Lettera di Marsilio Ficino a Pellegrino Agli in cui si «disputa del furor divino»

Democrito (460 a. C. – 370 a. C.)

Ficino illustra come i grandi uomini, quali Democrito e Platone, riuscissero a lasciare delle opere straordinarie, perché posseduti dal «furor divino».

Platone (428 ca. – 328 ca.)

Platone sosteneva che l’uomo lo avesse sperimentato prima della caduta da uno stato, in cui era ammesso alla contemplazione della verità. La teoria fu mutuata dal «sapiente» Ermete Trismegisto, il quale intuì nel Divino la fonte di eterna luce. Se l’uomo si volgesse alla contemplazione dell’Eterno, scorgerebbe la vera natura di tutto il creato alla luce della giustizia, della sapienza e dell’armonia, modalità della Mente ordinatrice, che l’uomo oggi chiama «idee». Indi, Fucino ricorda il passo della Repubblica di Platone, in cui l’uomo, prima d’incarnarsi, beveva dell’acqua del fiume Lete, e ciò gli permetterebbe solo di ricordare, appunto, quale idee lo splendore della Verità. Egli interpreta il pensiero platonico, per cui, al fine di riconquistare il cielo e quindi quel particolare stato coscienziale, l’uomo debba dotarsi di due ali, che il filosofo indica nella virtù derivante dal comportamento (giustizia), e dalla contemplazione (sapienza), le quali concorrerebbero a dividerlo dalla sua parte fisica, testimonianza della caduta. In ciò consisterebbe il furor divino, il quale sarebbe qudripartito.

La Conoscenza non può procedere da un processo cognitivo fenomenale, ma dalla contemplazione intellettuale, la quale permetterebbe all’uomo di rintracciare i semi dell’eterno nell’ascolto del suono misto a voci, sottolineando il potere evocativo della musica presso gli stati superiori dell’Essere. Si determina l’assoluta ricerca in campo spirituale, alla ricerca dell’ineffabile eterno, che non può cadere, in quanto tale, sotto i sensi dell’uomo, tra i quali Platone individua la vista e l’udito atti alla visione ed all’ascolto del creato. Il Viandante, compreso nella contemplazione della bellezza, ascolta l’Amore divino in sé. Platone distingue l’amore fisico, limitante, poiché frutto di una mente limitata e non ancora volta al distacco.

Nella creazione letteraria, Platone distingue coloro che sono invasi dal furor divino delle Muse, grazie al quale operano capolavori, da coloro che invece, pur producendo ottimi lavori non sono toccati da simile condizione interiore.

Assai interessante è l’inno di Orfeo a Giove, trascritta dal Ficino, in cui si cerca di descrivere ogni attribuzione dell’Olimpico, individuato anche nel concetto di genere femminile.

Al mio carissimo amico Pellegrino Agli

Alli vintinove di Novembre Maestro Ficino medico, mio padre mi portò a Figline da parte tua due lettere, una scritta in prosa l’altra in versi. Nel leggere de le quali mi rallegrai non poco co’ i tempi nostri, che habbiano prodotto un giovane per la cui fama e gloria possano essere illustrati. Certamente Pellegrino mio Carissimo nel considerare io parimente e a la tua età, e a le cose che ogni giorno nascono di te, non solo mi rallegro di tanti beni d’un mio medesimo, ma ancora me ne maraviglio oltramodo, e non fo (per lasciare stare quelli più moderni) quale di quelli antichi, la cui memoria loro honoriamo, tanto spesse nell’età ne la quale hora sei tu.

E questo non solo io l’attribuisco al tuo studio, e a l’arte, ma ancora maggiormente a quel divino furore, senza il quale Democrito e Platone non volsero che mai alcun grande homo diventar potesse. Dal qual furore che tu sia aiutato e ispirato (per dir così) ne posson far fede certi moti violenti e certi ardentissimi affetti che ne lo scrivere ti sopragiungono li quali tu hai ne tuoi scritti troppo bene espressi. E voglio che tu sappia che questo movimento dell’anima nostra che in noi è cagionato da molti esteriori volsero li filosofi antichi che fusse argumento verissimo che ne li animi nostri, una qualche potenza divina s’ascondesse. Ma percioché noi habbiam fatto mentione del furore, a questo proposto, con poche parole e con quella brevità che si richiede ad una lettera, ti racconterò il piacere, l’openione del nostro Platone, accioché tu intenda che cosa sia furore, e in quante parti si divida, e quale Iddio a ciascuno furore sia proposto e appropriato; il che so certo che non solo ti darà piacere ma ancora utilità. Tiene adunque Platone che l’anima nostra avanti che qua giù nel corpo cadesse havesse la sua stanza in cielo. Come ancora prima di lui havevano disputato, Pithagora, Empedocle ed Eraclito, dove ella si nutriva e godeva della contemplatione della verità, (come dice Socrate nel Fedro), e havendo questi filosofi che t’ho raccontato imparato da Mercurio Trimegisto, molto più sapiente di tutti gli Egittij, che Iddio è un fonte vivo, è un lume, nel quale le forme e gli esempi di tutte le cose riluchino, (le quali forme eglino chiamano Idee), pensavano che fusse necessario che l’anima contemplando continuamente l’eterna mente di Dio, ancora più chiaramente vedesse la natura di tutte le cose. E però dice Platone.

Vedeva l’animo nostro la vera giustitia, vedeva la sapienza, vedeva l’armonia, e una certa maravigliosa bellezza della natura divina, e tutte quelle cose, hora le chiama Idee, hora essentie divine, hora nature prime, le quali vuole che siano nell’eterna mente d’Iddio, de le quali con una perfetta cognitione, le menti de gli huomini finché lassù stanno felicemente di nutriscono.

Ma quando poi per cagion di voler conoscere le cose terrene e per il desiderio di quelle sono gli animi nostri spinti nei corpi, e per il desiderio di quelle sono gli animi nostri spinti ne i corpi, allhora coloro che prima si pascevano d’ambrosia e di nettare, cioè della cognitione di Dio e d’una allegrezza perfetta; subito, nel proprio scendere che fanno, bevono di fiume di Lete, cioè si scordano delle cose divine; né prima possono in cielo ritornare, onde dal peso de i terreni pensieri aggravate a terra cascarono che a quelle divine nature non cominciano a ripensare, de le quali si erano già scordate.

Il che pensa quel divino filosofo, che noi possiamo acquistare per mezzo di due virtù, cioè con quella che a gli costumi si appartiene, e con quella che intorno alla contemplatione consiste, de le quali una chiama giustitia e l’altra sapientia. Perilché egli dice che queste anime s’inalzano al cielo con due ale, intender per questo, secondo me, le due virtù.

Nel Fedone Socrate disputa che queste ale si acquistano con due parti della filosofia, cioè con la attiva e con la contemplativa. Onde il medesimo Socrate disse nel Fedro, che la mente sola del filosofo è quella, che racquista l’ale e che in questo racquistarle, l’animo si divide dal corpo per forza di quelle ale, e così ripieno di divinità e rapito al cielo, alche fare egli grandemente si sforza.

E questa divisione e sforzamento, Platone il chiama furore divino, e questo si divide in quattro parti. Percioché egli non pensò che gli huomini si potessero mai ricordare delle cose divine se prima non fussero a ciò escitati da certe imagini e ombre di cotale divinità, le quali ombre solo si conoscono con gli sensi del corpo. Onde Paolo e Dionisio, sapientissimi Theologi dissero che le cose intuibili di Dio s’intendono per mezzo de le cose, che egli ha fatte e che qua giù si veggono. E Platone vuole che la sapientia degli huomini sia un’imagine della sapientia divina, e imagine della armonia celeste dice essere questa, che si compone con voci e con istrumenti musicali e della divina bellezza afferma essere simiglianza, quella convenienza, e bellezza, che nasce da una altissima compositione delle parti, e membra del corpo, e conciosia che la sapientia non si vegga in alcuno o vero in pochi, né si possa conoscere con senso alcuno del corpo. Ne segue che pochissime simiglianze si trovino appresso gli huomini della sapientia di Dio, e quelle poche, che sono, sono occulte a i nostri sensi e non conosciute da noi. Per la qual cosa Socrate nel Fedro disse che il simulacro della sapientia non si poteva vedere con gli occhi, che se veduto si fusse havrebbe in noi escitato maraviglioso amore di quella divina, della quale egli è simulacro. Ma detta bellezza divina ne vediamo la simiglianza con gli occhi. L’imagine dell’armonia celeste la sentiamo con gli orecchi, li quali due sensi Platone pensa che siano i più perfetti di tutti gli altri, che nel nostro corpo si trovino. Onde interviene che per cagione di quelle cose, che ne i corpi veggiamo, mandando certi come simulacri all’animo nostro, per la via de i sensi ci ricordiamo in un certo modo di queste cose che mentre che fuor di questo carcer corporeo eravamo conoscemmo. Per la qual rimembranza l’animo tutto si infiamma e così rimettendo l’ale a poco da le macchie si netta dalle quali il corpo si imbratta, e così d’un furor divino si riempie e per cagione de gli due sensi, che poco fa ricordai, nascono in noi due fonti di furore. Percioché per la figura della bellezza, la quale gli occhi ci porgono, racquistando noi una certa rimembranza della vera e intelligibile bellezza, quella con un grandissimo e occulto ardore di mente desideriamo, e questo desiderio finalmente Platone chiama Amore divino, dandogli questa diffinitione, cioè, un desiderio di ritornare a contemplare di nuovo la divina bellezza nata in noi dal bello affetto d’una similitudine corporea, oltra di quello egli è necessario che colui che ha in sé questo Amore, non solo desideri quella divina bellezza ma ancoraché sopra modo si diletti di quel bello aspetto, che gli occhi veggono. Percioché l’ordine della natura è questo, che colui che qualche cosa desidera ancora si diletti d’una cosa a quella simigliante.

Ma pensa bene Platone, che sia proprio de i cattivi e sciocchi ingegni, e di corrotta natura, che uno solamente desideri la ombra della vera bellezza, né d’altro si maravigli che di quella figura, che durante gli occhi si gli appresenta. Percioché egli dice e vuole che questo tale sia di quello Amore preso, che solo ha per compagnia la dishonestà e la lescivia difinendolo di una cupidità, d’un piacere senza ragione e sfrenata, possedendo quella cosa che intorno alla bellezza d’un corpo si vede.

E ancora lo diffinisce in questo altro modo, cioè essere un ardore d’animo che nel propio corpo sia morto e viva in altrui. Onde egli dice che  l’animo d’uno Amante vive nel corpo d’altri. Il che imitando gli Epicuri diffiniscono Amore essere uno estremo desiderio di quei corpi piccoli, che eglino chiamano atomi, di entrare infondersi in colui dal quale hanno preso l’imagine della bellezza.

Questo Amore il nostro Platone dice che ha havuto origine da gli mali e  d’infirmità humane, e che è pieno di affanni e di pensieri, e tale amore si conviene a quelli huomini che hanno la mente tanto da tenebre accecata, che niente pensano che degno, alto, o egregio sia, ma solo alla fragile cet instabile imagine di questo picciolo corpo habbiano volto il pensiero né in alto risguardino, sommersi e accecati in oscurissime tenebre, e in un cieco carcere rinchiusi ma coloro che hanno l’ingegno purgato, e netto del fango corporeo sono tali, che tosto che si danno in una bella figura d’un corpo o in una gratia nel primo aspetto di quella si maravigliano, pensando di vedere una simiglianza della bellezza divina.  Ma non fanno come quegli altri, anzi da questa imagine tratti, subito quella divina si riducono alla mente, la quale maravigliosamente considerano, e quindi castamente la desiderano, e così per l’ardentissimo desiderio di quella sono alzati alla consideratione delle cose divine, e questo primo sforzo di volare al cielo, Platone lo chiama alienatione divina, e furore.

Queste cose sono state secondo me assai per dichiarare quel furore che habbiam detto nascere in noi, cagione degli occhi. Per gli orecchi l’animo nostro sente, e gusta certi concenti, e certi numeri soavissimi e così da queste imagini è ammonito e incitato a pensare alla Musica divina con una intima e interissima consideratione. E di questa divina Musica, secondo certi interpreti di Platone di due sorti, una forte pensano che si ritrovi nella divina mente di Iddio. L’altra nell’ordine e moti de i cieli, con la quale i globi, e gli cerchi celesti compongono e mandano fuore un soavissimo e mirabile concento, e vogliono che l’animo nostro, avanti che in questo corpo cascasse d’ambedue avesse cognitione, ma in queste tenebre ode questa armonia confusamente. E solo sente immagine detta celeste Musica, per la quale si riduce a ricordarsi di questa armonia divina, che dianzi godeva e così tutto di desiderio si empie e brama di muovo ritornare alla propia sua fede solo per godere di nuovo la celeste e vera Musica. E conciosiache in modo alcuno questa cosa non può acquistare mentre che da questo tenebroso velo è coperta, possa almeno quanto più può d’immitarla poi, che altrimenti qui non la può possedere.

E questa immitatione è appresso gli huomini di sue sorti: percioché alcuni vanno imitando questa celeste Musica con gli numeri e consonanze dette voci, e con vari strumenti, e questa possono chiamare Musica leggiera e di poco valore. Molto altri poi con più grave, e più fermo giudicio, immitando la divina e celeste armonia ordinano e compongono in versi e in piedi e in numeri quello che dentro coi sensi hanno concetto; e questi son coloro che da lo spirito divino aiutati gravissimi e dottissimi versi compongono. Questa Platone chiamò Musica più degna, e altrimenti la disse Poesia, e una altissima immitatrice della celeste armonia. Percioché quella altra di poco momento che poco fa ricordai solamente ci diletta con la concordanza, e soavità delle voci. Ma la Poesia (che è ancora proprio della armonia divina) con certi numeri di voci e di moti dell’animo, ci esprime molto più efficacemente gli altissimi sensi divini. Onde interviene che ella non solamente piace alle orecchie, ma ancora porti un soavissimo cibo a la mente similissimo alla celeste armonia, e per questo si può dire che essa più si accosti a quella divina. E pensa Platone che questo furore poetico sia cagionato dalle Muse, e colui che senza esser dalle Muse aiutato e istigato, s’accosterà alla porta della Poesia, sperando con qualche arte imparata da sé havere a diventare buon Poeta vuole, che al fine costui riesca da niente, e similmente la sua Poesia. E quelli poeti, che sono da celeste ispiratione e divina virtù aiutati, afferma che spesse volte così divini sensi esprimono, che eglino stessi, quando poi da quel furore sono liberi non intendono quel che s’habbiano detto, e come io penso, quel divin filosofo intende per le Muse i canti celesti, e divini che per questo vogliono che sia dette Camene, la qual voce deriva da canto, onde molti huomini divini, incitati e sospinti da le Muse, cioè da le celesti forze e virtù e da canti divini, a immitation loro compongono i versi e i numeri poetici. Per la qual cosa Platone trattando nella Repubblica del moto e volubilità delle sfere celesti, dice che a ogni cerchio del cielo è proposta una Sirena significando per questo si come ha voluto un certo platonico che il moto delle sfere sia un canto fatto per cagione degli spiriti divini. Perioché Siren significa cantare a Dio, oltre di quello gli Theologi antichi volessero che le nove Muse fussero gli canti delle otto sfere, e la nona maggior di tutte la dissero l’armonia, che di tutte quelle resultava. E per questa cagione diciamo che la Poesia viene dal furore divino, il furore de le Mese, de le Muse da Giove. Perilcioché l’anima del mondo è spesse volte da li Platonici detta Giove.

Ch’il della terra e i larghi e bassi campi

La chiara luna e le celesti stelle

Governa e ciba e dentro a questa molte

Infuso il tutto Ei sol col ciglio move

Et si mescola dentro al corpo immenso

Et mescola dentro al corpo immenso

Onde ne segue che da Giove, come spirito e mente di tutto il mondo (percioché egli muove e regge le sfere celesti) similmente i canti di quelle le quali costoro chiamano Muse perché da Giove nate, onde Virgilio platonico disse: “Del gran Giove principio hanno le Muse e dal gran Giove il mondo è tutto pieno”.

E questo non lo disse senza ragione. Percioché quella virtù che è detta Giove, e tutto mostra le sue forze e ogni cosa riempie, e maneggiando, e movendo il cielo a guise che se una cetera avesse in mano, fa nascere la celeste armonia, onde Orfeo poeta divinissimo disse:

“Giove è ‘l primo, Giove è l’ultimo, Giove è il capo, Giove è il mezzo e tutto è nato di Giove, Giove è il fondamento della terra e de lo stellato cielo, Giove si mostra a noi vero padre, Giove è un’incorruttibile sposa, Giove è la vita e la figura di ciascheduno, Giove è il fondo e la radice del mare. Giove è il moto della non mai stanca sfera del fuoco, Giove è il Sole e la Luna, Giove è principe e re di tutti, e già ascondendo in sé la luce la mandò fuora per fare quello che in se stesso haveva pensato. Per le quali parole si può intendere che Giove infuso in tutti i corpi mantiene, e nutrisce ogni cosa, onde non senza cagione fu detto: Giove è ciò che si vede e si muove”.

Seguitano doppo queste l’altre sorti di furore, le quali Platone divise in due, de le quali una pensa che sia posta intorno a li misteri sacri, e l’altra intorno a l’indovinari il futuro, quale cosa chiamano vaticinio. Al primo furore da questa diffinitione e dice che p una constatatione dell’animo gagliarda e dorte, mettere ad effetto tutte queste cose, che s’appartengono al culto divino, alla religione, alli preghi e alle cerimonie sacre, e questo effetto che immita questo furore ma non bene, lo chiamano perfetione. E l’ultima natura di furore, ne la quale gli pone il vaticino, non pensa che sia altro che una precognitione del futuro ispirata da iddio, e quella con suo proprio nome la domandiamo divinatione ovvero vaticinio. Ma se l’animo più ardentemente attenderà a questo vaticinio allora si chiamerà furore. Quando la mente dal corpo astratta è da uno divino spirito commossa. E se fusse alcuno, che indovinasse le cose, più presto con fugacità e astutia umana che per gratia divina, questa precognitione la chiama providentia o coniettura.

In tutte queste cose che t’ho detto penso che io habbia omai dichiarato le quattro sorti del divino furore, cioè: Amore, Poesia, Misterio e Vaticinio, e ho ancora detto che l’Amore volgare è in tutto cattivo imita quello divino e honesto e che la Musia immitata Poesia, la superstitione, i misterii, e la coniettura e la divinatione.

E Socrate appresso a Platone attribuisce il primo furore a Venere, il secondo a le Muse, il terzo a Dioniso, l’ultimo ad Apollo. Ma nel descrivere quei due furori che l’Amore e alle Muse s’appartengono sono stato alquanto lunghetto. Perciò che io conosco che ambedue sono in te, e acciocché tu ti ricordi che queste cose, che tu scrivi, non vengono da te, ma da Giove e da le Muse, de lo Spirito e divinità de le quali sei ripieno. Perilché Carissimo mio Pellegrino, tu sarai cosa santa e giusta, se tu conoscerai (come penso che tu habbia fatto fin qui) che di tutte le cose grandi e buone, non tu o altro mortale huomo, ma più tosto l’immortale Iddio n’è stato autore e principio. Sta sano, sappia certo che io nessuno ho più caro di te.

Di Figline il dì primo di Dicembre MCCCLVII.

Marsilio Ficino.

Si scusa la lunghezza.

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