Il 30 marzo 1885, sulla rubrica La vita a Roma, apparve un articolo di Gabriele D’Annunzio in merito all’esecuzione dello Stabat mater di Gioachino Rossini presso il Teatro Costanzi di Roma.
«Il solito grande concerto annuale di Augusto Rotoli1 fu dato ieri sera nel teatro Costanzi, nel più giocondo teatro di Roma. In verità, lo spirito della musica rossiniana e la profanità dell’ambiente armonizzavano; perché nulla v’è di più genialmente teatrale e melodrammatico che questo Stabat ecclesiastico.
Io, nondimeno, ripensavo ieri sera, quasi con rimpianto, al tempo in cui Augusto Rotoli dava i suoi concerti in quella tradizionale sala Dante così infelicemente sorda e così tediosamente afflitta dal continuo piangere della fontana di Trevi.
Erano delle serate terribili, ma singolarissime. Un calore grave scendeva dalle fiammelle del gas e saliva dalla massa delli ascoltatori; uno stordimento invincibile, una specie di offuscamento della vista e di ottusità dell’udito, prendeva tutti i presenti. L’affluenza della gente era tanta che tutti i vani delle finestre e li angoli più remoti e i nascondigli sotto alle impalcature e li angustissimi spazii tra sedia e sedia contenevano un inverosimile numero di persone.
Per il contatto immediato di tutti quei corpi, si stabiliva in tutti una specie di sensazione sincrona, una sensazione mista di sofferenza e di godimento, di fastidio e di diletto. Nessuno, oppresso da quella lenta soffocazione, pensava ad uscire. Il concerto rotoliano aveva l’inesplicabile fascino che hanno su li uomini e su le donne le consuetudini stupide, inutili e noiose. Ognuno andava e restava sino alla fine, così, senza sapere perché, con una abnegazione inconsapevole, vinto da un affievolimento infinito, sentendo la sua volontà scomparire.
La grande musica di Rossini passava su tutte le teste, con un curioso effetto di lontananza, come proveniente da un luogo chiuso. Di tratto in tratto, qualche alto slancio vocale scuoteva l’invadente torpore nella massa sottostante.
I cori s’intravedevano su ‘l palco, confusi in un color dubbio tra il bianco e il nero. Ed Augusto Rotoli, eminente, pareva a mezz’aria una qualche adiposa divinità giapponese, un Daikakus o un Ofiadama o un Tossitoku in abito europeo, con quella sua faccia di plenilunio autunnale.
Ora invece Augusto Rotoli dà il suo concerto pasquale nell’amplissimo teatro Costanzi. E il concerto così muta carattere, ha un’apparenza comune di rappresentazione lirica; e, acquistando per il luogo importanza, diminuisce per merito di esecuzione. Tutti i difetti e le debolezze dell’orchestra e dei cori ora appariscono evidenti nella vasta sonorità del teatro novello.
E come da un’ascoltazione più tranquilla proviene una più sicura sincerità di giudizi e di impressioni, il pubblico eletto ora qui ha opportunità di confrontare, di desiderar meglio.
Del resto, io non credo che Augusto Rotoli, per quella sua fine intelligenza di artista, abbia mai pensato e sia mai stato persuaso di poter dare al pubblico eletto una esecuzione perfettissima dello Stabat rossiniano.
Egli si contenta di offrire uno Stabat passabile, una esecuzione discreta per le esigenze della moltitudine, un trattenimento mezzo sacro e mezzo profano, adatto insieme all’ambiente mondano, e alla stagione quaresimale.
Ha la fortuna, ogni anno, d’ottenere la cooperazione vocale di artisti valentissimi. Iersera, infatti, l’aria del Cujus animam fu cantata con molta abilità e con molto gusto da Tobia Bertini2. Il duetto Quis est homo fra soprano e contralto fu eseguito egregiamente dalla signorina Voenna e dalla signorina Duvivier; delle quali la prima aveva un abito fraise – écrasée cupo con merletti e la seconda aveva una freschissima toilette candida su cui brillavano più vivacemente le mondane grazie provocatrici della faccia rosata.
Il Lorrain, l’incomparabile uccellatore, cantò l’aria Pro peccatis con una gagliardia stupendamente misurata; e la signorina Voenna di nuovo fu applauditissima nell’Inflammatus et accensus.
I cori, un po’ disuguali, formavano un semicerchio digradante sopra un alquanto eroico fondo di colonnati jonici. La varietà delle acconciature e delle vesti dava uno spettacolo assai curioso. La prima fila aveva l’apparenza d’una enorme tastiera di pianoforte, con tasti d’avorio e d’ebano (oh, quei diesis, che orrore!). La seconda fila sembrava una gran corona di verzura teneramente primaverile, poiché nella seconda fila dominavano i toni verdi delle foglie di lattuga nascente e i toni gialletti dei cavoli che stanno per fiorire. La terza fila poi, la fila più audace, rideva come una ghirlanda di fiori del zafferano e di rose molto canine e di caprifogli falsamente multicolori.
Al concerto assisteva S. M. la Regina».
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(1) Compositore e cantante, nato a Roma nel 1847 e morto a Boston nel 1904.
(2) Tobia Bertini, (1856 – 1936), tenore.
un documento storico interessante, grazie per averlo condiviso
Prego