Nella quaresima del 1497, Savonarola continuò ad attaccare Roma dal pergamo, accusandola di porre fin troppo attenzione all’amministrazione dei beni posseduti, a svantaggio della comunione con Dio e col suo popolo. Accusò i sacerdoti di usurpare i beni della Chiesa, invitandoli a cederli ai poveri in nome della carità. Inveì contro la condotta del clero, dedito ad una vita dissoluta, al pettegolezzo. Aveva in mente l’organizzazione di un concilio, grazie al quale avrebbe potuto contribuire a riformare una Chiesa, ormai spogliata dalla presenza di Cristo.
Intanto la crisi economica investiva la città di Firenze; molti poveri, soprattutto provenienti dalle campagne, trovarono ospitalità presso le case dei Piagnoni, mentre i Bigi, partigiani dei Medici, cospiravano in segreto per il ritorno di Piero, che s’era ritirato in Roma, spalleggiati da Frate Mariano da Genazzano, il quale continuava la sua opera contro Savonarola anche in Vaticano.
In aprile, Bernardo Del Nero, amico della casata medicea, fu eletto gonfaloniere. Il Fatuo scrisse ai potentati d’Italia, per raccogliere finanziamenti ed armi; il papato, i Veneziani si dichiararono disposti ad aiutarlo, mentre il Moro non si espresse. Anche in Firenze, stava maturando opinione favorevole ad un ritorno del figlio di Lorenzo, cosicché quando l’armata era pronta all’invasione, il gonfaloniere suggerì, inutilmente, più miti consigli, poiché alla fine di aprile iniziò il viaggio di avvicinamento all’antica patria. Il giorno 28, l’armata era alle porte di Firenze; giunta la tragica notizia a Savonarola, vaticinò che non avrebbe percorso troppa strada. E così sarebbe accaduto, poiché il popolo non si sollevò e soprattutto le porte rimasero sprangate. Tutto ciò indusse Piero a rinunciare al proposito della riconquista, mentre la Signoria ordinava alla polizia di rintracciare i cospiratori tra il popolo. I Bigi segnarono una brutta battuta d’arresto, mentre gli Arrabbiati videro rafforzate le loro posizioni politiche, sicché conquistarono la maggioranza nell’ambito della Signoria, indicando Piero degli Alberti, gonfaloniere di giustizia. La politica di contrasto s’indirizzava contro i Piagnoni ed il Frate, da attirarsi vieppiù le simpatie del Moro e di Roma, pronta alla collaborazione, per mettere a tacere definitivamente il Frate ribelle.
I Compagnacci di Doffo Spini animavano le serate fiorentine con riunioni goliardiche, in cui la figura maggiormente schernita era Fra Girolamo, chiuso nel convento di S. Marco. Il 4 maggio, giorno dell’Ascensione, il Padre sarebbe salito sul pergamo, e ciò fu occasione, perché i chiesa si radunassero il maggior numero degli Arrabbiati pronti con ogni mezzo ad interrompere l’Ufficio, mentre i Piagnoni avrebbero agito, perché il loro Padre svolgesse tranquillamente le orazioni. I Compagnacci tramavano per uccidere il Frate sul pergamo, che avrebbero voluto danneggiare, perché crollasse al momento opportuno. Valutati poi i danni, che avrebbe causato simile folle azione presso i fedeli, desistettero. Allora imbrattarono il pulpito con scritte ingiuriose all’indirizzo di Fra Girolamo, lo ricoprirono con pelle d’asino.
La mattina dell’Ascensione, un gruppo di Piagnoni si dedicò alla pulizia del pergamo; alle ore 12, il Padre usciva dalla sua cella, accompagnato da una nutrita scorta, e si dirigeva presso la Chiesa, in cui avevano trovato posto anche i Compagnacci.
Savonarola ragguagliò il suo popolo che i tempi finali erano giunti: scomuniche, guerre e morti avrebbero scandito i giorni, vaticinando il suo martirio. Quindi pregò Dio, perché convertisse i lontani, che sarebbero dovuti tornare alle pratiche di pietà. Al termine della predica, gl’impauriti fedeli sfollarono rapidamente, perché i Compagnacci stavano per mettere in opera le intenzioni malvage contro il Padre. Qualcuno sollevò la cassa delle elemosine, rovesciandola a terra, un altro batteva su un tamburo provocando un rumore infernale, altri sulle panche. Intanto Fra Girolamo era invitato dai suoi difensori di rimanere sul pergamo, circondato da un buon numero di persone, pronte a menar le mani. Molti fedeli tornarono nuovamente in Duomo armati, scatenando il putiferio. Nonostante i ripetuti attacchi, il Frate, che s’era raccolto in preghiera, non corse pericolo di vita, e quando il tumulto fu placato, discese dal pergamo accolto festosamente dai suoi.
La predica dell’Ascensione fu presto nota in tutta Italia grazie alla pubblicazione di Girolamo Cinozzi, che aggiunse anche la cronaca dei tumulti avvenuti.
Nei giorni che seguirono ai tristi eventi, i membri del partito degli Arrabbiati non furono punto puniti, causando il rigetto da parte dei Piagnoni. La Signoria allora vietò con un bando la predicazione nelle chiese, mentre dal 20 maggio iniziarono le pratiche per allontanare Savonarola da Firenze col consenso popolare, ma le adesioni furono be al di sotto le aspettative signorili.
Si aspettava la censura della scomunica del Padre, il quale, il 22 maggio, inviò una lettera ad Alessandro VI, in cui chiedeva il motivo di così tanto astio nei suoi riguardi. Quindi si lamentava dell’opera altamente immeritoria di Genazzano, in passato grave accusatore di Papa Borgia. Dichiarava infine di sottomettersi al giudizio della Chiesa. Purtroppo, il 12 maggio, Alessandro VI aveva dato ordine di spedire il breve colla scomunica nelle mani del teologo Giovanni da Camerino, il quale temeva la reazione degli amici dello scomunicato, così conservò presso di se la censura ecclesiastica. Dopo alcuni giorni, consegnò la lettera ad altri, che si preoccuparono solo alla fine di maggio che giungesse a Firenze.
Girolamo Savonarola era accusato dal Papa di aver predicato una dottrina falsa e non riconosciuta dalla Chiesa con grave scandalo per le anime semplici. Si ricordò come il Padre, invitato in udienza privata a Roma, avesse rifiutato l’invito; avesse continuato a predicare nonostante la richiesta romana di astenersi dal farlo. Si fosse rifiutato di porre sotto la giurisdizione romana il convento di San Marco, incorrendo così ipso facto nella censura. Si ordinava che durante i giorni festivi ogni chiesa fiorentina comunicasse ai fedeli la scomunica, che aveva colpito il Frate, invitandolo a vivere separatamente da Roma, perché in sospetto di eresia. La scomunica quindi era stata motivata dalla mancata unione colla congregazione romana.
Savonarola organizzava la sua difesa, scrivendo il 19 giugno 1497 un’Epistola contro la scomunica diretta al popolo di Dio, in cui contestava la validità dell’atto, poiché causato da dicerie e pettegolezzi male assortiti. Ribadiva la sua ferma volontà di obbedire a Santa Romana Chiesa nel pieno esercizio della carità e nel pieno rispetto della legge di Dio.
Nella seconda lettera Contra sententiam ex communicationis, confermava di non temere una condanna ingiusta, avvalorando il suo gesto di disobbedienza al Papa, il quale, al fine di confermare la sua autorità, ledeva alla Chiesa di Cristo.
Il 22 giugno fu comunicata solennemente la scomunica in Firenze colla lettura del Breve. Due giorni più tardi, si sarebbe celebrata la Festa di S. Giovanni; i frati agostiniani avrebbero evasi i festeggiamenti, qualora fossero stati presenti i domenicani di S. Marco, ai quali fu ordinato di non prender parte alle cerimonie religiose. I Compagnacci approfittarono dell’evento, per scatenare le più turpi manifestazioni in Firenze contro il Frate, oggetto di scherno e divertimento. Un poco alla volta, si svuotarono le Chiese, mentre si riempivano le bettole ed i postriboli.
La Signoria eletta a luglio risultò favorevole al Frate, cosicché si mosse diplomaticamente, onde ottenere il ritiro della censura ecclesiastica. Si mossero alcuni cardinali, vicini al Frate, fin quando si tentò si trovare una soluzione col pagamento di 5.000 scudi, che fu decisamente respinta da San Marco.
La situazione sembrò volgere a favore dello scomunicato, quando Giovanni Borgia duca di Candia, primogenito di Alessandro VI, era pugnalato e gettato nel Tevere ad opera del fratello Cesare, Cardinale di Valencia, perché innamorato della sorella, Lucrezia. L’atroce delitto toccò l’intimo del pontefice, che si dichiarò favorevole alla nomina di una commissione cardinalizia, che avrebbe dovuto riformare i costumi ecclesiastici. Il 1 luglio, Fra Girolamo scrisse una lettera al papa, esortandolo nella iniziativa riformatrice e nel contempo pregandolo di rivedere la sua posizione. Purtroppo, i buoni propositi papali presto svanirono, ed Alessandro VI si confermò nella vita dissoluta, che lo aveva da sempre caratterizzato. Gli Arrabbiati intanto avevano inviato una sottoscrizione firmata, nella quale ripetevano le solite accuse contro Fra Girolamo, mentre i frati di S. Marco inviarono una lettera, informando Sua Santità della bontà del loro confratello scomunicato. Altre iniziative a favore del Padre furono improvvisamente arrestate a causa del sempre più crescente pericolo della peste, che iniziava a mietere vittime soprattutto tra gli abitanti del contado.
Anche un frate di S. Marco fu contagiato, così Fra Girolamo ne approfittò, per assegnare i novizi alle famiglie, che avevano offerto il loro aiuto, riservandosi il ruolo di consolatore dei confratelli ammalati. Alla metà del mese di agosto, la peste iniziò a scemare, e così il 15 agosto si poté celebrare la Festa dell’Assunzione.