Gioacchino Turriano generale dei Domenicani, e Francesco Romolino, vescovo d’Ilerda, commissari pontifici, entrarono solennemente in Firenze il 19 maggio 1498. Erano stati inviati dall’autorità romana, affinché adempissero al compito di condannare Fra’ Girolamo.
L’indomani l’accusato fu nuovamente torturato alla presenza dei messi papali, dei Gonfalonieri di Compagnia e dai rappresentanti della Signoria. Ser Cecco, appartato in un cantuccio, aveva ricevuto l’incarico di trascrivere ogni risposta del Frate, affinché fosse poi cambiata a suo danno. Anzitutto, gli fu chiesto notizie attorno ai nomi di coloro che lo avrebbero aiutato ad organizzare un concilio, onde condannare di fronte all’assemblea le male azioni di Alessandro VI. Fra Girolamo rispose che non aveva fatto menzione alcuna in Italia, ma sperava – in cuore suo – in un’iniziativa dei principi stranieri. Non vi era alcuna ammissione di colpe rispetto alla fede, sicché Romolino minacciò ancor più severe conseguenze, se il reo non avesse confessato. Sottoposto a pratiche ancor più dolorose, il Frate delirò, ma nonostante l’evidente stato d’alterazione non pronunciò frasi, che lo potessero accusare di essere un eretico.
Alla fine, gli atti processuali furono talmente falsati dall’abile mistificatore, ser Cecco, che apparì evidente l’ingannevole procedere; così si concluse la farsa – processo.
La giuria condannò il Savonarola a morte insieme ai due sfortunati confratelli. Si alzò alta la voce di Agnolo Pandolfini, il quale reclamò sulla decisione della pena capitale, non ravvisando colpe tali da meritare un simile martirio. Propose la detenzione a vita, perché potesse trasmettere il suo pensiero alla città, ed al mondo. I giurati risposero che il prigione avrebbe potuto godere di qualche azione di grazia e tornare libero di predicare e di accusare Roma. Fra Domenico e Fra Silvestro, compagni di sventura del più celebre Frate, furono condannati solo perché – in definitiva – troppo vicini all’attività del principale accusatore, poiché la giuria non trasse alcuna colpa dalle loro dichiarazioni.
Comunicata la sentenza, Fra Silvestro manifestò profonda la paura; Fra Domenico invece riuscì a manifestarsi apparentemente tranquillo. Chiese ed ottenne di scrivere un’ultima lettera ai suoi confratelli di S. Marco:
«Fratres dilectissimi et in visceribus Jesu Christi.
Perché la volontà di Dio è che noi siamo per lui morti; voi che resterete, pregate per noi, tenendo a mente i miei ammaestramenti, di star uniti in carità e bene occupati in santi esercizi. Pregate per noi, particolarmente nelle solennità, quando siete insieme congregati in coro; ed il corpo mio seppellitelo costì in terra, non dentro in chiesa; ma dinanzi alla porta di essa, o da un canto in luogo umile, e direte per noi le solite messe. Ed io, dove spero potere, farò il simile per voi.
Baciate tutti i fratelli, costì in San Marco, da mia parte, massime i nostri dilettissimi di Fiesole, quorum nomina in corde fixa ante Deum porto. Fate raunare dalla cella nostra tutti gli opuscoli del Padre fra’ Girolamo; fategli legare e metterne una copia in libreria e un’altra in refettorio, per leggere a mensa, pur con la catena; acciò anche i fratelli conversi possano, quivi, qualche volta leggerli».
Fra Girolamo attese la sentenza pregando nella sua cella, e continuando l’orazione dopo aver udito la terribile decisione. Poco dopo, ricevette la visita di Jacopo Niccolini, incaricato di assistere i moribondi fino agl’ultimi istanti di vita. Il Savonarola gli chiese se potesse incontrare i due sfortunati morituri. Un monaco benedettino si preoccupò di confessare fra Girolamo; quindi avvenne l’incontro nella sala del Consiglio Maggiore. Tornati in cella, il Padre trovò il suo ultimo accompagnatore, al quale rivelò un’ultima profezia, che avrebbe riguardato colui che si sarebbe nomato Clemente. Il vaticinio si sarebbe rivelato durante l’assedio di Firenze del 1529.
L’indomani, i condannati furono condotti in piazza, per essere impiccati, quindi arsi. Un frate di S. Domenico ordinò loro di liberarsi dell’abito, perché rimanessero colla tonaca bianca. Il vescovo di Vasona fu incaricato di pronunciare la formula, colla quale di fatto si spezzava ogni legame del morituro colla Chiesa di Roma:
«Separo te ab Ecclesia militante atque triumphante».
Fra Girolamo lo corresse: «Militante, non triumphante: hoc enim tuum non est».
Ceduti al braccio secolare, furono condotti innanzi ai Commissari apostolici, perché udissero la sentenza, che li provava scismatici ed eretici. Assolti da ogni peccato, accettarono l’assoluzione. Quindi i rappresentanti della Signoria proclamarono:
«Il Gonfaloniere e gli Otto, bene considerati i processi dei tre frati, e gl’immensi delitti che ivi si contengono; e considerata soprattutto la sentenza del papa, che li consegna al tribunale secolare, perché fossero puniti; deliberano: che ciascuno dei tre frati venga sospeso al patibolo e poi bruciato; acciò le anime sieno affatto separate dai loro corpi».
Fra Silvestro fu il primo ad essere condotto al supplizio; seguì fra Domenico; in ultimo Fra Girolamo: erano le 10 del giorno 23 maggio 1498.
Tra i presenti diverse furono le manifestazioni di esultanza ma anche di sdegno davanti a quell’orribile carneficina. I fedelissimi del Frate tentarono di ricavare tra le fiamme qualche reliquia. Pico della Mirandola, che aveva assistito allo strazio, dichiarò di aver rinvenuto un pezzo di cuore del Frate, ch’era stato gettato in Arno. Più volte aveva assistito a degli autentici miracoli grazie al prezioso cimelio.
Iniziarono le persecuzioni contro i Piagnoni; fu chiuso per due mesi il convento di San Marco e spogliato di ogni diritto acquisito; fu impedita anche l’assunzione dei novizi. Molti frati furono esiliati, compreso Aurelio, fratello e confratello di Fra Girolamo.
Presto la furia popolare si scagliò contro quei cittadini, accusati d’esser seguaci del Frate, i quali, per evitar pesanti conseguenze pagarono i commissari apostolici e furono subito liberi da ogni ripercussione.
Il 23 maggio di ogni anno, il luogo, dove era stato bruciato il corpo di Savonarola, divenne parte di assiduo pellegrinaggio cittadino.
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Dopo la morte del Savonarola, gli Arrabbiati convennero che, al fine di salvare la Repubblica, era inteso adottare le proposte del Frate. Avvicinandosi Piero e Giuliano de Medici coll’esercito veneziano ai confini, stabilirono un’alleanza coi Piagnoni, sostenuta dal Duca di Milano.
Alessandro VI era troppo distratto dalla vita peccaminosa, che conduceva, per preoccuparsi punto della situazione politica, ma non il Duca Valentino, figlio del papa, che meditava di promuovere la sua potenza sopra tutta l’Italia a cominciare dalla Toscana. Per evitar il peggio, i fiorentini offrirono 36.000 ducati annui, ma dovettero cedere alle momentanee scorribande in territorio delle truppe inviate da Cesare Borgia.
Fu decisamente approntata la politica del Savonarola, unendo i fiorentini ai francesi. L’alleanza mostrò sicuri i pronti risultati, ma fomentarono gli appetiti di Luigi XII, che ben presto causò tante sventure all’Italia, realizzando così i vaticini di Fra Girolamo.
Nel settembre del 1512, gli spagnoli ponevano in Firenze nuovamente i Medici. Cinque anni più tardi, Martin Lutero avrebbe provocato lo scisma.
Il 26 novembre 1523, ascese al trono il cardinale Giulio Zanobi, col nome di Clemente VII; Roma fu assediata dalle truppe di Carlo V. In Firenze, iniziò a traballare il dominio mediceo, sicché fu nuovamente proclamata la repubblica. I cittadini si dichiararono pronti a difenderla a costo della vita, ispirandosi agl’insegnamenti del Frate, ma nel 1530 la repubblica cadde miseramente.
Nel 1558, fu definitivamente sospeso il divieto pontificio di pubblicare le opere del Padre, grazie alla volontà di Paolo IV, che chiese ad una commissione composta da quattro cardinali di leggere e studiare l’opera dello sfortunato Frate. Personaggi di assoluto rispetto come Caterina da Siena e San Filippo Neri si dichiararono seguaci di Fra Girolamo e Benedetto XIV lo avrebbe dichiarato tale, ammettendo la lettura all’interno dei seminari e delle scuole cattoliche.
Sic transit gloria mundi.