Nell’ottobre del 1833, Giacomo Leopardi si trasferì a Napoli a seguito dell’amico Antonio Ranieri. La sua salute migliorò alquanto, tantoché, il 2 maggio 1835, informava Antonietta Tommasini di essere in grado di leggere e scrivere. Dal 2 settembre 1834 al 25 aprile 1835, scrisse di suo pugno cinque lettere a Monaldo, preannunciandogli l’imminente rientro a Recanati, da dove mancava da circa cinque anni. In verità, non desiderava abbandonare il Ranieri e le ristrettezze economiche impedivano il viaggio di ritorno.
Tenne una fitta corrispondenza epistolare con Luigi De Sinner, Karl Bunsen ed Adelaide Maestri, alla quale aveva accennato l’intenzione di muoversi da Napoli, ma la speranza era destituita d’ogni probabilità d’attuazione. Inoltre ella era l’unico gancio col mondo; infatti lo informò dell’arresto del Giordani, avvenuto nel febbraio del 1834:
«Raccontatemi qualche cosa di Giordani, del quale qui tutti mi domandano, e per lo più invano, non sapendosi qui nulla del mondo se non a caso. Ditegli da mia parte le cose più amorevoli che sapete».
Tra gli anni 1834 e 1835, Leopardi compose i canti in strofe libere con rime nel mezzo, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima.
Nel primo canto, la morte riprende il triste aspetto, che sempre ha avuto tra gli uomini. Egli vede la bella giovane, rappresentata nel bassorilievo e le domanda:
Dove vai? chi ti chiama
lunge dai cari tuoi,
bellissima donzella?
Sola, peregrinando, il patrio tetto
sí per tempo abbandoni? a queste soglie
tornerai tu? farai tu lieti un giorno
questi ch’oggi ti son piangendo intorno?
Dalle domande poste, non si evince se il destino della donna sia lieto o triste.
Seguono tre strofe variamente lunghe ed una serie di domande, rivolte alla natura, cui chiede se il morire anzitempo sia male, e perché ciò accadrebbe per i giovani innocenti. Qualora fosse bene il morire, a quale fine il dolore e l’inconsolabilità da parte di chi resta verso chi non è più.
Ahi! perché dopo
le travagliose strade, almen la meta
non ci prescriver lieta?
[…]
e spaventoso in vista
più d’ogni flutto dimostrarci il porto?
In questa poesia, domina fortemente il legame affettivo della famiglia umana: Giacomo illustra tutti i mali ed i dolori, che, a causa della morte, angosciano quel legame.
Nel canto Per il ritratto di bella donna, il motivo musicale illustra il seguente concetto: la bellezza è viva immagine del cielo, ma potrebbe degenerare nel disgusto. Il canto è composto da quattro strofe: le prime due di diciannove versi ciascuna, le rimanenti, più brevi, di undici e sette.
Meravigliosa la descrizione della donna effigiata nel marmo nella prima strofa; i sentimenti e le speranze occupano l’intera seconda strofa; sogni e progetti sono descritti nella penultima strofa; due domande senza risposta chiudono il componimento:
Natura umana, or come,
Se frale in tutto e vile
Se polve ed ombra sei, tant’altro senti?
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
Son così di leggieri
Da sì basse cagioni e desti e spenti?
∴
Nel mese di maggio del 1835, la coppia si trasferì nel quartiere di Via Capodimonte, che si trovava in una zona della città assai privilegiata per l’aria buona e assai vicina all’abitazione della famiglia di Antonio.
«La mia Paolina – scriveva il Ranieri – era sì fatta, che dovunque arrivava, recava seco la tranquillità e la gioia; quanta maggiore, almeno, se ne può avere sulla terra da chi sente e pensa».
Giacomo fu assai contento del trasferimento, poiché quell’aria era così ristoratrice per i suoi annosi malanni; poteva anche usufruire dei buoni servigi di Paolina, gentile ed affettuosa; il Ranieri fungeva da segretario, sempre pronto ad aiutarlo nella scrittura ed ai bisogni. La sera spesso si recavano al Teatro del Fondo, dove Leopardi poté assistere al Socrate immaginario di Giovanni Paisiello.
Per il sostentamento, Giacomo pretese una cambiale dallo zio, Carlo Antici, che sperava di risolvere, dovendo riscuotere un’importante somma dal libraio Starita, il quale si dimenticò di aver contratto un debito col Poeta, che aveva ceduto i diritti per la stampa dei suoi Canti.
Il 3 ottobre, Leopardi scrisse al De Sinner:
«Io dopo quasi un anno di soggiorno in Napoli, cominciai finalmente a sentire gli effetti benefici di quest’aria veramente salutifera: ed è cosa incontrastabile ch’io ho ricuperato più di quello che forse avrei osato sperare. Nell’inverno passato potei leggere, comporre e scrivere qualche cosa; nella state ho potuto attendere – benché con poco successo quanto alla corresponsione tipografica – alla stampa del volumetto che vi spedisco – i Canti, edito dallo Starita – ed ora spero di riprendere ancora in qualche parte gli studi, e condurre ancora innanzi qualche cosa durante l’inverno».
Intanto Giacomo aveva quasi terminato di comporre i Paralipomeni della Batracomiomachia ed i Pensieri, che sarebbero dovuti essere pubblicati dallo Starita, il quale disgustò il Poeta, che lo definì «un pidocchioso libraio, il quale avendo raccolto col suo manifesto un numero maggiore di associati che non credeva, sicuro dello spaccio, aveva dato la più infame edizione che aveva potuto».
Si lamentava col De Sinner, perché la Chiesa s’era dimostrata dispiaciuta colla filosofia dello Scrittore, «i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome e sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto».
Sin dai primi lavori giovanili, aveva condotto alla negazione ed all’aborrimento della dottrina cristiana.
A ventuno anni, era esploso l’ardore patriottico rivoluzionario nella canzone All’Italia. Nel 1827, si era trasferito a Firenze, città che forse presentava i migliori rappresentanti, intorno a Vieusseux, i quali miravano al miglioramento civile del popolo italiano, che per Giacomo rappresentava una stagione destinata all’inesorabile tramonto, perché ormai viveva in sé il radicamento dell’infelicità, comune a tutti gli esseri viventi.
Il Giordani mostrava il suo dissenso sulle opinioni del Recatanatese, accordandosi col cenacolo Vieusseux per un effettivo miglioramento dello stato civile degli italiani. Riunito nell’illustre Gabinetto ad altri importanti letterati, era informato di fisica e di meccanica, di scienze economiche e dei progressi delle industrie, che lo lasciavano alquanto perplesso, non credendo nel miglioramento interiore dell’uomo. Le considerazioni del periodo maturarono nella Palinodia, composta a Napoli nel 1835, secondo alcuni critici tra i componimenti poetici meno riusciti.
Il periodo compreso tra la primavera del 1835 e l’autunno del 1836, fu senz’altro il più sereno dell’intera vita del Leopardi, il quale allargò il giro delle amicizie letterarie, raccolto attorno alla rivista Il Progresso, che aveva dato inizio alle pubblicazioni dal 1832. Di particolare importanza, era la scuola riunita attorno al marchese Basilio Puoti, rappresentante il culto e lo studio della lingua del tempo. Leopardi era tenuto in gran considerazione dagli studenti, che spesso gli dedicavano dimostrazioni di sincera stima. Il Poeta si recò in visita presso la scuola, dove gli alunni in quel momento si stavano dedicando alla lettura dei componimenti ed alle successive osservazioni. Puoti chiese un giudizio a Giacomo sulla metodologia adottata ed il Poeta lodò particolarmente l’attenzione dimostrata verso gli antichi.
Pur essendo un periodo privo di particolari disturbi, il suo pensiero volava spesso verso Recanati, ed il 4 dicembre 1835, scrisse alla sorella, Paolina:
«Io, cara Pilla, muoio di malinconia sempre che penso al gran tempo che ho passato senza riveder voi altri; quando mi rivedrai, le tue accuse cesseranno. Se fosse necessario, ti direi che non sono mutato di uno zero verso voi altri; ma tra noi queste cose non si dicono se non per celia, ed io ridendo te le dico».
Nell’aprile del 1836, trascorse con alcuni amici dei giorni in una villetta alle falde del Vesuvio, tra Torre del Greco e Torre Annunziata. Leopardi fu così soddisfatto del nuovo soggiorno, che prolungò la permanenza fino al 15 febbraio del 1837. Nell’incanto della natura, si risvegliò gagliarda la sua vena poetica, che avrebbe prodotto Il tramonto della luna e La ginestra.
Nel primo Canto, egli compiange la giovinezza, tema inesauribile nella letteratura del Nostro, laddove insiste nella dolorosa accettazione della vecchiaia, che violentemente esclude gli anni giovanili, per prenderne il posto. Dal confine del cielo, la luna manda la sua fioca luce ad illuminare un vago paesaggio marino, fin quando l’oscurità domina completa la scena. La luna è scomparsa, mentre il carrettiere saluta mestamente l’ultimo albore della luce, che gli fu guida. Allo stesso modo, dilegua la giovinezza, fuggono le speranze e le illusioni, lasciando il regime ad una triste tenebra, che avvolgerà la rimanente vita dell’uomo.
Nella Ginestra, vi è la descrizione della campagna vesuviana, immortalata nel suo terribile passato, nello squallido e pauroso presente.
Il Poeta immagina di essere spettatore della terribile eruzione, che distrusse Ercolano e Pompei. Quindi si preoccupa di descrivere il terrore, di cui è preda l’animo umano alla minaccia di una nuova eruzione
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontano l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Egli rappresenta meravigliosamente le scene, rievocate dalla sua fantasia, le quali originano profondi pensieri e meditazioni filosofiche aperte ad un’inaspettata soluzione consolante. Il povero fiore della ginestra ha assistito allo scempio della natura, ed è per ciò che Giacomo rimprovera gli uomini, quando si ergono a legislatori dell’universo salvo mostrare per intera la più completa impotenza davanti allo scatenarsi degli Elementi. Egli contestò l’origine dell’uomo, che, essendo stato creato da Dio, sarebbe stato destinato alla felicità. La realtà è invenzione del vero, il quale destina l’uomo all’infelicità; allora si genera necessaria una lega umana contro la propria, inesorabile nemica. Al contrario, gli uomini ricercano la personale soddisfazione nelle scienze economiche, mai liberi dall’infelicità. Dovrebbero invece mirare al bene comune, all’amore fraterno, unica speranza, perché possa attenuarsi la violenza, che vive nel mondo.