero Virginio Orsini.
Appena si sarebbe mosso alla volta di Firenze, Giovanni Bentivoglio, capo dell’esercito veneziano e milanese, avrebbe irrotto il confine bolognese; Caterina Sforza, contessa d’Imola e Forlì, avrebbe mandato le sue truppe in accordo, mentre Sanesi e Perugini promettevano ingenti aiuti. Sembrava che tutto fosse stato predisposto correttamente, perché Piero tornasse nella sua patria.
Le truppe dell’Orsini si avvicinavano a Firenze, sperando nell’arrivo degli aiuti promessi; Savonarola, saputo del movimento degli eserciti, invitava i fiorentini alla difesa della città. In un crescendo delirante, il Frate durante una predica chiese la morte per i nemici della Repubblica, su cui fu stabilita una taglia:
«Avendo Piero De Medici, pel suo tirannico appetito, tentato molte cose contro la libertà fiorentina, viene per gli Otto della Balia2 dichiarato ribelle; onde, secondo gli statuti, può essere impunemente ammazzato. E perché si vede perseverare nel cattivo animo, incitando ai danni di questa città, non solo molti baroni di Roma, ma il sommo pontefice e quasi tutti i potentati d’Italia; sperando con questi favori occupare la vostra libertà, usurpare le vostre entrate, violare le vostre donne e fanciulle, e riassumere quella tirannica vita colla quale egli e i suoi antenati hanno tanto tempo afflitto la vostra città: venne pei medesimi Signori Otto di Guardia e Balia deliberato che chiunque uccidessi detto Piero de Medici debba avere 4.000 larghi di oro3».
Fu poi stabilito un compenso di 2.000 fiorini a colui che avesse ucciso Giuliano De Medici, e si nominarono degli Ufficiali, perché amministrassero i beni medicei a vantaggio della Repubblica.
Sul piano militare, furono stanziati soldati ai confini, mentre il Fatuo attendeva l’arrivo dei promessi aiuti, che mai sarebbero arrivati, liquidando così l’esercito mediceo, mentr’egli riparava in Roma alla ricerca di un sicuro ricovero.
Scampato il pericolo, i Fiorentini non disarmarono, temendo che la lega potesse muoversi alla volta della loro patria.
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(1) FILIPPO DE COMMYNES. Memorie. Traduzione e Note di Maria Clotilde Daviso Di Charvensod. Einaudi 1960.
(2) La magistratura fiorentina.
(3) Provvisione del 16 dicembre 1495.