I figli di Marte

Pieter Paul Rubens – Marte con Rea Silvia (Liechtenstein Museum, Vienna)

Il mito narra di una giovane addormentata sulle sponde del Tevere, scorta da Marte, il dio della guerra, il quale non resiste all’attrazione di quel corpo, scoperto appena dal vento. Le dolci forme, le cosce tornite, i seni ben disegnati; Marte, contrariando la sua natura, possiede la giovane senza neanche svegliarla.

Da quell’unione divina, sarebbero nati due gemelli, figli di una sacerdotessa e di un dio: Romolo e Remo, nei quali scorreva del sangue greco, perché eredi di Ascanio, il fondatore di Alba Longa, sul cui trono sedeva un usurpatore: Amulio, il quale aveva deposto il fratello, Numitore, ed ucciso i suoi discendenti maschi. L’unica salvata dal massacro era la nipote, Rea Silvia, costretta ad indossare gli abiti di vestale, che l’avrebbero obbligata a trent’anni di castità.

Appena Amulio seppe della nascita dei gemelli, interrogò la nipote, la quale si difese, attribuendo la giusta paternità a Marte. La spiegazione non convinse punto il re, che condannò la nipote alla pena prevista per quelle vestali, che avessero tradito il voto di castità: sepolta viva. La sfortunata fu imprigionata e, secondo una leggenda, sarebbe perita in seguito alle sofferenze, quindi gettata esanime nel Tevere, dove il dio Tiberino l’avrebbe resa sua sposa.

I gemelli sarebbero finiti negli ampi gorghi del fiume Tevere, ma gli dei stimarono che straripasse, così gl’incaricati dell’efferato delitto abbandonarono i bebè in un punto dove le acque erano meno tumultuose, adagiandoli in una cesta. Quella fortuita imbarcazione si arenò sotto un albero di fico. Mentre una lupa, spinta dalla sete, si avvicinava alle sponde del fiume, ascoltò il vagito dei bimbi, così offrì loro le mammelle, per sfamarli.

Jacopo della Quercia – Acca Larenzia (Ospedale Santa Maria della Scala, Siena)

Condotti presso una grotta, la lupa amorevolmente se ne prese cura, finché un pastore del luogo, Faustolo, prelevò i neonati, per portarli alla moglie, Acca Larenzia, la quale da poco tempo aveva perduto il proprio figlio. La donna sarebbe stata ricordata, per la sua importantissima opera di nutrice, il 23 dicembre, ultimo giorno dei Saturnali, in quanto madre degli antenati (i lari).

I bambini crebbero, mostrando doti poco comuni ai coetanei. Faustolo conosceva la storia della sfortunata Rea Silvia e dei gemelli perduti, e scelse di tacere. Un giorno, durante una lotta con alcuni briganti, Remo fu catturato e condotto di fronte ad Amulio, il quale consegnò il reo al fratello, Numitore, perché provvedesse a punirlo. Faustolo si accorse ch’era giunto il momento di rivelare l’esatta identità del condannato, il quale progettava come vendicarsi dei suoi accusatori, assaltando Alba Longa.

Amulio sottopose ad un nuovo interrogatorio il presunto colpevole, e così, un poco alla volta, capì che di fronte aveva il perduto nipote. Remo fu liberato.

Romolo aveva posizionato i suoi uomini, per attaccare Alba Longa, perché l’usurpatore fosse finalmente deposto, e collocare sul trono il legittimo erede: Numitore. I gemelli, dopo essere stati, giustamente, acclamati quali liberatori, chiesero di tornare nel luogo, dove erano stati abbandonati, al fine di fondarvi una nuova città. Nacquero dei forti disaccordi tra i fratelli, finché s’accordarono che sarebbero dovuti essere gli dei a decidere attraverso il volo degli uccelli. Remo salì sul colle Aventino, Romolo sul Palatino, dove intravide dodici pennuti. Ben presto, i contendenti arrivarono alle mani, supportati dai loro seguaci, e il gruppo di Remo fu costretto a ritirarsi.

Pomerium romano

In primavera, Romolo salì nuovamente sul Palatino, per segnare il confine della città coll’aratro, dopo aver dedicato dei sacrifici agli dei. Aggiogati un toro ed una vacca, li guidò, perché descrivessero una circonferenza antioraria, quindi ne tracciò una seconda, per formare il pomerium, dove i sacerdoti avrebbero confinato i demoni.

Era il 21 aprile 753 avanti Cristo.

Dodici furono gli uccelli, che Romolo vide sul colle Palatino, e dodici furono i secoli, in cui Roma dominò il mondo.

Chiunque avesse varcato il sacro limite, sarebbe stato ucciso dal fondatore della nuova città. Remo si offrì di contraddire il fratello, e così Romolo fu costretto a commettere un fratricidio.

Anche i Greci si arrogarono il merito di aver fondato Roma, la cui etimologia era indubbiamente di lingua greca: rhome, forza. I pelasgi approdarono sulle coste laziali, dove fondarono una nuova città, il cui nome ricordava il valore nell’arte della guerra del popolo creatore.

Plutarco (46 ca. – 125 ca.)

Lo storico Plutarco, vissuto tra il I ed il II secolo, fornì più versioni sulla fondazione della città. Alcuni profughi troiani, guidati da Enea, sbarcarono sulle coste laziali, dove presso il colle Palatino istituirono una nuova città, assegnandole il nome di una loro donna.

Un’altra versione significherebbe la fondazione al signore dei Latini, Rhomis; mentre anche gli Etruschi sarebbero stati chiamati in causa, poiché il nome potrebbe derivare da ruma (mammella), lemma non indoeuropeo, come la lingua etrusca.

Scrisse a tal proposito Plutarco nella Vita di Romolo:

«Sulle rive dell’insenatura sorgeva un fico selvatico che i romani chiamavano ruminalis o, come pensa la maggioranza degli studiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti erano soliti ritirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzogiorno, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma la mammella: ancora oggi chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l’allattamento dei bambini».

Infine, secondo il grammatico latino Servio, vissuto tra il IV ed il V secolo dopo Cristo, Roma deriverebbe da Rumon, il nome antico del fiume Tevere, definendo così la città, dove scorreva il fiume.

Tito Livio (59 a. C. – 17 d. C.)

Tito Livio, vissuto tra il I secolo a. C. ed il I secolo d. C. sostenne che il re arcade, Evandro, avesse fondato presso il colle Palatino un piccolo villaggio, che ospitasse il suo drappello di transfughi. Quando sopraggiunse dalla città di Troia Enea, il re stava celebrando un rito in onore di Ercole, al termine del quale lo informò che il Tebano era giunto nel Lazio, proveniente dalla Spagna, dove s’era recato, al fine di sottrarre dei buoi a Gerione. Seppe che un mostro di nome Caco flagellava la regione con azioni contro il patrimonio. Anche la preziosa mandria fu oggetto delle attenzioni del mostro, che la nascose nella caverna presso il colle Aventino. Ercole fu costretto a recuperare gli armenti, ma trovò delle immediate difficoltà, poiché Caco aveva introdotto gli animali per la coda, per lasciare delle orme sbagliate, che inducessero all’errore il Tebano. Fortunatamente il muggito di un armento attirò Ercole, che rimosse il masso, che chiudeva la caverna, per indirizzarsi verso il feroce custode, colpendolo e poi stritolandolo, fino a provocargli l’uscita degli occhi dalle orbite. In un’altra versione del mito, il mostro sarebbe stato abbattuto dai colpi di clava ricevuti. I popoli laziali perché finalmente liberi dall’oppressione, formarono un apposito rito per il liberatore, destinato all’Ara Massima di Ercole Invitto, che si trovava nel Foro Boario.

Insomma, tante le ipotesi, ma, come sempre accade nel racconto mitologico, le origini si perdono, perché trasportate via dal vento, ma il fascino, che suscitano nell’uomo, rimane incontaminato.

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