«La storia del pescatore» da «Le mille e una notte»

Un povero pescatore era padre di tre figli.

Una mattina, si recò, come sempre, al mare e quando fu giunto il momento di tirar le reti, vi ritrovò la carcassa di un asino. Rattristito per sì inconveniente pesca, liberò il cadavere, per poi gettare nuovamente le reti.

Stavolta, riuscì a catturare un gran paniere contenente sabbia e fango.

Non si diede per vinto, e credendo di ottenere una buona pesca, gettò nuovamente le reti, ma, ancora una volta, non trasse alcunché.

Sii stava levando l’alba, allora depose i suoi strumenti di lavoro, per pregare.

Gettò per l’ultima volta le reti e ne trasse un vaso di rame giallo sigillato, che pensò di vendere al fonditore, per ricavarne ciò che serviva, per sfamare i suoi pargoli. Incuriosito che il vaso potesse contenere un tesoro, provò ad aprirlo, quando vi uscì del fumo, che s’elevò fino al cielo, per poi stendersi sul lago. Finalmente il fumo si addensò, formando un corpo solido di un gigante, che si dichiarò pronto ad esaudire, nel nome di Salomone, ogni richiesta. Il pescatore chiese al gigante di raccontargli la sua storia.

Il genio esordì, confessandogli che apparteneva a quella schiera di spiriti, che s’erano opposti alla volontà di Dio, non riconoscendo Salomone come suo profeta. Il re ordinò ad Asaf, figlio del suo primo ministro Barkhiyà, di catturarlo, perché fosse condotto al suo cospetto. Quando gli fu innanzi, il genio confermò la sua disubbidienza ed allora fu imprigionato nel vaso di rame e gettato in mare.

Il genio promise che se un uomo lo avesse liberato entro il primo secolo di prigione, l’avrebbe reso ricco. Se avesse conquistato la libertà entro il secondo secolo di prigionia avrebbe donato tutti i beni della terra al suo salvatore. Se fosse giunta la liberazione prima della scadenza del terzo secolo, avrebbe reso il suo liberatore monarca di un importante regno, esaudendogli tre desideri al giorno. Siccome il povero pescatore lo aveva liberato prima dello scadere del quarto secolo di prigionia, il genio aveva deciso che il salvatore sarebbe stato ucciso.

Il pescatore allora pregò il gigante di lasciarlo in vita, sicuro che anche Dio avrebbe perdonato la sua antica ribellione. Il genio fu irremovibile, così il pover’uomo gli sottopose un’ultima domanda, prima di essere posto davanti alla giustizia dell’Altissimo. Il pescatore gli chiese come potesse essere alloggiato in un sì picciol vaso. Per dimostrare che fosse effettivamente così, il genio aggregò il fumo sparso sul mare e rientrò nell’anfora. Il pescatore lo richiuse prontamente ed il genio si rivide nuovamente imprigionato. Ora le parti s’erano rovesciate: era il gigante a pregare il pescatore, il quale non si fidava affatto dello spirito, che – qualora fosse stato liberato nuovamente – si sarebbe comportato come un re greco nei riguardi del medico Duban.

Il re di Zuman, città della Persia, cadde ammalato di lebbra. Nonostante i tanti rimedi, consigliati dai medici, il male non recedeva.

Giunse in corte, il medico Duban, al quale fu chiesto d’intervenire; egli preparò una mistura di erbe ed una palla, che recò al sovrano, indicandogli di recarsi in piazza, per giocare. Appena furono giunti, il sovrano ricevé la sfera insieme all’ordine di spingerla per tutta la piazza e di fermarsi appena sentisse calare il sudore sulla pelle. Allora si sarebbe portato a palazzo, dove si sarebbe lavato, coricato; e l’indomani si sarebbe alzato completamente guarito.

Le direttive furono rispettate ed, in effetti, il re guarì per la gioia anche dei cortigiani. Duban fu invitato a sedersi alla destra del trono, perché fosse giustamente lodato di fronte all’assemblea reale. Quindi gli regalò delle bellissime vesti insieme a cento dinar.

Nei giorni, che seguirono, il sovrano continuò a mostrare la sua riconoscenza al salvatore con regali e prebende, che ingelosirono il gran visir. Costui disse al re quanto fosse poco conveniente riconoscere al medico così tanta benevolenza, disconoscendo le sue origini e la sua storia. Insinuò inoltre che Duban si fosse presentato a corte, col fine di uccidere il re.

Il sovrano non diede ascolto al gran visir, e decise la creazione di una pensione speciale per il dottore di mille dinar al mese. Fu poi ricordato al gran visir il comportamento di un suo pari grado del re Sindbad.

Un uomo amava felicemente la sua bella moglie. Dovendo partire per un lungo viaggio, acquistò un pappagallo e lo affidò alle cure della donna. La signora, qualche giorno dopo, chiese al pennuto quale fosse stato il comportamento delle serve durante la sua assenza. Il pappagallo accusò una tra costoro di essere una traditrice. La donna allora interrogò il gineceo riunito appositamente, che si protestò innocente. Al fine di punire il marito, ordinò che fosse posta sotto la gabbia dell’animale un mulino a braccia, quindi di porre un dispositivo, che gettasse acquale dall’alto nella gabbia ed infine di porre due specchi di fronte alla voliera.

L’indomani l’uomo rincasò e interrogò il pappagallo, il quale si lamentò per la pioggia, che lo aveva infastidito, sicché non aveva potuto osservare i comportamenti della padrona. L’uomo giudicò bugiardo il pennuto, poiché la notte non aveva affatto piovuto, quindi, presa la bestia, e la uccise.

Qualche giorno dopo, seppe dal vicinato che effettivamente il pappagallo non aveva mentito.

E così re di Zuman decise di non seguire i consigli del gran visir, al fine di non ripetere lo stesso errore dell’uomo, protagonista della storia. Il gran visir insistette sui propositi nocivi del medico e, per convincere sua maestà, raccontò una storia.

Tanto tempo fa, il figlio di un re si esercitava nella caccia, accompagnato sempre durante le battute dal gran visir.

Un giorno, al fine di catturare un cervo, che aveva ferito, lo rincorse a cavallo, perdendosi nel bosco. Riprese la strada di casa, quando incontrò una donna, che piangeva miseramente. Il principe le si avvicinò e, dopo averla interrogata, scoprì ch’era la figlia del re delle Indie e che anche lei s’era persa nel bosco. La coppia dispersa si unì alla vana ricerca delle orme di casa.

Giunti che furono presso un casolare, la giovane v’introdusse il principe, dicendo agli abitanti che lo cucinassero. Il principe riuscì a scappare da quegli orchi, saltando sul suo cavallo. Trovata la strada di casa, ed appena arrivato a palazzo, raccontò al babbo la sua triste avventura. Condotto il gran visir, il re lo condannò a morte, per aver abbandonato il principe.

Furono così tante le insistenze del gran cancelliere che convinse alla fine il re ad intervenire repentinamente contro il medico, che fu condotto a corte, per essere accusato di essere una spia. Fu ordinato al carnefice di togliere la vita a Duban, il quale scongiurò il re di usargli clemenza. Purtroppo il sovrano si mostrò inflessibile. Il condannato chiese ed ottenne di essere condotto a casa, perché avvertisse i familiari e raccomandasse loro una degna sepoltura. In cambio del favore, avrebbe donato al re il libro, che gli era più caro, raccomandandogli di leggere, dopo la sua decapitazione, la terza linea del sesto foglio, cosicché la sua testa avrebbe potuto rispondere a qualsiasi domanda, che le fosse posta.

Il morituro fu accompagnato a casa e, comunicate le sue ultime volontà ai familiari, tornò a palazzo, perché si compisse il suo tragico destino.

Entrò nella sala del trono, recando un grosso libro, chiedendo che, dopo la decapitazione, si ponesse la sua testa sopra una bacinella, quindi, aperto il libro, avrebbe risposto ad ogni genere di domanda.

Dopo che fu condannato, alcuni cortigiani eseguirono le volontà del medico. La testa aprì gli occhi e chiese al re di aprire il libro. Siccome le pagine erano incollate tra loro, il sovrano fu costretto ad inumidirle colla sua saliva, per spiegarle. Quando fu giunto alla sesta pagina, il veleno, di cui era intriso il libro, fece il suo effetto ed il re cadde morto a terra.

Questa fu la fine del re greco e del medico Duban.

A questo punto, il pescatore dichiarò che avrebbe gettato comunque l’ancora in mare. Il genio allora, onde aver salva la vita, a sua volta gli raccontò la storia di Umama ed Atica. Accortosi della mancanza di pietà da parte dell’uomo, gli promise che, se lo avesse liberato, l’avrebbe reso assai ricco. Allora, dopo essersi fatto giurare di fronte a Dio che si sarebbe comportato fedelmente, il pescatore liberò il genio, che, dopo essersi ricomposto in forma umana, gettò l’antica prigione in mare; quindi indicò all’uomo di prendere le reti e seguirlo.

Dopo lungo peregrinare, giunsero di fronte ad uno stagno; il genio chiese al pescatore di gettare le reti e catturò quattro pesci di altrettanti colori: bianco, rosso, turchino e giallo. Il gigante lo consigliò di donarli al sultano, perché fosse largamente beneficiato; quindi lo avvisò di pescare una sola volta al giorno. Terminato il suo dovere, il genio scomparve nel seno della terra.

L’uomo, così come aveva ordinato il gigante di fumo, si recò a palazzo, per presentare il raccolto al sultano, il quale dopo averli ben osservati, li fece consegnare alla cuoca. Incaricò poi il visir di donare quattrocento piastre d’oro al pescatore, che li impiegò per il bene della sua famiglia.

Intanto che i pesci friggevano, accadde un prodigio: il muro della cucina si aprì, perché uscisse una donna d’ammirabile bellezza ed elegantemente vestita, che recava una bacchetta di mirto. La giovane allora prese la padella e rovesciò il contenuto nella brace, rendendo immangiabili i pesci. Sparita la giovane, la cuoca restò alquanto disarmata per le inevitabili proteste del gran visir, al quale raccontò l’accaduto.

L’uomo decise d’inventare una scusa, alla quale il sovrano credette; convocato nuovamente il pescatore gli ordinò di rifornirlo di altrettanti pesci.

Il vecchio giurò che l’indomani avrebbe portato il richiesto. Quando il gran visir ricevette i quattro pesci colorati, ordinò al pescatore di seguirlo in cucina, e quando fu giunto il momento preciso, si aprì un muro della cucina ed apparve la bella figliuola. Stavolta il gran visir fu testimone dell’accaduto; deciso che fosse un grande evento, ne informò il sultano, il quale credette al racconto ed ordinò al pescatore di recargli ancora quattro pesci colorati. L’uomo giurò che entro tre giorni lo avrebbe esaudito.

Appena il pesce fu giunto a palazzo, il sovrano provvide a pagare quattrocento monete d’oro il ricevuto. Poi, accompagnato dal gran visir, si recò nel suo studio. Si apprestò il tutto per la cottura, e quando fu giunto il momento decisivo, il muro si aprì, perché comparisse un moro gigantesco, che stringeva tra le mani un lungo bastone verde. Prese la padella e la rovesciò a terra, quindi tornò da dove era venuto. Il sultano volle interrogare il pescatore, il quale fu costretto a confessare di averli trovati presso un lago, che si trovava a tre ore di marcia dal palazzo.

Si formò il convoglio regale, guidato dal pescatore. 

Dopo tre ore di marcia, il corteo arrivò nei pressi del lago dall’acqua trasparente, dove fu constata la reale presenza dei pesci colorati. Il sultano, attestato che alcuno conoscesse quel posto, comandò di drizzare le tende, quindi si ritirò a colloquio col gran visir. Confessato di aver l’animo turbato per tutti i prodigi accaduti, comunicò che si sarebbe allontanato nel corso della notte dal campo.

L’indomani il gran visir avrebbe inventato che il sultano era stato colto da una leggera indisposizione, che non gli permetteva di dare udienza. Dopo un lungo peregrinare, il sultano giunse presso un palazzo e notò che il portone era socchiuso. Bussò, ma non ottenne risposta. Entrato all’interno, non incontrò anima viva. Le sale, seppur apparentemente disabitate, erano riccamente decorate. Dopo aver vagato a lungo, trovò ristoro su una poltrona, quando giunse da una stanza vicina una voce lamentevole. Incuriosito il sovrano vi si recò, trovando un giovane, al quale chiese il motivo della sua presenza, e se fosse stato informato che nei dintorni si trovasse il lago dei pesci colorati. Il giovane non ascoltò le domande, chiuso nel suo inspiegabile dolore. Poi, incrociò lo sguardo del sultano, cui mostrò la causa di tanta angoscia: egli era un uomo dalla testa alla cintura, e di marmo nero dalla cintura ai piedi.

Raccontò così la sua storia.

 ∴

Egli era un principe, figlio del re delle Isole nere, Mahmud, di cui il lago magico era parte. Alla morte del babbo, fu nominato re e si sposò una cugina, colla quale visse un’importante storia d’amore, che dopo i cinque anni iniziò a mostrare i primi segni della crisi.

Un giorno, il sovrano si coricò sopra un sofà, subito raggiunto da due cortigiane, impegnate a sollevare dal caldo con dei ventagli il sonno ristoratore. Quando le donne iniziarono, bisbigliando, a conversare, il re finse di dormire e così poté ascoltare tutto ciò che si raccontavano.

La regina preparava ogni sera una bevanda per il marito, che gli conciliasse il sonno. Appena vedeva il marito dormire, usciva, per tornarsene a palazzo alle prime luci dell’alba, per svegliare il sovrano.

La sera, qualche attimo prima di coricarsi, la regina offrì la solita bevanda al marito, che gettò dalla finestra senza che la donna se ne accorgesse. La coppia s’introdusse nel letto; e quando la sovrana si accorse che il marito (fintamente) dormiva, si levò, per uscire. Stavolta, non si accorse dell’inganno, e così mentre percorreva i corridoi del palazzo, fu spiata dal re.

La donna, pronunciando delle parole magiche, aprì molte porte, fin quando giunse presso un bosco, dove l’aspettava un uomo. Riuscì ad udire la moglie, che raccomandava il suo grande amore per lo sconosciuto, ed, al fine di dimostrargli tutto il suo affetto, si dichiarò pronta a distruggere il palazzo reale. Il re, preso da collera, ed approfittando del buio, affrontò l’uomo, colpendolo colla sciabola. Credendo di averlo ucciso, si ritirò, per non essere riconosciuto, ma l’uomo – per sua fortuna – era stato solo ferito. Il sovrano tornò rapidamente nella stanza da letto.

L’indomani trovò la regina accanto, che dormiva. Si alzò, procurando di non far rumore, quindi si vestì, per presiedere il consiglio reale, al termine del quale, trovò la moglie vestita a lutto per l’improvvisa morte della mamma, del babbo ucciso in battaglia e di un fratello caduto in un precipizio.

La donna trascorse un anno intero preda del dolore e del lutto; quindi chiese al marito d’indicarle il luogo della sua sepoltura: il Palazzo delle lacrime. Appena conclusa l’edificazione, la regina vi fece adagiare l’amante, che nel frattempo era riuscita a tenere in vita grazie alla magia. Il poveretto era rimasto paralizzato, ma muoveva solo gli occhi. La donna si recava due volte al giorno a trovarlo, per parlargli, attendendo inutilmente una risposta, che mai sarebbe potuta arrivare.

Un giorno, il re, stanco del comportamento della moglie, mentre era presso la tomba dell’amante, la affrontò, accusandola di non essergli mai stato fedele. La donna reagì, colpevolizzandolo di aver ucciso l’uomo, che tanto amava. Ciò irritò ancor di più il re, che, sfoderò la sciabola e, mentre fu in atto di uccidere, la donna lanciò un sortilegio, per cui il sovrano mutò in marmo la parte inferiore del suo corpo.

La regina distrusse la capitale del regno e trasformò gli abitanti nei pesci colorati in base al loro credo: i musulmani in bianchi, i persiani in rossi, i cristiani in turchini ed, infine, gli ebrei in gialli.

Il sultano allora decise di vendicare il re delle Isole nere.

Seppe che l’amante si trovava nel Palazzo delle lacrime; la maga ogni giorno al calar del sole si recava a trovare l’uomo, per invitarlo a bere una pozione magica, che lo teneva in vita.

L’indomani, il sultano si recò presso il Palazzo delle lacrime; trovato dove riposava il moro, snudò la sciabola, uccise il malcapitato e trascinò il cadavere fin nel giardino, per gettarlo in un pozzo. Quindi si coricò nel letto dell’ucciso, nascondendo l’arma. Dopo qualche istante, la maga raggiunse il principe e, come ogni giorno, lo frustò per ben cento volte; quindi si recò al Palazzo delle lacrime, credendo di visitare l’amante. Rivelò al sultano tutto l’amore, che provava e chiedendo, come faceva ogni qualvolta si recasse a trovarlo, qualche parola gentile. Il sultano parlò in vece del moro, lodando la forza di Dio e rimproverando alla donna il suo comportamento fortemente ingiusto nei riguardi del marito, per cui taceva da tanto tempo. Il sultano le chiese una prova d’amore: restituire al fisico del re il suo carattere naturale.  Così avvenne. Poi la maga obbligò il marito ad allontanarsi repentinamente, per avere salva la vita.

Tornata dal sultano, ricevette l’ordine di riassestare la città, da lei deteriorata causa incantesimo. La maga ancora una volta ubbidì e, dopo un contro – incantesimo, la città riapparve nello splendore del passato ed i pesci ripresero l’antica ed originale forma umana.

Tornata a Palazzo delle lacrime, per informare il falso amante, il sultano le chiese di avvicinarsi e, quando fu a buon punto, con un colpo di sciabola divise il suo corpo in due parti. Quindi si recò dal re delle Isole nere, che ringraziò il sultano, augurandogli una vita lunga, prospera e felice. Quindi gli chiese di accompagnarlo nel lungo viaggio di ritorno in patria, ed in cambio il sultano lo nominò erede del suo regno.

Il pescatore, che aveva liberato il giovane principe, fu colmato di beni e tutti vissero felici e contenti.

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