Il 10 aprile 1850, Giuseppe Verdi ricevette una lettera da Carlo Marzari, Presidente agli spettacoli del Gran Teatro La Fenice, che lo invitava a «procurare a Venezia le primizie di un nuovo lavoro del primo Maestro italiano del giorno […] per la metà di febbrajo».
Guglielmo Brenna, segretario del Teatro, informò il Maestro «circa alla Compagnia», raccomandando che avrebbe fatto «il possibile» per servirlo. «Scritturato definitivamente è il solo Mirate1. A Varesi2 ed alla Sanchioli3 furono spedite le scritture, ma non tornarono accettate». La Presidenza avrebbe desiderato la presenza in compagnia del contralto Annetta Casaloni,4 di cui «ci dicono mille belle cose, sicché vedremo».
Il 18 aprile, Verdi rispose «Mirate va bene». Espresse dei dubbi sulla Sanchioli, alla quale avrebbe preferito la De Giuli5, che «nella Luisa Miller avvi una parte di contralto ma piccolissima». In questa lettera, il Maestro indicò il Kean di Alexandre Dumas quale soggetto da porre in musica su libretto di Francesco Maria Piave, quando il 23 aprile fu reso noto il contratto, che avrebbe legato il Compositore al Teatro con: Rigoletto.
Verdi si pose all’opera, e così cominciarono i primi problemi, annunciati nella lettera del 24 agosto 1850, indirizzata al Presidente del Teatro:
«Il dubbio che «Le Roi s’amuse6» non si permetta mi mette in grave imbarazzo. — Fui assicurato da Piave7 che non eravi ostacolo per quel sogetto, ed io, fidando nel suo poeta, mi posi a studiarlo, a meditarlo profondamente, e l’idea, la tinta musicale erano nella mia mente trovate.
Posso dire che per me il principale lavoro era fatto. Se ora fossi costretto appigliarmi ad altro sogetto, non basterebbe più il tempo di fare tale studio, e non potrei scriver un’opera di cui la mia coscienza non fosse tenta. Aggiungasi, come le scrisse Piave, che io non son persuaso della Sanchioli, e se avessi potuto immaginare che la Presidenza facesse tale acquisto, io non avrei accettato il contratto. L’interesse mio e del Teatro credo siano di assicurare possibilmente l’esito dell’opera, ed allora Sig. Presidente bisogna ch’Ella s’interessi onde superare questi due ostacoli: di ottenere il permesso del «Roi s’amuse» e di trovare una donna (non importa se con cartello o senza cartello) che mi possa convenire. Qualora questi ostacoli non fossero superabili credo il miglior partito sia per comune interesse di sciogliere il mio contratto8».
Un nuovo ed imprevisto intervento della Censura gettò nella rabbia il Maestro, il quale il 5 dicembre se ne lamentava colla direzione del Teatro.
«La lettera arrivata col decreto che proibisce assolutamente «La Maledizione»9, mi è riuscita inaspettata al punto da perderne la testa. In questo, Piave ne ha un gran torto: tutto il torto! Egli mi assicurava in più lettere, scrittemi fin dal mese di Maggio, di averne ottenuta l’approvazione.
Dietro questo, io musicai una buona parte del dramma e mi occupava colla massima assiduità onde terminarlo all’epoca prefissa. Il decreto che lo rifiuta mi mette alla disperazione, perché ora è troppo tardi per scegliere altro libretto che mi sarebbe impossibile, affatto impossibile di musicare per questo Inverno. […] Ora, sull’onor mio ripeto che mi è impossibile scrivere un nuovo libretto, quand’anche volessi occuparmi al punto da perderne la salute».
Il Maestro propose la rappresentazione dello «Stiffelio», mai dato in Venezia per la sostituzione de «La Maledizione», dichiarandosi disposto a rimetterne le mani, e poi porlo in scena.
La Direzione del Teatro interpellò nuovamente il Piave, perché intervenisse sulle parti del libretto contestate. Il librettista accettò e cambiò anche il titolo: Duca di Vendòme, scoraggiando Verdi, il quale, in una lettera del 14 dicembre 1850, confessò che «ho avuto ben poco tempo per esaminare il nuovo libretto; ho visto però abbastanza per capire che ridotto in questo modo manca di carattere, d’importanza ed infine i punti di scena sono divenuti freddissimi».
Fu lo stesso Maestro a proporre dei cambiamenti atti a non stravolgere il suo intendimento drammatico:
«S’era necessario cambiare i nomi, dovevasi cambiare anche la località, e farne un Duca, un Principe d’altro luogo, per esempio un Pier Luigi Farnese od altro, oppure portare l’azione indietro prima di Luigi XI quando la Francia non era regno unito, e farne o un Duca di Borgogna o di Normandia etc. etc, in ogni modo un padrone assoluto.
— Nella scena quinta del I° Atto tutta l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. —
La maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale, qui diventa ridicola perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che parla così arditamente al suo re. Senza questa maledizione quale scopo, quale significato ha il Dramma?
Il Duca è un carattere nullo: il Duca deve essere assolutamente un libertino; senza di ciò non è giustificato il timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo nascondiglio: impossibile il Dramma.
Come mai nell’ultimo Atto il Duca va in una taverna remota solo, senza un invito, senza un appuntamento?
— Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? Chi può dire questo farà effetto, e quello no? Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia.
— Osservo in fine che s’è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!… Farà effetto ? non lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore.
Scelsi appunto questo sogetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi musica.
Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprender queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere.
Insomma di un dramma originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima e fredda. […] in coscienza d’artista io non posso mettere in musica questo libretto».
Gl’interventi del Piave, uniti ai buoni uffici del Presidente Marzari, ottenerono un giudizio meno drastico della Censura; così il 26 gennaio 1851, il Bussetano scrisse all’amico ed editore, Giulio Ricordi, una lettera, al fine d’informarlo sulle ultime nuove:
«Vengo assicurato dalla Presidenza del Teatro della Fenice e da Piave che la Censura darà l’approvazione al nuovo dramma che porterà probabilmente per titolo Rigoletto».
Reclamò la proprietà della partitura, concedendo la replica dell’Opera anche nelle stagioni successive del solo teatro La Fenice. E’ davvero assai interessante notare la meticolosità, la puntigliosità e l’attenzione ad ogni dettaglio nella stesura dei contratti, con cui Verdi operava.
L’opera andò in scena l’11 marzo 1851; una settimana dopo, Verdi scrisse a Vincenzo Luccardi:
«Del Rigoletto saprai che l’esito è stato felicissimo!».
Nell’autunno dello stesso anno, l’opera fu rappresentata presso il Teatro Argentina di Roma; e nuovamente conobbe diversi imprevisti, stavolta, colla rigida censura pontificia, la quale pretese molti cambiamenti. Verdi se ne lamentò col Luccardi, al quale confessò che sarebbe stato meglio ritirare l’opera, poiché «quando le opere non si possono dare nella loro integrità, come sono state ideate dall’autore, è meglio non darle: non sanno che la trasposizione di un pezzo, di una scena è quasi sempre la causa del non successo dell’opera».
Riportiamo il duro commento espresso dal noto poeta Giuseppe Gioachino Belli, censore artistico del papa:
«Dal putrido dramma di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”, nel quale vengono in sozza gara di colpe il Re di Francia, Francesco I ed il di lui buffone Triboulet, non potea generarsi che una fetida contraffattura quale è questa sconcezza del Viscardello che ci fu già regalata e vuol regalarcisi ancora. Strana e lacrimevole epoca di corruzione è pure la nostra!»
Avrebbe commentato Gino Monaldi alla fine dell’Ottocento:
«Da quell’epoca in poi, il «Rigoletto» ha stampato un’orma indelebile lungo il suo vittorioso cammino. Gli oltraggi della Censura non poterono intaccare il meraviglioso organismo di questo melodramma, come non lo poterono le mille barbare riproduzioni sul teatro. Ma insieme agli oltraggi, quanti nobili e intensi affetti devotamente circondarono l’opera del Verdi, e quante anime innamorate di arte si innalzarono, mercé di essa, e su quelle onde melodiose navigarono verso gli eterei e vagheggiati orizzonti della gloria!10»
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(1) Raffaele Mirate (1815 – 1895), tenore, interpreterà il Duca di Mantova
(2) Felice Varesi (1813 – 1889), baritono, interpreterà il ruolo protagonista
(3) Giulia De Filippi Sanchioli (1819 – ?), soprano
(4) Annetta Casaloni (1826 – 1915), mezzosoprano, interpretò il ruolo di Maddalena
(5) Teresa De Giuli Borsi (1817 – 1877)
(6) Le roi s’amuse di Victor Hugo, il dramma da cui sarebbe stato tratto Rigoletto
(7) Francesco Maria Piave si mostrò convinto che la Censura avrebbe promosso il soggetto, ed infatti il 27 settembre, Verdi avrebbe avuto conferma dell’approvazione da parte del segretario, Brenna.
(8) La Presidenza, seguendo le indicazioni del Verdi, sciolse dal contratto la Sanchioli, proponendo Teresa Brambilla.
(9) Un titolo precedente alla scelta di Rigoletto.
(10) GINO MONALDI. Verdi. Fratelli Bocca Editore, 1899; pp. 137 – 38