Delitto Matteotti: il discorso commemorativo di Filippo Turati nei commenti della stampa dell’epoca

Sabato 28 giugno 1924, il quotidiano La Stampa presentò nell’articolo di fondo un’ampia analisi della situazione politica a cura di Cesare Sombrero.

Egli criticò il comportamento della Maggioranza parlamentare, rea di non aver stigmatizzato con vibrante sdegno l’eccidio del deputato Giacomo Matteotti ad opera di personaggi contigui alle alte sfere governative. L’attento analista politico rimproverò al Governo un’eccessiva manifestazione di buoni propositi per il futuro affatto surrogati da una vera politica di controllo democratico. E lamentò la totale assenza nel passato dei necessari atti repressivi nei confronti di chi superava il confine della legalità, soprattutto se vicino all’attuale Maggioranza governativa. La volontà, manifestata dal Presidente del Consiglio, di voler «restaurare l’impero della legge» significava che ciò mancò del tutto nell’azione di governo.

Secondo Sombrero, il Senato certificò la «condanna del passato», manifestando anche una fondata certezza sulle decisioni future dell’Esecutivo. Quindi il finale invito alle parti parlamentari, perché procedessero nel proprio ambito, e nell’ambito della legalità. Il Governo avrebbe dovuto procedere spedito nel punire i responsabili, avviare la necessaria opera purificatrice della classe politica, restaurare integralmente il prestigio dello Stato, ed, in ultima analisi, superare l’asfittica visione dell’integrazione tra Partito e Stato.

Sombrero dichiarò tutta la sua urgente preoccupazione per il ristabilimento, «in diritto e in fatto, di tutte le libertà statuarie, di pensiero, di stampa, di riunione, di associazione, di azione sindacale; delle libertà costituenti il patrimonio intangibile dei popoli che sono alla testa della civiltà, e fra i quali intende mantenersi progredire, come ne è degno, il popolo italiano».

La cronaca politica. Il Nuovo Paese pubblicò la lettera, con cui Aldo Finzi si dimetteva da Presidente del Comitato Olimpionico Nazionale, cui era stato chiamato «oltre che per le mie benemerenze sportive, anche per il prestigio e l’assistenza che la mia posizione politica poteva conferire al Comitato. Mutatosi, per ora, questo insieme di ragioni, per le quali avevo accolto la carica offertami, prego i colleghi tutti di voler comprendere anche tutte le altre cause per le quali ho necessità di avere assoluta libertà di azione in ogni campo.

Ringrazio tutti per la leale, calorosa collaborazione prestatami durante il periodo della mia presidenza, e formulo l’augurio che le più belle vittorie dei nostri atleti alle Olimpiadi siano il più efficace riconoscimento dell’assiduità e del fervore dell’azione dell’C. O. N. I., a cui so di aver dato con passione quanto ho potuto, compatibilmente con tutte le altre mie cariche di responsabilità».

Ieri, alle ore 16, si tenne la manifestazione organizzata dai Gruppi parlamentari d’Opposizione alla Camera in ricordo del martirio di Giacomo Matteotti.

All’appello fu fatto il nome del deputato assassinato, e l’assemblea rispose: «Presente!».

Costantino Lazzari (1857 – 1927)

«Un fremito corre nell’assemblea che, unanime, scatta in piedi ed applaude per parecchi minuti. L’onorevole Turati che è molto commosso annuisce col capo come per dire: si, è presente. Molti hanno le lacrime agl’occhi e nessuno riesce a dominare una profonda commozione. Vediamo in un angolo della sala Costantino Lazzari portare le mani agl’occhi per tergere le lacrime che gli scendono dalla guancia. Ha il viso pallidissimo dalla commozione».

Filippo Turati, chiamato a presiedere la foltissima assemblea, legge dei telegrammi di solidarietà e commossa partecipazione, pervenuti dall’Italia e da alcune nazioni europee. Anche il gruppo parlamentare del Partito Comunista Italiano attraverso una lettera rimarcò la sua partecipazione, esprimendo «la propria solidarietà nella celebrazione del martire, sicuri d’interpretare una corrente dell’opinione pubblica italiana ed internazionale che già si è pronunziata sull’assassinio».

Anche i Socialisti austriaci espressero in una missiva «l’angoscia del loro animo ed assicurano all’idea del compianto la fraterna indefettibile solidarietà internazionale».

Il Partito Laburista Inglese comunicò che l’indomani avrebbe commemorato solennemente a Londra l’onorevole Matteotti.

Filippo Turati prese la parola:

«Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto, specialmente qui dentro, di commemorazione. Noi non commemoriamo. Noi siamo qui convenuti ad un rito religioso, che è il rito stesso della patria.

Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare perché il suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, non è morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli è un accusatore, egli è un giudicatore, egli è un vindice!

Non il nostro vindice, colleghi! Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra natia, il vindice della nazione, che fu depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi, che egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi, più che mai, abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere e anche, soprattutto, il dovere di morire quando l’ora lo comanda! Morire per rivivere; morire perché tutto un popolo morto viva; morire perché il sangue purifichi le zolle sacre della Patria.

E’ questo vivo, che siede alla mia destra, ritto nella sua figura, giovane, ardente, di cui vedete il sorriso — perché non è una allucinazione, perché lo vedete, perché non v’inganno, questo vivo, questo superstite ormai immortale, invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e dai nemici d’Italia, con l’odierno rito è sfigurato: è uno ed è universale; è un individuo ed è una gente!

Invano gli avranno tagliuzzate le membra; invano, come si narra, lo avranno assoggettato allo scempio più atroce; invano il suo viso dolce e severo sarà stato sfigurato: le sue membra si sono ricomposte, il miracolo di Galilea si è rinnovato!

A che le vane ricerche, o farisei di ogni stirpe! A che gl’idrovolanti sul lago! A che il perlustrare la macchia, il frugare nei forni?

L’avello ci ha reso la salma, il morto si leva e parla e ridice le parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti; che sono sue, quando anche non le avesse pronunziate; che son vere, se anche non fossero realtà, perché sono l’anima sua; parole che s’incideranno nel bronzo, sulla targa che mureremo qui, o sul monumento che erigeremo sulla piazza, a monito del futuro.

Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai. La mia idea non muore. I miei bambini si glorieranno del loro padre. I lavoratori benediranno il mio cadavere. Viva il Socialismo!

E’ qui trasfigurato, o colleghi; e di ciò il mio egoismo si duole; il mio piccolo egoismo d’individuo, di fratello maggiore, di anziano, di pare, che egli non è più soltanto il mio fratello prediletto, è l’uomo di parte, l’assertore nobile ed alto di un’idea nobilissima, quegli che fu per noi socialisti tutto in una volta: il filosofo, il finanziere, l’oratore, l’organizzatore, il commesso viaggiatore, l’animatore di tutti; il pensiero insomma e l’azione congiunte; anche l’azione più umile che altri sdegnava; l’unico, l’irraggiungibile; colui che, come già Leonida Bissolati per il Cremonese, travolto dalla sublime follia dell’amore dei suoi contadini, del suo proletariato polesano, per esso aveva rinunziato indifferente agli agi ed alla tranquillità della vita, alla seduzione degli studi cari, in cui più eccelleva e di sé e della sua giovinezza poteva dire col poeta della Versilia:

E tutto ciò che facile attor prometton gli anni

io ‘l diedi per un impeto lagrimoso di affanni

ver un amplesso aereo, in faccia all’avvenir.

E per questa sua passione divorante, gelosa, era esule in patria; il bandito dalla sua terra, il maledetto dai parassiti della sua terra; il profugo eterno, sempre presente soltanto dove l’ora del periglio suona la diana.

Quest’uomo, questa figura così superba è viva sullo sfondo verde e bigio di questo singolare paesaggio politico. Non sparisce, no, non scolora; ma si riaffaccia oggi in troppo più alta cornice. Quello che è ora cosa nostra è divenuta anche cosa vostra: l’uomo di tutti, l’uomo della storia. E’ ingrandito così, che quasi è tolto a noi come alla famiglia dolorante, perché è divenuto il simbolo; il simbolo di un oltraggio che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati, percossi per lo stesso fine, da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri oscuri; il simbolo di una stirpe che si riscuote; il simbolo di un passato che si redime, di un presente che si ridesta, di un avvenire che si annunzia, dell’immortale democrazia, della indefettibile giustizia sociale, che si rimettono incammino; dell’Italia che, dopo una parentesi di spaventoso medioevo, risale nella luce dell’età moderna, rientra tra le genti civili! II Simbolo e la Nemesi, la Nemesi augusta, o signori, che è della Storia!

Cerchi il magistrato le colpe e le ferocie secondarie e minori; incalzi gli esecutori codardi ed i mandanti immediati — compito anche questo altamente rispettabile e necessario — frughi e tenti di sventare la congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comperati o ricattati, le mendicate omertà ed il tagliaborse che si annida nell’assassino; tutto questo è cronaca.

La Nemesi vola più alta. Essa addita il grande mandato, il mandato che irrompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate alla frode, di consensi cercati ed irrisi; dal sarcasmo di una pacificazione proclamata a parole ed impedita e violentata dai fatti; dall’incitamento perenne alla soppressione del pensiero libero e di chiunque lo incarni, la quale è soppressione dalla patria e della civiltà.

Addita il mandato che scese dall’istrionismo bifronte che adesca insieme e minaccia, che offre il ramo d’olivo ed affila nell’ombra il pugnale.

Addita il mandato che salì dalle viltà incommensurabili, dalle fughe abbiette, dagli obliqui fiancheggiamenti, dai silenzi complici, dalla corruzione demagogica esercitata su anime semplici, talvolta generose ed eroiche, persino di combattenti insigni ed oscuri, i quali, in buona fede, hanno creduto che un regime di minaccia e di prepotenze potesse essere ricostruttore, che dalla più immonda curie potesse germogliare la rigenerazione del paese che errori e colpe fugaci di una massa illusa — o non cerchiamo illusa da chi, e non domandiamoci se veramente esistono le colpe di un popolo — dovessero espiarsi, non col richiamo severo alla ragione, ma con la catena dei delitti, con la tregenda delle sopraffazioni esercitate su quel popolo, col dileggio di ogni umana dignità, con la tragedia del terrore accoppiata alla coreografia di vetusti trionfi mai redivivi. Lo credettero in buona fede. Alcuni, sempre più radi, lo credono ancora. Ma per poco, ormai.

L’oscena tregenda è sufficiente. Giacomo Matteotti l’ha dispersa per sempre. L’edificio dell’iniquità, dell’ipocrisia, crolla da ogni parte.

Ah si! I masnadieri avevano ben scelto, avevano mirato giusto, sopprimendo il nostro migliore; mirando al suo cuore sapevano di mirare al nostro cuore; ma ignoravano la sanzione inesorabile che fu sempre nelle vicende del mondo; ignoravano — fu confessato — che il delitto era soprattutto un errore; che la vittima sarebbe stata lì giustiziere; che la coscienza di un popolo, che ha millenni di storia e di gloria, si assopisce, si comprime, ma non si spegne; che i morti non pesano soltanto, ma sopravvivono.

Giacomo Matteotti vince morendo e ci accompagna e ci guida. Se commemorazione è questa, se questa è lugubre rito, non è epicedio sul suo tumulo ignorato, non è la riconsacrazione di una salma che non può riapparire, che più è esente quanto più è assente e celata. Altro è oggi il funerale; altri sono i morti.

L’edificio delle iniquità e dell’ipocrisia crolla da ogni parte. Neppure la speculazione ultima e più scaltra ed audace, quella sulla nostra «speculazione», ha alito ed ali per reggersi. Lo sguardo vitreo della vittima illumina un panorama infame, che i più non sospettavano ancora. Ove la sua ombra si leva, ivi si stende attorno la solennità del deserto.

Noi parliamo da quest’aula parlamentare mentre non vi è più un Parlamento. I soli eletti stanno sull’Aventino delle nostre coscienze; donde nessun adescamento li rimuoverà sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge sia restituito, e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta.

Le futili contese tacciono tra essi, ed una grande unità si costituisce tra essi tutti e tra essi e l’anima della nazione. Quella che fu la maggioranza è ridotta ad un reparto della milizia cui è intimato di obbedire in silenzio, poiché ogni parola la disgregherebbe. I due tronconi non si saldano ed i politici già si domandano se vi sia più governo, se vi possa essere più un governo; se vi è per l’Italia, se vi è per il resto del mondo. Ma un paese moderno non vive senza di queste cose che vennero meno: un Parlamento rispettato libero, un Governo legale non sospettato.

Signori! Dall’eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d’Italia ricomincia.

A noi solo un compito: esserne degni.

Eppure, neppure questo ci consola. Perché se un eccidio ed il più brutale degli eccidi era necessario, una cosa non era necessaria: che colpisse Lui. E se panni — come ho detto — che egli fosse il più designato, perché era il più forte, il più degno, dice l’effetto che non sempre profetessa la malizia dei masnadieri.

Lui giovane, lui forte, lui armato di tutte le armi civili, lui temerario nel coraggio, lui che si fece volontario della morte; questo fanciullo dagli ocelli pieni dì bontà, che tutti rimbrottava ed a tutti indulgeva, perché tutto sapeva comprendere e sapeva l’inanità delle prediche contro l’umana fralezza; lui, figlio di una madre antica che geme; lui, sposo di una sposa giovane che paventa di smarrire il senno; lui, padre di tre teneri virgulti inconsci, che un giorno metteranno le spine, verso i quali egli aveva la tenerezza di madre, come nell’intimità della casa felice pareva un figlio alla sposa.

No, inferocire su questo idillio non era necessario! Altrove poteva la sorte cieca e maligna allacciare il suo strumento di pace e di giustizia; e questa vecchia carcassa di chi oggi vi parla che la vita ho tutta ormai spesa e che il proprio inverno avrebbe dato con gioia per il salvamento della primavera superba del nostro eroe è oggi dilaniata dal rammarico, direi dal rimorso, di non averlo vigilato abbastanza, di non essersi imposto col peso dell’anzianità — a cui forse egli avrebbe obbedito — alle sue gagliarde imprudenze.

Permettetemi, o colleghi, che io cessi queste parole così impari e che il singhiozzo minaccia di rompere; che io dimentichi dove siamo e donde parliamo, e che io m’inginocchi idealmente accanto alla salma del figliuolo prediletto, gli accarezzi la fronte, gli chieda perdono della mia, della nostra indegnità, gli dica tutta la gratitudine nostra, la gratitudine di tutto un popolo, e gli giuri in nome di voi tutti che la Sua ombra sarà presto placata!».

«L’onorevole Turati chiude la sua alta rievocazione di Giacomo Matteotti pervaso da una profonda commozione, che guadagna tutti i presenti. Talvolta l’oratore ha dovuto interrompersi perché i singhiozzi gli facevano tremare la voce e per l’intensa vibrazione dell’uditorio. Si è avuta una pausa di silenzio e di raccoglimento. Tutti i volti sono pallidissimi e molti occhi sono bagnati dal pianto».

Umberto Tupini (1889 – 1973)

«Si leva quindi l’onorevole Umberto Tupini, designato dalle Opposizioni per leggere il testo della dichiarazione concordata. Anch’egli ha la voce grave e commossa».

«L’assemblea delle Opposizioni, riunita a Montecitorio il 27 giugno 1924, invia il suo commosso saluto alla memoria di Giacomo Matteotti, barbaramente trucidato, e che, oltre alle differenze di parte, è divenuto nel suo tragico sacrificio il simbolo delle idealità di libertà e d’ordine civile, per il culto delle quali fu vilmente soppresso.

Afferma anzitutto il comune proposito, al di sopra delle diverse concezioni politiche, di compiere ogni sforzo affinché tali idealità siano rapidamente e completamente realizzate, affinché il sacrificio di quest’ultima vittima e l’indignazione del Paese, riunificato nel cordoglio, non siano stati invano, e l’Italia riabbia la sua pace e la feconda concordia civile.

Lo spaventoso carattere del misfatto, diverso dalla generalità dei delitti politici, perché tramato da una congiura annidatasi all’ombra degli stessi poteri dello Stato, ha scosso la coscienza pubblica, come la rivelazione di una mentalità e di un sistema politico che i più non avrebbero reputato possibile in Italia, nel secolo presente, e che era rimasto finora velato dall’atmosfera di intimidazione che pesava sul Paese.

Ma oggi nessuno più, in buona fede, può staccare quest’ultima tremenda espressione dell’odio di parte da una somma di manifestazioni ed atteggiamenti di Governo, di partito, di stampa, inspirati sistematicamente alla violenza, alla denunzia degli avversari politici e ad un insieme di azioni individuali e collettive, tutte dirette ad ottenere dalla soggezione del Paese quel consenso, che tali melodi di partito e di Governo sempre più allontanava.

Di qui l’insistente esaltazione di uno spirito fazioso; la giustificazione della violenza nelle competizioni politiche, la pressione esercitata contro i lavoratori e le loro organizzazioni economiche e sindacali; le intimidazioni iraconde agli avversari, cui era generosità risparmiare la vita; la minacciosa riaffermazione della efficienza offensiva della Milizia. Di qui l’ostentata volontà di mantenere il potere con qualunque mezzo, l’impunità dell’illegalismo, soltanto talvolta deplorato a fior di labbra, più spesso incoraggiato, mai risolutamente ed adeguatamente perseguito. Gli oppositori ufficialmente proclamati nemici, e contro di essi bandito, come legittimo, un trattamento da nemici: nessuna voce elevata a deplorare, nessuna misura concretata a colpire le azioni delittuose palesemente compiute contro uomini e istituzioni avversarie.

Ora, alla luce degli accertamenti giudiziari iniziati sotto la pressione dell’opinione pubblica, contro le evidenti riluttanze dell’Autorità di polizia, si è rivelata l’esistenza di un’organizzazione chiamata, al di fuori della legge, all’esecuzione di condanne contro gli oppositori politici, ed una tale organizzazione si trova al Governo ed è installata nello stesso organismo di Governo e diretta da persone di fiducia del capo di questo. Ed emergono altresì i chiari indizi di un vasto intrecciarsi della corruzione e dell’affarismo, inquinanti la cosa pubblica, e il costituirsi di nefaste solidarietà, dirette a sostenere comunque le posizioni di fiducia e di potenza audacemente conquistate. 

Innanzi a queste risultanze oggettive, l’assemblea ha chiara coscienza di non obbedire a preoccupazioni di parte, ma di tenere ai supremi interessi del Paese, quando, con spirito di verità, afferma, al di fuori dell’indagine giudiziaria, sui fatti concreti l’impossibilità logica e morale di scindere, in confronto di essi e delle loro origini prossime e remote, la responsabilità politica del Governo, la quale, oltre a tutto, discende anche dalla solidarietà concetta e mantenuta, contro avvertimenti di amici, gli ammonimenti di avversari, a collaboratori oggi rivelatisi mandanti dell’ignobile misfatto, e alla norme costituzionale che fa del Presidente del Consiglio, il responsabile, innanzi al Parlamento ed al Paese, dell’opera dei suoi collaboratori.

Necessariamente le circostanze del tutto consumato sopra un deputato, a Camera aperta, per l’intuitiva ragione dei suoi legittimi atti e parole in Parlamento, rendevano impossibile alle Opposizioni, sinché durassero le circostanze presenti, la partecipazione ai lavori della Camera. Quindi il Governo, rinviata la Camera, convoca a parte la maggioranza da esso stesso prescelta, e le Opposizioni si riuniscono per proprio conto, espressione di una crisi profonda, che non si risana con opportunistici compromessi.

E mentre tuttavia perdura il tono di minaccia di capi e di giornali autorizzati, col quale si vuole limitare le stesse indagini della giustizia e persuadere il popolo italiano a piegarsi ancora sotto l’umiliante fatalità della violenza che si è abbattuta sulla sua vita, il Governo prospetta per l’avvenire una sua opera di normalizzazione. Ma alla sincerità ed alla concreta efficacia di tale opera le Opposizioni non possono accordava fiducia, perché i propositi, lungi dal tradursi in provvedimenti risolutivi, che tolgano ad un partito il privilegio intollerabile di difendere a mano armata contro altri la propria volontà politica, sono contraddetti all’atto stesso in cui sono formulati, dalla confessata convenienza di mantenere tal privilegio per esclusivo vantaggio di parte, e perché permane il convincimento che la ragioni profonde della situazione che si è venuta determinando sono intimamente legate a tutto l’indirizzo politico seguito dal Governo.

 Onde l’Assemblea dichiara solennemente che indifferibile premessa alla pacificazione del Paese è la restaurazione dell’ordine giuridico e politico infranto, e che tala restaurazione non è effettuabile se non per opera di un Governo—alla cui composizioni le Opposizioni non possono che rimanere estranee — il quale voglia e possa provvedere nel più breve tempo: all’abolizione di ogni milizia di parte, perché la tutela della legge, la sicurezza dei cittadini e la difesa delle loro, libertà fondamentali devono essere affidate, unicamente agli organi dello Stato;

alla repressione inesorabile di ogni illegalismo e alla reintegrazione assoluta nei confronti di tutti, dell’autorità della legge, che è la stessa autorità dello Stato.

Solo siffatti provvedimenti, congiunti ad un’azione di Governo, equa ed imparziali, che rispetti i diritti della missione necessaria e legittima delle Opposizioni, cancellando ogni distinzione fratricida tra la Nazione e la cosiddetta anti – nazione, possono rimuovere le cause della crisi, ristabilendo le condizioni indispensabili al pieno, libero e dignitoso esercizio del mandato parlamentare, restituendo all’Italia – che si giova della molteplicità e delle avversità di pensiero, di azione e d’interesse dei Partiti e delle classi, liberamente confluenti al suo progresso morale e materiale –la pace che essa vuole, la pace nella libertà e nella giustizia».

Così si celebrò il convento delle Opposizioni. Al termine, molti deputati si strinsero attorno a Turati.

I rappresentanti del Fascismo protestarono «vivamente contro il linguaggio che forma il tessuto generale della dichiarazione, ma non si considerano, dal punto di vista dell’Opposizione, affatto eccessive le richieste concretate da essa; vale a dire che, ponendosi dal punto di vista fascista, si riconosce che le richieste degli avversari del Governo dovevano inevitabilmente comprendere, come condizione per la rinunzia allo sciopero parlamentare, la trasformazione della milizia fascista e la formazione di un Governo che costituisca l’essenza di una situazione completamente normalizzata.

Benito Mussolini (1883 – 1945)

Nelle alte sfere fasciste non ha, quindi, affatto prodotto impressione sfavorevole, e si dice che lo stesso onorevole Mussolini, presa cognizione della mozione degli avversari, abbia riconosciuto che il «nemico» non poteva meno di quello che ha chiesto. Ma ciò non deve essere inteso nel senso che le trattative tra il Ministero e l’Opposizione siano prossime o, come taluni parlamentari affermano, anche imminenti. Per ora, cioè per qualche giorno, non vi sarà nulla di nuovo; ma entro le prossime 48 ore sono destinati a verificarsi due fatti nuovi destinati ad influire inevitabilmente, sulla situazione.

Vittorio Emanuele III (1869 .- 1947)

Questi due fatti sono: il rimpasto ministeriale ed il discorso di lunedì del Re, in occasione delle due risposte della Camera e del Senato al discorso della Corona.

Il rimpasto, da annunziarsi lunedì, potrebbe forse dare adito all’onorevole Mussolini di accostarsi all’ordine d’idee accennate oggi nella dichiarazione delle Opposizioni; ma un più importante coefficiente per una détente fra Governo e Opposizione, potrebbe venire dalla parola del Re, che deve intervenire lunedì, ovvero martedì.

Come è noto, quest’anno sarà ristabilita l’abitudine della risposta del Re ai due rami del Parlamento por la loro risposta al discorso della Corona. Orbene, potrebbe darsi che il Re, nella difficile situazione politica attuale, inserisca nel suo discorso di risposta alle due Camere un appello alla concordia, ovvero alla trattazione di un’intesa parlamentare, che attutisca l’acredine della situazione attuale, culminante nella astensione dell’Opposizione dai lavori parlamentari. Se il Re si decidesse a un passo simile, la situazione potrebbe forse modificarsi.

Per ora, ufficialmente, rimane intatta la posizione determinata dalla mozione oggi formulata, secondo la quale si è aperta la crisi politica più grave della storia italiana. I massimalisti aggiungevano che le Opposizioni non si accontenteranno di mezze misure né di opportunistici rimpasti.

Le maggiori responsabilità essendo del Governo — essi dicono — Mussolini deve andarsene. L’illegalismo squadrista avendo la sua base è la sua protezione nella milizia, questa dev’essere sciolta. Questa è la posizione dell’Opposizione. L’onorevole Mussolini annunzierà fra giorni il rimpasto e convocherà la Camera per presentare ad essa il nuovo Ministero. Si vedrà allora se le idee di pacificazione hanno fatto cammino».

I commenti della stampa. II Mondo cominciò con l’osservare che «i capi della polizia furono allontanati dal loro ufficio dopo che la loro inerzia, o la loro soggezione politica, avevano determinato o favorito una situazione contraria ad ogni norma di giustizia, alla pubblica moralità e al pubblico interesse, cooperando a incoraggiare e perpetuare la criminale e sistematica impunità. Quanto alla libertà con cui procede la giustizia non si tratta di un omaggio fatto all’opposizione, bensì una elementare manifestazione di rispetto tributata dal Governo alla propria onorabilità e alle fondamentali esigenze del potere giudiziario. Perciò il problema non sta qui, ma al di là dell’organizzazione del servizio di polizia e dei rapporti fra Governo e magistratura. Il problema investe il principio fondamentale della libertà del funzionamento del Parlamento, investe cioè il regime, la sua dottrina e la sua pratica di Stato-Partito, negatore e sovvertitore degli ordinamenti liberali e dei principi su cui poggia la garanzia delle libertà statutarie della pace interna e dell’ordine vero e durevole del paese: la concezione e la tradizione dello Stato nazionale.

Orbene, la normale funzione del Parlamento in ogni paese civile, come esclude la possibilità che la maggioranza del paese si tramuti per l’assurdità di leggi e per sopraffazioni di Governo in minoranza parlamentare, ciò che è avvenuto con la finzione elettorale del 6 aprile in Italia, così non tollera che all’infuori del Parlamento, contro il Parlamento, il Governo possegga, per il gioco intimidatorio e sopraffatore del suo partito, uno strumento di violenza armata.

E’ appunto in forza di questa considerazione che le Opposizioni accettarono la lotta elettorale e assunsero in Parlamento, foggiato dal Governo, il loro compito di responsabilità e controllo; ma non poterono funzionare.

Dopo l’ingiuria della Maggioranza, venne il pugnale del sicario. E allora?

Non tradirebbe la opposizione, oltre la propria coscienza politica e civile, lo stesso sacrificio del martire, se da questo non traesse almeno il vigore a perseverare in un atteggiamento di austera irremovibile fermezza per la restaurazione vera della legalità e per la reintegrazione delle libertà statutarie di cui l’istituto parlamentare è la sintesi e il presidio?

Non si può onestamente affermare l’utilità dell’Opposizione — finalmente — senza riconoscere nel tempo stesso la necessità di una nuova situazione che allontani e distrugga le cause per cui la funzione del Parlamento si è praticamente ridotta ad una tragica beffa. Quanto più oggi, sotto la serietà della crisi, si agitano le ragioni di vita e di azione delle opposizioni, tanto più a queste si impone al dovere di tutelarle e garantirle. E la garanzia non si deve chiedere più che per sé, che per il popolo, che ha fede in loro e che non saprebbe né intendere né perdonare rinunce e deviazioni che sarebbero un tradimento. La garanzia sta non nelle parole insufficienti e insoddisfacenti in se stesse del Governo, ma nei fatti positivi e concreti».

Il Popolo si limitò ad una chiarificazione della mozione votata oggi:

«Sostanzialmente, l’ordine del giorno concordato fissa tre punti: la responsabilità politica del Ministero in rapporto all’assassinio Matteotti; la rinnovata sfiducia nel Ministero anche dopo le ultime verbali promesse di normalizzazione fatte da Mussolini; la proclamazione che, premessa urgente e indispensabile alla pacificazione sono i provvedimenti concreti e primo fra questi lo scioglimento o come più precisamente si è detto l’abolizione della milizia fascista. Sulla questione tattica se cioè l’Opposizione rientrerà o no nella Camera, l’ordine del giorno non contiene un’esplicita determinazione ovvio che le Opposizioni si riservano di liberare formalmente e definitivamente più tardi.

 Però, anche l’inciso della dichiarazione dice abbastanza chiaro che le Opposizioni ritengono ora possibile un ritorno alla Camera fino a che durino le presenti circostanze, il che significa che, perdurando le circostanze che accompagnarono il delitto, senza, che sia precisata con la debita sanzione la responsabilità del Governo, una partecipazione della Minoranza ai lavori parlamentari è per osa esclusa.

L’ultimo capoverso, in cui si afferma che la pienezza della libertà del mandato parlamentare può venire ristabilita solo se saranno attuati gli accennati provvedimenti, lascia inoltre capire che in seno alle Opposizioni finirebbe col prevalere la tendenza al definitivo abbandono della Camera, qualora l’attuale regime della milizia di parte e della violenza più o meno organizzata continuasse a togliere al mandato parlamentare la pienezza della sua efficienza e la libertà del suo esercizio».

Roberto Farinacci (1892 – 1945)

Il Giornale d’Italia si applicò alle dichiarazioni, rese nei giorni precedenti, da Roberto Farinacci.

«E’ inutile illudersi, la soppressione dell’onorevole Matteotti ha prodotto nel sentimento pubblico una emozione così profonda che ha provocato una perplessità così angosciosa, che fatalmente anche lo spirito politico delle popolazioni è rimasto conturbato e scosso. Ora non è con le minacce a base di moschetto o di piombo che l’opinione pubblica può essere rianimata di simpatia verso il fascismo.

Ebbene, l’onorevole Farinacci non trova meglio da fare che porgere all’onorevole Mussolini, in un momento eccezionalmente difficile, il poderoso aiuto dei suoi articoli stonati, inopportuni e inconsiderati. Si ricordi l’onorevole Farinacci che un bel tacere non fu mai scritto».

La cronaca. A Roma, si tenne una solenne e partecipata manifestazione di popolo verso il luogo del rapimento di Matteotti, dove, accanto alla popolazione civile, si riunì una folta delegazione di deputati socialisti.

Alle ore 10, e per dieci minuti, tutta la città si fermò in segno di lutto e di protesta. Intorno alla casa dell’ucciso, si raccolsero circa mille persone.

Giovanni Amendola (1892 – 1926)

Presso la sede de Il Mondo, Giovanni Amendola tenne un breve discorso:

«In adesione all’invito rivolto dalla Confederazione generale del lavoro, noi tutti, lavoratori italiani, abbiamo arrestato per brevi istanti l’opera nostra onde raccoglierci in silenzio, piegando commosso l’animo dinanzi alla memoria di Giacomo Matteotti, martire della libertà, compagno nelle battaglie nobilissime, fratello di trincea, caduto gloriosamente, in una guerra infame, la guerra civile.

Per la prima volta, dopo lunghi anni, l’Italia si è riunita nella santità di un sentimento comune ed ha meditato, in memore silenzio, sulla tragedia, ed ha avvertito che nasceva nel suo cuore la profonda speranza della resurrezione civile. Se lo spirito di Giacomo Matteotti partecipa a queste grande e solenne commemorazione, che ha riunito e purificato la nuova famiglia italiana, egli accompagnerà fraternamente le nostre speranze e saprà che il suo olocausto non fu invano. Da questo sangue rinasce la libertà italiana: in questo sacrificio maturano i destini della Patria; da qui muove il corso della nostra vita verso le sue mete civili.

Possa questa vittima eroica essere l’ultima nostra tragedia civile e sia questa la prima ora di una nuova storia, di una vita nuova per il popolo nostro. Nel ritornare dopo questa pausa di meditazione al nostro quotidiano lavoro formuliamo voti che il lavoro d’Italia sia anche la pace d’Italia, sia la fortuna d’Italia».

La cronaca giudiziaria. Gli inquirenti intensificarono le contestazioni agl’imputati, i quali, sin dall’inizio, caddero in evidenti contraddizioni. Fu ordinata la perquisizione dei documenti, contenuti nel cassetto di Matteotti alla Camera.

Filippo Naldi (1886 – 1972)

Il difensore di Filippo Naldi presentò istanza di scarcerazione, essendo caduta l’accusa di favoreggiamento, per cui s’era richiesto l’arresto preventivo.

Proseguirono le perlustrazioni attorno al lago di Vico, che non diedero alcun risultato.

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