Lunedì 23 giugno 1924, il quotidiano La Stampa pubblicò la notizia della resa dell’ex quadrumviro Cesare Rossi, il quale si costituì presso Regina Coeli.
La cronaca giudiziaria. «Alle 14,45 una automobile scura, coperta, traversata la via della Lungara, si fermava all’ingresso principale delle carceri giudiziarie di Regina Coeli. Entro l’automobile era una signora sulla quarantina, vestita di scuro, un giovane di poco più di venti anni ed un signore sui 35 anni, pallido, completamente sbarbato. Quest’ultimo, che vestiva in bleu, con una certa ricercatezza, col distintivo del Fascio all’occhiello, scese dalla vettura, s’avvicinò al guardiano e gli dichiarò recisamente, non senza una certa emozione:
— Sono Cesare Rossi. Vengo a costituirmi. Questi sono miei parenti».
Avvertita la Questura centrale dall’amministrazione penitenziaria, poco dopo il vice – questore procedeva all’identificazione del consegnato, per notificargli il mandato di cattura.
A questo punto il Rossi, che aveva seguito con aspetto tranquillo lo svolgersi di queste brevi formalità, ha avuto un accasciamento. Egli ha però cercato di dominarsi ed ha detto con voce abbastanza ferina:
— Debbo fare una dichiarazione. Ho visto che molti si sono occupati, della temporanea latitanza. Ora però alcuni giornali hanno specificato esattamente le ragioni che, in un primo tempo, mi indussero ad allontanarmi. Innanzi tutto, è facile comprendere come gli avvenimenti che si sono svolti ed il clamore che ne è seguito non potevano non turbarmi profondamente. Inoltre ero fisicamente sofferente e non mi sentivo di sottopormi alle fatiche degli interrogatori ed alle emozioni dei confronti. Mi ripromettevo però, secondo quanto ebbi a dichiarare, di costituirmi alla giustizia, tanto più che avevo ed ho la coscienza perfettamente tranquilla. Me ne sarei nondimeno astenuto ancora, per qualche tempo, prolungando la mia latitanza, ma ormai intorno alla mia persona era stesa una rete fittissima, ed io sarei caduto immancabilmente nelle mani della polizia, la qual cosa mi ripugnava.
Ma mi sono anche preoccupato di non nuocere ai pochissimi amici che mi sono rimasti fedeli. Dico pochissimi, perché quasi tutti, ed erano legioni, mi hanno abbandonato».
Controllati i documenti agli accompagnatori del Rossi, essi sono stati completamente scagionati da ogni responsabilità dal consegnato, che aggiunse:
— Ripeto quanto ebbi già a scrivere che io sono perfettamente tranquillo, e che confido pienamente nell’opera dell’autorità inquirente».
Espletate le formalità per la residenza penitenziaria, si dette comunicazione al Ministro dell’Interni, Luigi Federzoni ed alla Sezione d’accusa, che lo sottopose ad interrogatorio.
Le autorità avviarono immediate indagini, al fine di scoprire gli eventuali collaboratori nella latitanza dell’uomo politico.
«Si apprende infatti, che nel pomeriggio alcuni agenti di P. S. hanno fermato nei pressi di Ponte Milvio l’automobile del professore Carlo Razzi, direttore del “Nuovo Paese”.
E’ noto che il Razzi è legato da grande amicizia con Cesare Rossi ed ha pubblicato, durante la latitanza di questi, una lettera del Rossi, trasmessa, senza che si riuscisse ad accertarne la provenienza. Inoltre il “Nuovo Paese” pubblicava ieri articoli di carattere allarmistico, che si ritengono ispirati da Cesare Rossi.
Nell’automobile del Razzi si trovavano il suo legale avvocato Garofalo ed un amico del Razzi stesso, signor Panneggiarli. Entrambi sono stati, unitamente al chauffeur, tradotti in Questura, mentre l’automobile veniva trattenuta ed affidata ai carabinieri della prossima stazione.
La Stampa si occupò anche del principale indiziato del delitto, Amerigo Dumini e sulla presunta precedente attività di contrabbandiere d’armi in Belgrado.
«Egli si era fatto conoscere dalla minuscola colonia italiana; la sua attività qui svolta fu veramente notevole e qualche volta poteva avere serie conseguenze per la sua stessa vita e per coloro che erano costretti ad avvicinarlo. Si ebbe l’impressione, nel periodo della sua permanenza, che il Dumini fosse davvero un fanatico. Chiamarlo esaltato, oggi significherebbe forse un poco esagerare. Certo egli con la sua violenza e con il desiderio di voler imporre a qualunque costo la sua opinione, qualche volta recava più danno, che bene all’Italia e al fascismo.
Il Dumini si vantava di innumerevoli sue azioni punitive compiute in vari punti d’Italia e all’estero, e questi suoi ricordi, che spesso narrava con lusso di particolari, lo infervoravano.
In Jugoslavia, specie a Belgrado, in quei giorni per tante questioni internazionali e per la sorte della città di Fiume, non spirava buon vento per gli italiani. Ma il falso Dino Bianchi (Amerigo Dumini) era vivacissimo e a chi affermava come l’esercito serbo potesse compiere una marcia militare contro l’Italia, egli rispondeva con frasi che ogni volta provocavano gravi incidenti che il Dumini affrontava con coraggio e una audacia che erano quasi sempre eccessivi.
Era riuscito anche, a furia di numerosi inviti a pranzo e copiose offerte di champagne, a compiere una singolare opera di fascistizzazione anche di elementi puramente jugoslavi. Nei vari locali da lui frequentati, non vi era un’orchestra che non conoscesse le note di “Giovinezza” o della “Canzone degli arditi”.
Quando mancavano nei jugoslavi la buona fede o la spontaneità, suppliva una buona mancia.
Qualche volta nascevano anche incidenti. Una donna fu da lui violentemente percossa in un pubblico locale perché non riusciva a pronunciare con chiarezza, più per fonetica anziché per buona volontà: Viva il fascismo. Fu allora che il Dumini veramente stupì. Addossato al muro, cominciò a rivolgere contro coloro che aveva preso le difese della donna le più atroci ingiurie in italiano e in toscano. Con una sedia, il Dumini si difendeva dai più audaci che l’attaccavano da vicino e non voleva placarsi e ce ne volle prima che i pochissimi Italiani presenti, quattro o cinque al massimo, riuscissero a trascinarlo fuori dal locale.
Dumini nella sua permanenza spendeva largamente e era alloggiato in uno degli alberghi di maggior lusso e conduceva la sua vita con molto comfort. A chi lo interrogava sulla sua presenza in Jugoslavia, rispondeva essere egli incaricato di trattare la compera di traversine ferroviarie per conto del Governo italiano. Nel suo linguaggio era abituato a parlare di milioni, di viaggi lunghi, di automobili e di gioielli».
Le reazioni del mondo politico. «Si osserva che non appare verosimile la singolare fortuna del Rossi, il quale, dopo essere stato per sette giorni nascosto in località vicina a Roma, raggiunga indisturbato la soglia di Regina Coeli, dove arriva, non solo liberato dai piccoli baffi all’americana, ma sgombro di qualsiasi documento compromettente.
Alcuni deputati rilevavano, inoltre, che il Rossi ha avuto in questi giorni la possibilità di leggere i giornali e tenersi in contatto, magari con interposta persona, con chi ha voluto. La cosa non sembrerà strana a nessuno, quando si pensi che il Rossi è riuscito perfino a fare giungere una sua lettera ad un giornale. Conseguentemente, non può essere ritenuta azzardata l’ipotesi, affacciata da un parlamentare, che il Rossi abbia concordato con personalità fasciste la sua linea di difesa.
Pure si notava a Montecitorio che indosso al Rossi non sarebbero state trovate, a quanto sembra, le chiavi di quella famosa cassaforte dell’ufficio stampa che egli ha avuto cura di lasciare ermeticamente chiusa».
Commenti della stampa estera. Il Manchester Guardian commentò:
«Gli oppositori del fascismo sono stati oggetto di violenze da quando il fascismo salì al potere e la politica apertamente confessata ed esaltata dall’onorevole Mussolini era che le critiche, per quanto garbatamente espresse, devono essere represse. Il mondo, a suo avviso, è stanco della libertà ed anelante a gettarsi nelle braccia degli uomini forti. Il concetto dell’internazionalismo borghese di Wilson è un mito, così pure il militarismo di Clemenceau e specialmente il bolscevismo di Lenin. Ciò che occorre è un robusto “plenario patriota”, che non permetta né al capitale né al lavoro di far sciocchezze ma promuova invece delle cose che i cittadini comunemente desiderano.
Sotto questa visione Mussolini si presentò ad una Italia impaurita dal-, l’estremismo socialista e disgustata dalle debolezze dei costituzionali.