Il rapimento di Giacomo Matteotti nella cronaca della stampa dell’epoca

Il 13 giugno del 1924, l’organo La Stampa di Torino comunicò l’inspiegabile sparizione del deputato socialista, Giacomo Matteotti, avvenuta tre giorni prima.

Benito Mussolini (1883 – 1945)
Emilio De Bono (1866 – 1944)

Immediate furono le ricerche avviate, su ordine del Presidente del Consiglio, Benito Mussolini, che incaricò il senatore De Bono, direttore generale della Polizia, «di occuparsi direttamente della straordinaria faccenda, di fornirgli i particolari dei risultati man mano che se ne abbiano.  L’onorevole Mussolini ha insistito perché tutte le forze della polizia romana sieno mobilitate allo scopo.

In seguito a ciò il sen. De Bono si è recato oggi, 13 giugno alle ore 16,30 alla Questura centrale, per assumere personalmente la direzione delle indagini e tutti i funzionari sono a sua disposizione».

Martedì 10 giugno l’onorevole Matteotti era uscito di casa verso le ore 16, accompagnato – come da diverso tempo – da un agente di pubblica sicurezza, come testimoniò la moglie, la Signora Velia.

«Mio marito usci di casa l’altro giorno, martedì, alle 16,30 per recarsi a Montecitorio. Uscì, ricordo, senza gilet, con dieci lire in tasca, promettendo di tornare per il pranzo alla sera. Viceversa, non ho più avuto alcuna notizia di lui. La sparizione fu denunziata, ieri, dopo pranzo. Se ne sono incaricati, io credo, gli onorevoli Turati e Modigliani, i quali sono grandi amici di mio marito; essi ritennero prudente denunziare la sua scomparsa direttamente al Ministero dell’Interno».

La Signora Velia precisò:

«Mio marito è un uomo ordinatissimo e preciso, che passa in casa la maggior parte della giornata. Non frequenta caffè o luoghi pubblici, non gli accadde mai di assentarsi anche per una giornata senza avvertirmi. Soltanto qualche rara volta, in occasione di gravi dibattiti alla Camera, egli passa la notte all’Hotel di Montecitorio o al Nazionale, ma non è mai accaduto che egli non mi avvertisse. Non voglio supporre niente; non ho indizi per supporre niente di probabile; ma so che mio marito si allontanò di casa recando seco un fascio di importanti documenti che dovevano servirgli a pronunciare un discorso polemico nella discussione sul bilancio e sull’esercizio provvisorio».

Il Giornale d’Italia riportò le dichiarazioni dell’avvocato Luigi Gualdi, il quale avvalorava l’ipotesi del sequestro da parte di sconosciuti.

«Martedì 10 — potevano essere le ore 16,10 — io mi trovavo in compagnia di Adelchi Frattaroli, impiegato all’Istituto nazionale delle Assicurazioni, e del sig. Di Leo, impiegato all’Ufficio delle polizze dei combattenti, in via del Babbuino, nei pressi del monumento a Ciceruacchio, nel Lungo Tevere Arnaldo da Brescia.

Improvvisamente, la mia attenzione e quella dei miei compagni fu attratta da grida di aiuto, che partivano dall’interno di un’automobile chiusa, di cui non scorgemmo la targa indicativa e che stava ferma all’angolo di via Stanislao Mancini e Lungo Tevere Arnaldo da Brescia, proprio in corrispondenza della scalea che conduce al porto fluviale.

Quelle grida, di una voce squillante, ci diedero subito l’idea che qualcuno nell’interno della vettura doveva essere malmenato. Non riuscimmo a formulare alcun sospetto ed alcun proposito, che tre individui, i quali erano fuori della vettura, a pochi passi da essa, ne aprirono lo sportello e vi entrarono, mentre l’automobile iniziava la sua marcia. La vedemmo percorrere il Lungo Tevere verso il ponte del Risorgimento. Ci guardammo in viso con un punto interrogativo. Un signore, da una finestra della palazzina a noi prospiciente, ci chiese che cosa fosse accaduto, ma non sapemmo che ripetere ciò che avevamo udito e veduto.

Questa mattina, letta la notizia della sparizione dell’on. Giacomo Matteotti, ognuno di noi tre ha pensato che il fatto dell’altro ieri riguardasse proprio la persona di lui, dato anche che l’abitazione del deputato è a pochi passi dalla scena più sopra descritta».

L’avvocato Gualdi, accompagnato dai due amici, si recò in Questura, per deporre.

«Frattanto, un redattore del Giornale d’Italia ha iniziato indagini sul posto dove sarebbe avvenuto il ratto, insieme cogli on. Treves, Bocconi e Cosattini. Giunti sul Lungo Tevere, Arnaldo da Brescia, giornalista e deputati si sono recati in casa dell’avvocato Gavarni, segretario di una Associazione industriale che ha i suoi uffici all’ultimo piano del villino Morpurgo e che guarda precisamente sulla zona che si estende tal Lungo Tevere Arnaldo da Brescia, sino alla via Antonio Scialoia.

Il signor Gavarni trovavasi in Questura, dove si ora recato a deporre i suoi importanti elementi di fatto cui per combinazione aveva assistito.

Rientrato poco dopo, ecco come l’avv. Gavarni ho raccontato il fatto di cui era stato testimone:

Martedì, nel pomeriggio, e precisamente verso le 16,30, io ero nel mio studio, la cui finestra dà sulla via Antonio Scialoia.

All’improvviso la mia attenzione fu richiamata da un insistente suono di sirena da automobile. Mi sono affacciato alla finestra ed ho visto che un gruppo di cinque individui teneva a viva forza un signore, che cercava di svincolarsi e rifiutava di montare in una automobile, sulla quale finirono di caricarlo.

La scena si svolse rapida e fulminea, tanto che io, affrettatomi a scendere, non arrivai in strada che quando l’automobile era già scomparsa.

Per quanto io posso ricordare, data la rapidità, della scena, a me sembra che l’aggredito vestisse di grigio (la moglie del deputato ha confermato che era vestito di grigio). Era senza cappello, e ai tentativi, subito riusciti, di metterlo a viva forza sull’automobile, egli opponeva una vivace resistenza e gridava. Evidentemente, la sirena dell’automobile era stata, nella lotta tra aggressori ed aggredito, afferrata da quest’ultima e suonata come un appello disperato.

A quale punto della strada — ha chiesto il giornalista — è avvenuta precisamente l’aggressione?

L’automobile era ferma nei pressi del villino Almagià, quasi all’angolo del Lungo Tevere Arnaldo da Brescia con via Antonio Scialoia. Quando io mi sono appoggiato alla finestra gli aggressori con l’aggredito venivano verso l’automobile e avevano di poco superato l’angolo di strada. Le due vie a quell’ora era completamente deserte. L’automobile era chiusa a landaulet. Naturalmente, anche per la distanza e per la posizione della macchina, io non sono riuscito a vedere se era pubblica o privata, e tanto meno a identificare il numero. Mi sembrò di colore scuro quasi nero».

In seguito a pressioni, esercitate dagli uomini della Questura, «l’avvocato Gavarni rivelò il numero della targa dell’automobile 56-12169.

Appena attenuta questa importante dichiarazione, la Questura ha proceduto alla identificazione della macchina stessa. Si è stabilito così che si tratta di una landaulet FIAT, dipinta in nero, appartenente al garage di un certo Giovanni Tomassini, in Via dei Crociferi, garage molto noto perché fornisce anche molte macchine per il servizio dei Ministeri».

La Polizia tradusse il proprietario presso il Commissariato di Trevi, per essere interrogato. L’uomo dichiarò come la macchina fosse rientrata in garage il giorno 12 «molto impolverata». A seguito dello sviluppo delle indagini, si appurò come «l’automobile rapitrice, dopo avere sfilato per tutti i Lungo Tevere sino a Ponte Milvio, fu segnalata al suo passaggio nel piazzale; poi se ne sono perdute le tracce.

L’ipotesi più probabile, però, è quella che la macchina abbia presa la via Cassia, invece di quella Flaminia, e che l’on. Matteotti possa essere stato condotto in quella zona di desolata campagna che si estende per via Cassia e porta Trionfale, ricca di boschi e grotte e quasi completamente deserta».

Alla Camera, i Deputati convennero che l’onorevole Matteotti fosse stato rapito per ragione di «natura politica».

«Si dice che gli autori del ratto abbiano voluto impossessarsi di documenti che l’on. Matteotti avrebbe portalo con sé e che egli avrebbe prodotto alla Camera durante la discussione sull’esercizio provvisorio».

Nel tardo pomeriggio del 13 giugno, l’onorevole Mussolini prese la parola:

«Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell’on. Matteotti scomparso nel pomeriggio di martedì improvvisamente in circostanze di tempo e di luogo non precisate e tali da legittimare l’ipotesi di un delitto, che, se compiuto, susciterebbe sdegno e commozione nel Governo e nel Parlamento.

Non appena gli organi della polizia furono informati della cosa, io stesso ho impartito gli ordini più tassativi per sollecitare le indagini a Roma e fuori, specialmente alla frontiera. La polizia e sulle tracce di elementi sospetti e non lascerà nulla di intentato perché i responsabili siano identificati ed assicurati alla giustizia».

L’onorevole Eugenio Chiesa, del Partito Repubblicano, chiese d’intervenire:

«In Roma, sede del Parlamento, a Camera aperta, un deputato dell’opposizione ha potuto essere aggredito e rapito ed al terzo giorno dalla rapina, mentre le sedute della Camera tranquillamente continuano, non sappiamo se esso ci sarà restituito.

Le parole del Presidente della Camera, garanzia dei diritti di noi tutti, o quelle del Presidente del Consiglio, custode della legge, non sono state quelle che noi attendevamo: hanno sapore di ordinaria amministrazione.

In nome dei colleghi del gruppo unitario e con la saputa solidarietà di tutti i deputati della minoranza, denunzio alla Camera ed al Paese il fatto atroce e senza precedenti».

Giuseppe Bottai (1895 – 1959)

La forte denuncia provocò l’immediata e vivacissima reazione dell’onorevole Bottai, che «con mossa fulminea, getta la poltrona in atto sdegnoso nell’emiciclo e corre ai piedi della scaletta del terzo settore dove siede l’on. Chiesa che gesticola vivacemente e grida, ma le sue parole si perdono nel frastuono generale.

Alfredo Rocco (1875 – 1935)

Grazie all’intervento dei questori, si evitò che i rappresentanti dei due gruppi venissero alle mani. L’onorevole Alfredo Rocco, presidente della Camera, iniziò a scampanellare, onde riportare ordine nel caos, e concedere nuovamente la parola all’onorevole Chiesa, perché terminasse il suo intervento:

«Nessuno ha mai potuto credere che io volessi chiamare complice l’on. Mussolini nel tristissimo fatto, che ci troviamo di fronte.

Avevo invitato a parlare l’on. Mussolini; egli è rimasto immobile».

Le parole conclusive furono considerate un ennesimo affronto al Capo del governo da parte della fazione fascista, che scatenò nuovamente la gazzarra.

Il Presidente Bottai invitò il deputato a ritirare ciò che aveva dichiarato.

L’onorevole Chiesa, dopo alcuni istanti, appena le voci si placarono, riprese:

«Ho detto che avrei voluto che il capo del Governo dicesse una di quelle parole incisive che egli sa dire quando vuole. Una parola, insomma, in cui si sentisse vibrare, un fremito di orrore contro l’infame responsabile, in maniera che la sentisse, commovendosi, il Paese. Tale parola sarebbe stata anche una prova della sincerità con cui l’on. Mussolini desidera la pace».

Nuovi tumulti nei banchi dell’emiciclo, a fatica sedati dall’onorevole Rocco, «che alle ore 19,50 toglie la seduta».

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