Giacomo Meyerbeer e l’opera italiana

Gioachino Rossini (1792 – 1868)

Nel 1816, Meyerbeer giunse in Italia, prendendo parte al giustificato coro unanime di ammirazione e lode per l’opera di Gioachino Rossini. 

Tra il 1817 ed il 1824, scrisse sei opere, di cui l’ultima, Il crociato in Egitto, colse un notevole successo. 

L’accusa che, con una certa avventatezza, fu rivolta al Compositore di essersi sacrificato ai dettami artistici del teatro rossiniano, trovò facile smentita da un’analisi più attenta de Il Crociato. Innegabile l’influenza del Pesarese, inglobata nella forte formazione tedesca, cui innegabili sono le suggestioni del Die zauberflöte di W. A. Mozart. Al posto di una sinfonia brillante, un breve preludio, che introduce un disperato Coro di prigionieri. Innegabile l’influenza weberiana, poco più avanti, recata dalla dolce soavità di una melodia cantata dal clarinetto.

La pagina più celebre è il terzetto “Giovinetto cavaliero“; davvero originale la proposizione della scena: Armando, crociato prigioniero, è segretamente sposato con l’egiziana Palmide; è raggiunto dalla sua antica fidanzata Felicia. Il riconoscimento tra i tre personaggi avviene attraverso la melodia di una romanza, che Armando cantava all’ex fidanzata e che Palmide aveva appreso da lui. La scena inizia con un assolo, che si trasforma in un duetto, per deflagrare in un terzetto. La melodia meyerbeeriana sembra mostrare lo spunto a tante meste e malinconiche melodie, che troveremo nella produzione di Vincenzo Bellini (“A una fonte afflitto e solo” de “I puritani“). Assai rarefatto l’accompagnamento sostenuto dall’arpa, clarinetto, corno inglese e violino solista. 

Vincenzo Bellini (1801 – 1835)

Quando Meyerbeer lasciò l’Italia qualcosa della sua arte era rimasta increspata nel tessuto connettivo del melodramma italiano come il mistero e l’appassionato, che non era penetrato nelle opere dai bagliori protoromantici di Rossini. Così anche nell’interpretazione stilistica dei cantanti il suo pathos aveva attecchito, tanto che il castrato Giovan Battista Velluti scriveva, nel 1823, al compositore: “Io preferisco la parte tutta sentimentale, perché così conviene al gusto italiano oltramontano, e per quelli che hanno un’anima“. 

Giovan Battista Velluti (1780 – 1861)

Altro discorso merita il valutare coscienziosamente l’influenza che le “opere francesi” di Meyerbeer ebbero sul melodramma italiano.

A partire dal 1835, in Italia lentamente mutò il modus operandi dell’intero mondo operistico; non si chiedeva più una produzione di quantità, semmai una marcata attenzione alla qualità dei Lavori, in funzione di una destinazione sempre più lontana nel tempo. Questo importante cambiamento fu reso possibile da una gestione, forse più manageriale, dei Teatri d’opera, che passò dagli impresari agli editori di musica, come Giulio Ricordi, il quale mirava che le Opere sopravvivessero, col passar degli anni, contando sul noleggio delle parti e sulla vendita delle parti per canto e pianoforte.

Giulio Ricordi (1840 – 1912)

Si passò poi da una dominazione nevrotica dell’artista di canto sull’intero apparato teatrale alla considerazione che il Compositore sarebbe stato ritenuto il vero creatore dello spettacolo. Ciò è già ampiamente riscontrabile nelle Opere del Bellini e troverà la sua piena maturazione soprattutto nella seconda parte della carriera del Verdi. Meyerbeer non fu certo assente in questo cambiamento, essendo egli stesso tra i fautori del grand opèra, figlio di un’antica tradizione, che trovava le sue radici in Francia, alla corte del Re Sole e di Lully, quando il teatro era un’importante istituzione nell’articolazione dell’apparato politico. Compagnia stabile, pubblicazione degli spartiti delle opere eseguite e quindi incardinamento nel tessuto culturale di ciò che si rappresentava, che non restava un fenomeno isolato e quasi irripetibile; intelligente coordinamento delle articolazioni, che formavano il corpus esecutivo e tutto ciò sotto la speciale supervisione del Compositore, autentico ed unico Demiurgo. 

Giuseppe Verdi (1813 – 1901)

Verdi fu il primo compositore italiano, che pose grande attenzione alla scelta dei soggetti, suggeriva addirittura la verseggiatura al librettista, al fine di raggiungere un ideale simbiosi tra significato etimologico e ricerca dell’espressione melodica. Anche Wagner trovò qui l’origine della sua “opera d’arte totale”.

L’esecuzione delle opere meyerbeeriane trovarono facili polemiche, che anticiparono, in qualche modo, quelle tra filo ed antiwagneriani, le quali seguiranno dopo circa due decenni. La costituzione di due concezioni forse diverse (ma con qualche punto di contatto) furono oggetto di critica e di divisione. Da una parte la (illusoria) spontaneità melodica, la (apparente) semplicità delle forme italiane; dall’altra la sapienza orchestrale, l’attenzione alla parola, alla complessità formale della musica “oltremontana”(Meyerbeer fu considerato un musicista più tedesco, che francese).

Naturalmente, gli operisti italiani furono attenti alle composizioni del Meyerbeer; Vincenzo Bellini ne porterà echi ne I Puritani, opera che avrebbe potuto aspirare a qualcosa di ancor più grande, se la vita del Compositore non fosse stata violentemente interrotta alla giovane età di 34 anni. Nell’avventura francese, Donizetti si misurò con libretti in lingua chiaramente ispirati per la compostezza e grandiosità formale al grand opèra meyerbeeriano.

Gaetano Donizetti (1797 – 1848)

Verdi fu, senza ombra dubbio, il compositore italiano, che subì la felice influenza del compositore tedesco; il Macbeth, opera che coniuga “il fantastico col vero”, fu accostato a Roberto il diavolo del Meyerbeer, che andò in scena a Firenze nel 1846, un anno prima della tragedia scespiriana. Probabilmente il Compositore delle Roncole trovò le atmosfere meyerbeeriane assai significative, per esprimere il senso del fantastico, di cui è intriso il grande lavoro di Shakespeare. I modelli meyerbeeriani si trovano facilmente anche in altri Lavori del Verdi, come nell’Attila, dallo stile grandioso, La battaglia di Legnano (nella scena del giuramento); nel Trovatore (Azucena ha il suo corrispettivo nella Fidés del Profeta); e ancora nel Ballo in maschera (la scena di Ulrica con le sue magiche allucinazioni, lo struggente duetto d’amore del Ballo in maschera) e poi la Forza del destino, grazie alla sapiente mescolanza di scene drammatiche e comiche, per i cori e le danze: un caleidoscopio di intense e svariate emozioni nell’ambito di una forte e monumentale struttura compositiva. Non è da escludere anche l’influsso che Meyerbeer ebbe direttamente sullo stile musicale verdiano; suffragio di questa ipotesi, ricordiamo il quartetto “Come celar le smanie” da Luisa Miller, che sembra derivato dal terzetto (“Lo sguardo immobile”, nella versione italiana) de Roberto il diavolo. Le similitudini sono molteplici: dalla scelta di far cantar le voci senza accompagnamento orchestrale, all’impianto minore – maggiore, l’alternanza tra solo e tutti, in forma responsoriale, nella complessa ed elegante costruzione armonica della sezione caudata.

Con tutto ciò, non vogliamo affatto sminuire l’originalità del Verdi, semmai collocare la sua figura nel più vasto ed importante quadro della cultura musicale europea, nel quale Meyerbeer fu, certamente, uno dei protagonisti dalla spiccata personalità artistica.

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