Un episodio veramente grave — ove si confermasse — lo smentirebbe: i documenti sequestrati al Filippelli a Genova non sarebbero stati trasmessi immediatamente e semplicemente alla magistratura. Attendendo una smentita probante di questo episodio, assai delicato, osserviamo ad ogni modo due cose: che l’autorità giudiziaria, per sua natura, non è organo d’esecuzione, è volontà e non braccio; e pertanto le sue disposizioni in tanto possono essere attuate in quanto le autorità del potere esecutivo sappiano e vogliano far tutto il loro dovere; e che la stessa autorità giudiziaria non può riacquistare d’un colpo l’autonomia e la forza sminuita da anni in un ambiente di coercizione illegale e violenta a di esautoramento proveniente dal di fuori e dall’alto: ambiente che sarebbe davvero ingenuo — e pericolosamente ingenuo,— credere si sia trasformato di un tratto.
E’ appunto a questo ambiente che dobbiamo la mostruosa facilità con cui si è compiuto — di pieno giorno, in Roma— il ratto d’un deputato particolarmente sorvegliato. La tardanza nella conoscenza di esso o peggio, nell’azione per provvedere, il non rinvenimento — ancora oggi del cadavere, il ritardo dannosissimo nell’arresto del Filippelli, la fuga di questo, la latitanza di Cesare Rossi, che avrebbe potuto essere assicurato con ogni facilità alla giustizia, ove si fosse voluto davvero.
Molti e molti giorni sono così passati: persone, documenti, tracce possono essere state fatte scomparire, tanto più che ben poco si è saputo di quei provvedimenti (perquisizioni, sequestri, ecc.), che sono i primi a doversi compiere quando si vuole realmente scoprire e punire un delitto come questo.
Quando il direttore generale della P. S. interrogava gentilmente a domicilio chi costituiva certo uno dei principali anelli della catena criminale, questo dice assai sugli occultamenti e i salvataggi che a quest’ora possono essersi verificati. Appunto il Rossi, prima di eclissarsi avrebbe potuto andare al suo ufficio, attiguo alla Presidenza del Consiglia, a fare lo spoglio dei suoi documenti, e nessuna perquisizione, nessun sequestro è stato finora compiuto noi suoi riguardi.
Noi procediamo, dunque, per la nostra via, a compiere sino in fondo il nostro dovere. Non ci curiamo, non ci voltiamo neppure a guardare, se gente insensibile al grido di sdegno e di orrore levatosi dalla coscienza dell’Italia, dell’Europa, del mondo — si legga il telegramma di Barzini (non sospetto testimonio) sulla impressione destata dal fatto negli Stati Uniti — se, diciamo, questa gente moralmente insensibile vorrebbe arrestare la nostra libera penna. Che costoro pensino alle loro responsabilità morali passate, e non facciano la voce grossa; abbiamo già formulato il monito e lo ripetiamo.
Aggiungiamo solo che se c’è chi si scandalizza perché noi abbiamo parlato di governo debole, lo invitiamo a ricordarsi di tutti i delitti impuniti che hanno preceduto questo odierno, e a considerare, che mai, in sessanta anni di governo liberale, — cioè debole per definizione, secondo certi demagoghi ed i loro piaggiatori — mai, diciamo, uno scandalo come questo, che offende il prestigio dell’Italia in cospetto del mondo civile, si era verificato. Senza contare che lo stesso Presidente del Consiglio, accettando la rimozione di De Bono e la sua stessa sostituzione come ministro dell’Interno, ha chiaramente confessato come l’azione governativa abbia rivelato gravissime mancanze. E per costoro non occorre dire altro.
Proseguiamo, invece, la nostra opera di coadiuvamento della giustizia. E’ da un pezzo che il giornalismo italiano (quello degno di questo nome) adempie, quando è necessario, ad un simile compito, e non è certo oggi che intende rinunziarvi. Un filo conduttore — uno dei fili conduttori più importanti — è certo da ritrovare nel fatto che gli esecutori del ratto e dell’assassinio del Matteotti sono degli «specializzati» in un certo genere di delitti: appaiono formare una vera o propria squadra per alte esecuzioni politiche (la «Ceka», si incomincia a chiamarla un po’ dappertutto). I loro nomi vengono fuori così per l’aggressione all’onorevole Misuri, come in quella all’onorevole Amendola, come in quella a Cesare Forni — vedere ora le ultime gravissime rivelazioni di questo — come per l’invasione di casa Nitti.
E’ una coerenza, un metodo, un legame nelle loro successive imprese, nonché nella completa impunità che le ha accompagnate, e nel contegno degli organi governativi di fronte ad esse, contegno che si potrebbe sintetizzare così: una parola di biasimo, cinque d’apologia, dieci d’eccitamento a seguitare. Si potrebbe perfino riscontrare una sapiente graduatoria di violenze, dalla semplice invasione di domicilio e distruzione d’oggetti per l’ex-presidente del Consiglio onorevole Nitti, alla bastonatura all’ex ministro del Re, onorevole Amendola (per il quale pure scomparvero l’agente investigativo ed i carabinieri a tempo opportuno), al quasi accoppamento degli onorevoli Misuri e Finzi, fino alla soppressione vera e propria, questa volta, dell’onorevole Matteotti deputato «sovversivo».
Certo una cosa è indubitata: questi successivi delitti, ciascuno dei quali, volta per volta, poteva essere apparso – anche a noi, anche ad avversari dell’attuale governo molto più acerbi di noi – come casuale, isolato, frutto d’iniziativa individuale, d’«illegalismo antieroico», prendono ora mai – visti nel loro insieme, nell’insieme dei loro esecutori, alla luce dell’ultimo delitto più orribile e dei maggiori indiziati in questo (e la luce si accrescerebbe, probabilmente, se si conoscessero esattamente e completamente tutte le imprese della banda – prendono, diciamo, tutt’altra figura.
Si tratta di una banda organizzata, che agiva per scopi politici, sotto una direzione politica. E’ questa direzione politica che si tratta di scoprire; ed ecco perché noi torniamo ad insistere che occorre innanzi tutto assicurare alla giustizia Cesare Rossi, il capo dell’Ufficio stampa presso la Presidenza del Consiglio.
Il commento de La Stampa sulla situazione politica. La situazione politica tendeva a complicarsi ed aggravarsi, quando si sparse la falsa voce che una delegazione, composta dai principali esponenti dell’Opposizione, aveva chiesto udienza il Re, perché costringesse alle dimissioni il Presidente del Consiglio.
L’onorevole Mussolini sarebbe forse rimasto al potere, «ma sarà un Mussolini ben diverso da quello del passato». In breve tempo, dovette subire la cessione del Ministero degl’Interni a Luigi Federzoni, togliere l’incarico di capo ufficio stampa a Cesare Rossi, uno degli uomini più fidati.
«L’onorevole Mussolini non è più e non può più essere esattamente il Mussolini del passato – poiché – i suoi stessi amici del Comitato di maggioranza gli chiedono una politica meno audace e sbrigliata, ed in secondo luogo perché l’onorevole Mussolini ha volontariamente rinunciato a quella politica oltranzista cedendo il portafoglio degli Interni all’onorevole Federzoni. L’affare Matteotti ha distrutto molte cose, compresa qualsivoglia intensificazione di una dittatura Mussolini.
Il nuovo regime ha ricevuto una fortissima scossa dagli inauditi avvenimenti di quest’ultimo periodo, e non sono da escludersi mutamenti in senso radicale. Si dovrà compiere nel frattempo — per volontà degli stessi fascisti non partecipi a piani di violenza omicida — una sana evoluzione di cui sarà forse esecutore lo stesso onorevole Mussolini. Tale ragionevole evoluzione è, per il fascismo, condizione di vita o di morte».
L’Opposizione. «La Direzione del Partito socialista unitario, radunata la prima volta dopo l’atroce delitto che l’ha privata del suo segretario politico, mentre colla più profonda commozione rievoca l’ingegno poderoso, la fede ardente, l’instancabile attività e il sublime eroismo del suo martire, grida all’Italia alla e al mondo, il suo indicibile strazio; richiama l’ideale di amore, di giustizia e di pace al quale attingeva il suo indomito ardore: e pure nell’infinita angoscia, bandisce dall’animo e dalla parola ogni sentimento di odio e di vendetta, ma vuole, reclama, esige giustizia, giustizia contro tutto e contro lutti, e si ripropone di compiere ogni doveroso sforzo per ottenerla; constata che la situazione, emergente dall’orribile misfatto, rivela ogni momento più chiaramente alla «nazione che la responsabilità di esso non si arresta né ai sicari né ai mandanti, ma investe in pieno tutto il Governo; e per la pacificazione vera, per il ritorno alla vita civile, per la rivendicazione del buon nome Italiano, per la garanzia che la giustizia sia fatta, proclama la necessità della fine di un regime che, nato e vissuto nella violenza impunitaria, non poteva sboccare se «non nel più abominevole dei delitti.
Di fronte infine alla enormità del misfatto ed alla sublime figura del martire, esorta i compagni, gli amici, tutti gli onesti che partecipano al nostro orrore, ad astenersi dalle consuete manifestazioni che sarebbero inadeguate e potrebbero fornire un pretesto ai tentativi di diversione degli avversari, rammentando a tutti che un solo modo esiste per onorare degnamente Giacomo Matteotti: preparare colle opere la redenzione del paese da una dittatura che lo opprimo e lo disonora».
Il Partito Popolare riunì la Direzione a Roma, sotto la guida del segretario, Alcide De Gasperi. L’assemblea dichiarò che la nomina a Ministero dell’Interno di Luigi Federzoni non sarebbe apparsa sufficiente, per garantire la futura azione di governo. Inoltre, respinse decisamente la proposta di dimissioni di tutti i gruppi parlamentari d’opposizione, poiché si sarebbe dovuta mantenere l’azione nel campo parlamentare. Infine, si chiese la nomina di una Commissione d’inchiesta sulla situazione politica creatasi dopo l’uccisione di Matteotti.
Il ruolo di Aldo Finzi secondo Il Popolo. «Nel pomeriggio di giovedì 12 giugno, mentre nei corridoi della Camera giornalisti e parlamentari commentavano, costernati, le prime notizie divulgate dalle edizioni straordinarie dei giornali, secondo le quali risultava provato che l’onorevole Matteotti era stato rapito da alcuni misteriosi individui con una non meno misteriosa automobile, l’onorevole Finzi, ansiosamente interrogato, se il Viminale fosse ancora in possesso di qualche particolare, ebbe a dichiarare che pensava si trattasse purtroppo di un delitto politico, ma che gli esecutori e mandanti di esso fossero persone sulle quali difficilmente la giustizia avrebbe potuto mettere le mani.
Aggiunse alcune parole le quali commossero i presenti, al punto che un deputato esclamò:
– Ma, dunque, ella sa che Matteotti è morto?
L’onorevole Finzi rispose in modo evasivo. Anzi, più tardi, interrogato ancora da altri deputati, cercò prima di smentire le parole dette, poi di attenuarne il senso, dichiarando di non aver asserito con certezza i dubbi espressi circa gli assassini, ma di aver semplicemente affacciato una sua ipotesi. L’onorevole Finzi è dunque tenuto ora a chiarire quale fu il suo vero atteggiamento nel pomeriggio di giovedì sera 12 giugno, nei corridoi della Camera, e precisare se sapeva e che cosa sapeva e a incarico di chi sapeva.
Il secondo punto di capitale importanza è l’origine delle dimissioni del sottosegretario.
L’onorevole Finzi afferma che le dimissioni gli furono imposte per un passo fatto presso l’onorevole Mussolini successivamente da alcuni ministri e dal Comitato maggioranza. Costoro si sarebbero fatti interpreti presso il Presidente del Consiglio della voce pubblica che accusava il Finzi quale mandante principale nel delitto, e ciò perché si riteneva che avesse interesse a sopprimere nell’onorevole Matteotti il detentore di documenti comprovanti loschi affari finanziari che lo stesso Finzi avrebbe fatto, approfittando della sua qualità di membro del Governo.
Ad avvalorare Io dichiarazioni che stavano per fare a Mussolini tanto i ministri quanto i membri della maggioranza, giunse a momento opportuno la divulgazione di un giornale meridiano, II Sereno, il quale affermava che lo stesso capo della polizia, cioè il generale De Bono, aveva a suo tempo segnalato la sospetta attività affaristica dell’onorevole Finzi, facendo anche un esatto e dettagliato rapporto segreto al Presidente del Consiglio.
Non si sa come l’onorevole Mussolini abbia accolto gli ambasciatori della pubblica opinione; si sa soltanto che, in seguito al loro passo, ebbe luogo a mezzogiorno di sabato il colloquio a Palazzo Chigi fra l’onorevole Mussolini e l’onorevole Finzi.
L’articolo de Il Popolo scrisse sulla lettera delle dimissioni del Finzi, che non sarebbe stata autografa, ma di diversa origine; infatti, appena il Sottosegretario seppe del contenuto protestò presso Mussolini, chiedendo un’immediata pubblica riabilitazione «del suo onore offeso per la connessione delle false dimissioni con l’assassinio Matteotti.
Si dice, anzi che nel frattempo l’onorevole Finzi abbia preparato e distribuito a chi di ragione un documento decisivo per dimostrare che egli non ebbe parte alcuna nel delitto e che questo venne architettato non negli uffici del Ministero degli Interni, ma in quelli della Presidenza. Infatti ora egli ha chiaramente specificato questa accusa col dire che l’Ufficio Stampa in cui il Dumini avrebbe avuto l’incarico di sopprimere il Matteotti si trovava non alle sue dipendenze, ma a quelle dirette dell’onorevole Acerbo».
In effetti, la Presidenza del Consiglio slegò le dimissioni da qualsivoglia coinvolgimento nell’affare – Matteotti. Ed in ciò Il Popolo commentò:
«Dobbiamo pur domandarci con quale diritto, e specialmente con quanta conoscenza di fatti, il presidente del Consiglio ha ritenuto di poter separare la responsabilità del Finzi da quella degli altri indiziati nell’assassinio del Matteotti, e lo abbia fatto mentre l’istruttoria giudiziaria era appena incominciata e gli indiziati come esecutori mandanti e complici erano ancora latitanti.
A questo punto, chi fu il mandante dell’assassinio dell’onorevole Matteotti, ricordando che il Dumini, appena arrestato e trovato in possesso di corpi che lo accusavano autore materiale del delitto, fece all’ufficiale della Milizia che lo custodiva la nota dichiarazione: «Mai ho agito di mia iniziativa». Avverti (e qui pronunziò un nome notissimo) che non posso sopportare una lunga detenzione, altrimenti parlo e farò il Sansone. Che i filistei stiano attenti!».
Secondo la Voce Repubblicana «è evidente che l’onorevole Finzi corre al contrattacco. Il giornale invita gli amici e gli avversari del fascismo a risalire dalle responsabilità di lui, alle responsabilità superiori alle sue o diverse dalle sue: così, per la tolleranza della banda Rossi-Dumini insediatasi al Viminale, così per quello che riguarda la regolamentazione del giuoco di azzardo.
Postosi su questo terreno, l’ex-sottosegretario agli Interni dovrà procedere in avanti. Già si parla infatti di sue imminenti gravissime rivelazioni. Se sono rose fioriranno. In sostanza, però, restano ancora inesplicabili le ragioni per le quali egli è stato allontanato dal potere, per l’assassinio Matteotti no, dice l’onorevole Mussolini; per il giuoco no, aggiunge l’onorevole Finzi. L’opinione pubblica è disorientata e non sa cosa pensare. Intuisce retroscena gravissimi e tutt’altro che onesti».
Sulla fuga di Cesare Rossi. Il Mondo si chiese, perché il mandato di cattura, spiccatogli contro, non fosse stato eseguito.
«Il commendator Rossi è indubbiamente una delle figure di maggior rilievo sullo sfondo in cui si muovono gli autori diretti; i mandanti ed i complici del barbaro assassinio, che ha riempito di orrore l’animo nostro e che ci umilia, come risulta dalla lettura dei giornali stranieri, di fronte all’estero. Questa posizione preminente, che faceva di lui un cooperatore ed un consigliere dei maggiori uomini responsabili, suscita naturalmente a proposito della annunciata sua fuga impressioni e commenti non certo favorevoli circa la strana inerzia, che viene interpretata come un favoreggiamento della pubblica sicurezza.
Come è che il commendator Rossi, pedinato, a quanto si pubblicò nei giorni scorsi, poté sfuggire alla sorveglianza della polizia?
Come poté abbandonare il suo domicilio piantonato dalla forza pubblica senza che nessuno se ne accorgesse?
Non si tratta di un uomo qualunque, dalla fisionomia ignota ai funzionari, cui fosse possibile allontanarsi senza lasciar traccia di sé. Ed allora, come si spiega questo allontanamento misterioso, annunciato del resto dallo stesso commendator Rossi in una lettera spedita ad un giornale romano?
E come si spiegano, soprattutto, le preoccupazioni della Stefani di smentire l’esistenza di un mandato di cattura che, a quanto scrivono alcuni giornali, emanato la sera di sabato, sarebbe stato ufficialmente smentito lunedì?
Domande ansiose della coscienza pubblica cui nessuno finora si è preoccupato di dare risposta.
Si è cercato il commendato Rossi a Milano, a Torino, a Genova, ma molti affermano che egli non si è affatto mosso da Roma e che non dovrebbe essere difficile porre le mani su di un uomo così noto».
«Ieri notte — affermò Il Popolo — il comando dei Reali Carabinieri fece eseguire una ispezione a Frascati, ma dato che tutto era stato predisposto per un accurato servizio di vigilanza da parte del commendator Rossi, questi riuscì a prendere il largo».
Il Mondo commentò che «nell’ultimo Consiglio dei Ministri l’onorevole Mussolini ha assicurato che la magistratura ricerca con ogni diligenza i complici diretti ed indiretti del nefando assassinio.
E’ complice indiretto chi, conoscendo — se non altro attraverso le aggressioni Misuri, Amendola, Forni — l’esistenza di una organizzazione criminosa presso l’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, ha consentito e tollerato che essa continuasse ad esistere per preparare nuovi reati.
E’ vero che il Dumini fu nominato commendatore della Corona d’Italia poco tempo fa, quando era già diffusa nella pubblica opinione l’indicazione precisa della sua attività criminale?
Il Rossi dipendeva dalla Presidenza del Consiglio. Fu colpito da mandato di cattura, e sembra accertato che il delitto Matteotti si è — come quelli precedenti che non ebbero esito letale — organizzato all’ombra dell’Ufficio dipendente dalla Presidenza del Consiglio. Le ricerche dei complici, che il Governo dichiara voler compiere, fino alle estreme conseguenze, sono seguite dalla opinione pubblica con la più vigile attenzione e questa non può dirsi appagata coll’arresto di mandanti secondari e di qualche esecutore materiale. La giustizia è in cammino e deve accertare quali sono i complici diretti ed indiretti dell’assassinio di Giacomo Matteotti».
Sul generale De Bono. Il Mondo, accertata la giustezza delle dimissioni di De Bono da capo della Polizia, contestò la permanenza quale comandante della Milizia, ricordando come fosse stato accusato da alcuni quotidiani «di avere disorganizzato la P. S., di avere ricevuto come amico l’avvocato Filippelli dopo che non solo la voce pubblica, ma gli indizi stessi lo accusavano.
Sta di fatto che mentre egli reggeva la direzione generale della P. S., tutti gli autori dei delitti simili a quello che ha barbaramente stroncata la vita del povero Matteotti son! rimasti impuniti. Non solo, ma sino a che l’eccidio atroce non ha sollevato la pubblica indignazione, Dumini e soci hanno potuto liberamente circolare nei Ministero degli Interni sotto gli occhi di un direttore generale della P. S. che conosceva la loro attività criminosa. Diciamo conosceva, perché, secondo quanto è stato pubblicato nell’istruttoria sull’aggressione dell’onorevole Cesare Forni, essa si era chiusa indicando gli autori ed i mandanti. Tra questi il Dumini, che continuò sotto gli occhi del Direttore generale della P. S. le sue gesta e partì in automobile del Ministero degli Interni per compiere l’assassinio di Giacomo Matteotti».
Mentre De Bono era capo della polizia, «il Volpi, il Poveromo, il Viola, il Filippelli, ed il Cesare Rossi sono fuggiti.
La fuga del Filippelli avvenne in circostanze tali da produrre come immediata conseguenza l’esonero del questore e del direttore generale della P. S. Entrano forse in questo i precedenti rapporti di amicizia tra il Filippelli ed il De Bono ed i colloqui avvenuti tra loro mentre pesavano sul Filippelli indizi e sospetti?».
La cronaca della giornata. La Tribuna tentò di ricostruire l’agguato, in cui fu coinvolto Matteotti, il quale «fu catturato in pieno giorno. La scena della cattura fu violentissima.
L’onorevole Matteotti presentò una resistenza che dovette sembrar inaspettata ai suoi aggressori, che lo stordirono a pugni sulla nuca ed al ventre. Il deputato socialista barcollò dapprima. Fu quindi nuovamente colpito e cacciato a viva forza nell’automobile. Qui si riebbe per un momento e tentò nuovamente di divincolarsi dai suoi assalitori.
Sembra assodato che nella colluttazione che ne seguì ruppe un vetro della vettura. Da quel momento le tenebre ripiombano sul misfatto e non c’è che da riportarsi in un primo momento alle condizioni in cui fu trovata la vettura.
Prima, però, di riferire questi particolari e bene esaminare la parte che riguarda la soppressione dell’onorevole Matteotti che, secondo alcuni, nessuno aveva intenzione di uccidere; mentre secondo una certa valutazione degli elementi sarebbe stato assassinato perché questa era la precisa missione dei sicari.
Sorge quindi spontanea la domanda: l’onorevole Matteotti fu assassinato in automobile?
Un primo esame degli oggetti rinvenuti nella famosa valigetta sequestrata al Dumini portava a credere che l’onorevole Matteotti fu assassinato in automobile, ma vi è qualche elemento che non confermerebbe questa supposizione. Può darsi che l’onorevole Matteotti, che gridava e continuava a divincolarsi, abbia potuto essere ferito a colpi di pugnale durante il tragitto e quindi finito in aperta campagna. Certo è che dall’esame della vettura c’erano pezzi di tappezzeria rinvenuti nella valigetta del Dumini risulterebbe chiaro questo che se l’onorevole Matteotti non fu ucciso in automobile, fu certo in automobile gravemente ferito.
Precisando quindi taluni dati, si può stabilire che il delitto sarebbe stato consumato nell’automobile anche per le tracce di ciocche di capelli rinvenute nella vettura, oltre agli altri dati surriferiti. Inoltre, la presenza di lucchetti e di altri oggetti lasciano la piena convinzione che l’onorevole Matteotti dovesse essere legato nella prima intenzione degli assassini. Si arguisce che il deputato socialista non avrebbe dovuto essere immediatamente soppresso.
Un fatto nuovo verificatosi nell’automobile, e che lascia pensare al rinvenimento di documenti, portò senz’altro alla efferata esecuzione. In seguito, il corpo venne fatto scomparire..
L’Ufficio di Polizia scientifica, allo scopo di meglio precisare le singole responsabilità, ha ormai ultimato l’esame delle impronte digitali rinvenute sui vetri, sugli sportelli e su alcune parti metalliche del l’automobile.
Ma — continua la Tribuna — c’è un elemento che può mutare tutta la fisionomia che finora ha assunto il delitto.
Nella valigia del Dumini sono stati rinvenuti, come si assicura, dei lucchetti nuovissimi, acquistati per la tristissima bisogna e sembra, una ben solida catena. I lucchetti avrebbero dovuto servire dopo aver legato solidamente la vittima a fermarlo in modo tale da impedirgli la fuga. L’onorevole Matteotti, adunque, nelle intenzioni degli aggressori, avrebbe dovuto essere tenuto sequestrato per lungo tempo. E per quali ragioni?
Per lasciarlo morire lentamente in qualche luogo ben celato? Oppure per costringerlo a fare delle rivelazioni sui pretesi documenti di cui egli sarebbe stato in possesso.
Si afferma che su questo punto gli aggressori sarebbero irremovibili a non fornire spiegazioni. Certo, queste nuove luci che si vengono facendo intorno al delitto ne aumentano ancor più l’impressione che esso suscita. Tutto lascia supporre che l’onorevole Matteotti o abbia recisamente negato di essere in possesso di documenti (cosa questa che, aggiunta alla sua disperata difesa, ha dovuto esasperare gli aggressori spingendoli a sopprimerlo), o che indosso all’onorevole Matteotti medesimo siano stati rinvenuti documenti di natura tale da consigliare senz’altro i malfattori a sopprimerlo. E la soppressione sarebbe avvenuta in automobile. Lo attesterebbero le macchie di sangue sul pavimento dell’automobile, e la scomparsa del dorsale, che evidentemente doveva essere insanguinato e dal poggiapiedi. La tessera del deputato sbalzata via dallo sportello della vettura, e rinvenuta in località presso i Polverini, sarebbe appunto a mettere in luce che gli aggressori fugarono disperatamente addosso all’onorevole Matteotti. Il rinvenimento dei documenti avrebbe imposto la soppressione facendo ritenere pericoloso più che inutile il sequestro.
Ma dalle prime risultanze sugli indumenti trovati nella valigetta del Dumini ancora nuovi elementi emergono sugli assassini dell’onorevole Matteotti. Si è innanzi tutto notato chenell’elencare gli oggetti rinvenuti nella valigetta del Dumini taluni giornali sono caduti in esattezze non lievi. Fino a ieri non si è riusciti a risolvere se i pantaloni insanguinati rinvenuti nella valigetta appartengano al Dumini. Sono un paio di pantaloni grigi. Va notato che l’onorevole Matteotti vestiva di grigio di consueto.
Alla Camera fu veduto la mattina del delitto vestito di grigio. Tutto lascia quindi supporre che sarà chiarito anche questo punto nel senso che essi appartenessero effettivamente alla vittima. Il pigiama, che si è trovato insieme agli altri effetti di vestiario, è ormai assodato appartenente al Dumini. Presenta tracce di una recente lavatura. Ma non è considerato come elemento che possa essere attinente al delitto. Nel fuggire il Dumini avrebbe messo tra i suoi indumenti anche il pigiama che abitualmente doveva portare in casa. E’ stato affermato che si è rinvenuto nella valigia del Dumini un coltello insanguinato.
Il coltello è stato effettivamente rinvenuto, ma non insanguinato, né presentava delle tracce di una lavatura, tanto più che in alcuni punti era leggermente arrugginito. E’ assodato che l’automobile che servì a consumare il delitto manca di alcuni pezzi di tappezzeria del poggiapiedi e della spalliera. Alcuni pezzi della tappezzeria sono stati rinvenuti insanguinati nella valigetta del Dumini. Tra gli oggetti repertati è stata rinvenuta, come è noto, anche una rivoltella ed alcune carte da visita intestate al Dumini e recanti la scritta «Ufficio stampa – Ministero degli interni».
I magistrati si trovano dinnanzi ad un delitto senza precedenti, più che altro per la spaventosa mentalità degli esecutori. Sembra che il Dumini, abituato a compiere delitti per livido e bestiale spirito di parte, volesse portare a qualcuno, non si sa a chi, anche dopo che la stampa e la opinione pubblica cominciavano a muoversi, i trofei del suo orrendo misfatto. La certezza dell’impunità, lentamente acquisita attraverso tutta una serie di piccoli e grossi delitti, ebbe a prevalere a tal punto sullo spirito degli assassini da far loro trovare la forza di pensare a conservare come cimeli del loro gesto orribile i segni dell’efferato assassinio
Una domanda sorge spontanea a questo punto. Perché il Dumini non si sbarazzò senz’altro: dei pantaloni insanguinati; dei pezzi di stoffa insanguinati; del coltello, dei lucchetti e di tutto quanto fu trovato di stretta attinenza col delitto nella sua valigia?».
Mercoledì 18 giugno, fu interrogato in carcere l’avvocato Filippelli. Il Sereno riportò come il prigione apparisse disfatto e livido. A causa d’un improvviso malore, l’interrogatorio dovette essere interrotto e rinviato all’indomani. Nel breve scambio, il Filippelli chiese un confronto col Dumini, dal quale seppe dell’uccisione di Matteotti. Ammise di aver fornito agli assassini l’automobile.
Essendo affidata alla Milizia nazionale la custodia esterna del carcere, la Voce Repubblicana annotò come fosse imbarazzante tale disposizione, essendo il delitto maturato presso un Ministero fascista.
Un altro mistero si aggiunse: la morte improvvisa del ventitreenne Ferdinando Stramesi, fascista dissidente, il quale in Molino dei Torti, in provincia di Alessandria, aveva fortemente deplorato l’uccisione di Matteotti durante una discussione. Qualche ora dopo la lite, fu colpito a morte alla gola da un colpo di pistola. Ignoto l’esecutore.