Diario storico: 14 settembre 1919. La presa di Fiume nel racconto dei giornali dell’epoca

Domenica 14 settembre del 1919, i giornali diedero larghissimo spazio alla cronaca parlamentare relativa allo svolgimento del dibattito sui fatti di Fiume.

La Stampa riprese: «Le tribune sono gremitissime; nell’aula sono presenti fin dal principio della seduta oltre duecento deputati. Tutti i ministri, compreso il generale Albricci, sono al loro posto. Presiede l’onorevole Giulio Alessio.

Giulio Alessio (1853 – 1940)
Alberico Albricci (1864 – 1936)

Prende subito la parola il Presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, il quale dichiara di voler rispondere d’urgenza alle interrogazioni sui fatti accaduti in Fiume per corrispondere al desiderio della Camera di essere informata su quei dolorosi avvenimenti.

Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953)

Ieri, 13 settembre, in un telegramma di cui chiaramente non si leggeva l’ora, ma che dovette essere spedito alle ore 13 circa, fu annunziato dal generale Pittaluga la partenza da Monfalcone di parte di un battaglione granatieri, già a Fiume, con camion; e che trecento giovani del battaglione fiumano erano partiti per incontrarlo. Il generale Pittaluga soggiungeva che andava loro incontro per fermarli; che nessun atto erasi fino allora compiuto contro gli Alleati; che aveva proibito ogni manifestazione o riunione e che avrebbe agito efficacemente: chiedeva rinforzo di carabinieri.

Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938)

Alle ore 15,15, il generale Pittaluga telegrafava che granatieri ed Arditi con mitragliatrici ed autoblindati, insieme a Gabriele D’Annunzio alle 11,45 riuscendo a rompere ogni resistenza, erano giunti a Fiume. Aggiungeva: “L’ordine si va ristabilendo; continuo a tenere il comando”.

Mario Nicolis di Robilant (1855 – 1943)

Alle ore 14, 30 altro telegramma al Ministro della Guerra del generale Di Robilant comunica la notizia della partenza avvenuta durante la notte su quaranta autocarri di granatieri condotti da D’Annunzio, per Fiume. Il battaglione fiumano volontario attendeva sulla linea di armistizio. Aggiungeva che il Comando del 16° Corpo d’Armata aveva preso le misure per arrestarli, ma, essendo mancato un reparto di altre truppe della linea di armistizio, ciò non era avvenuto. Il generale Di Robilant ordinava al Pittaluga il disarmo dei soldati e la consegna dei granatieri nelle truppe della linea di armistizio.

Alle ore 15 il generale Di Robilant, confermando il movimento, lo dichiarava tale da compromettere la nostra situazione internazionale: domandava al Governo ogni appoggio per agire colla massima energia.

Alle ore 15,30 il generale Di Robilant telegrafava al Ministro della Guerra indicando le truppe colle quali si proponeva, oltrepassando la linea di armistizio, di agire contro le truppe che avevano defezionato qualora, egli diceva, non fosse valsa la persuasione. Si disponeva anche ad agire con energia.

Alle ore 16 il generale Di Robilant, in vista degli avvenimenti, sospendeva lo scambio di truppe lungo la linea d’armistizio ed ordinava di approntare per la partenza alcune Brigate.

Alle ore 21,30 il Comando dell’8° Corpo di Armata comunicava un’informazione ricevuta dal Comando di Fiume, che presso a poco coincide con quello che ho letto.

Alle 22,30 il generale Di Robilant, accusando ricevuta di un telegramma che gli era stato inviato, informava di avere emanato severe disposizioni, che stava procedendo al concentramento delle forze per una repressione energica, e soggiungeva che era in corso un’inchiesta per assodare le responsabilità e che oggi egli sarebbe stato a Fiume.

Oggi 13, un fonogramma delle 4 del mattino, del Comando dell’8° Corpo d’Armata comunicava la partenza per Fiume del comandante della Divisione di assalto del comandante la Brigata granatieri per indurre le truppe che si erano allontanate, a desistere dal loro insano proposito.

Con altro telegramma, che giunse alle 7,15 lo stesso Comando comunicava di aver avuto notizie dal generale Pittaluga, che alle ore 3,50 la R. Nave Dante Alighieri partiva, dopo aver fischiato lungamente e provocato suono di campane ed il risveglio della popolazione, ma aggiungeva che era rimasto a terra un certo numero di marinai. Il generale Pittaluga chiedeva istruzioni ed aggiungeva di essere deciso ad agire in tale guisa da evitare conflitti erravi gravi.

Io non posso nascondere il mio profondo senso di amarezza e di dolore per quanto è avvenuto. Per la prima volta è entrato nell’esercito italiano, sia pure per fini idealistici, la sedizione. Il soldato non ha che un solo dovere: quello di ubbidire; ogni altra parola, ogni altro consiglio sono immorali!

Si tratta dunque di un tentativo che, dinanzi all’Italia e dinanzi ai nostri Alleati, devo dichiarare deplorevole: il soldato che rompe la disciplina, sia pure per alti fini, è contro la Patria; il soldato non ha non può avere che una sola norma: obbedire! Chi lo induce, con blandizie sia pure per fini non volgari, sia pure per tendenze idealistiche ad arti di sedizioni, mette il soldato contro la Patria.

Se le nostre aspirazioni adriatiche sono così vivamente contrastanti, è per molteplici ragioni, ma anche e soprattutto perché si lascia credere in malafede ad uno spirito di violenza imperialistica del popolo italiano!

Nessun peggior servizio dunque di poteva rendere alla causa che noi difendiamo ed amiamo.

La virtù non è già nelle facili blandizie, non è nell’eccitare il popolo nelle ore del pericolo e del dolore, la virtù sta nel saper resistere alle blandizie ed alle debolezze e non è concependo imprese simili, come un raid, come una spedizione d’avventura, come qualche cosa fra il romantico ed il letterario, che si determina la fortuna del proprio Paese.

E’ stata inoltre disposta un’inchiesta per sapere perché ieri, prima ancora che al Governo d’Italia, giunse la notizia di questi fatti ad uomini che non appartenevano al Governo. Il Governo, dunque, aveva preso le opportune misure, e queste  all’interno del Regno erano state rispettate dolorosamente. In zona di armistizio ed in zona prossima a questa, vi sono stati alcuni militari che hanno incoraggiato, sorretto, aiutato e tollerato questi deplorevoli fatti. Questa è la verità ed è bene che il Paese lo sappia.

Ieri il Ministro della Guerra diceva che in Italia fenomeni di militarismo non sono mai avvenuti: sono dolente di dover oggi constatare che questi fenomeni sono avvenuti per la prima volta.

Il fatto, magari, sarà presto isolato. Io devo preoccuparmi però della responsabilità nostra di fronte al mondo.

La follia dilaga soprattutto in coloro che più dovrebbero sentire il peso della responsabilità. Dopo la guerra combattuta, e vinta contro la Germania e l’Austria molti di coloro che spinsero alla guerra ora parlano con disinvoltura di fare altre guerre o con i loro atteggiamenti le preparano con spaventevole leggerezza.

Mancare agli impegni verso gli Alleati, non rispettarli, intervenire con atti di violenza, quando le sorti d’Italia sono in contestazione, tutto ciò è triste e non è senza un grave pericolo per l’Italia. Coloro che ancora ieri spingevano a proteste ed atti insani contro la Francia, contro gli Stati Uniti senza il cui diretto aiuto l’Italia non potrà resistere in questa lotta, né rinnovarsi, ed eccitano gli animi in nome della Patria, sono folli e tradiscono gli interessi della Patria!

L’Italia deve ricomporsi e per la sua stessa grandezza, per il suo stesso avvenire, ha bisogno di serenità, di lavoro, di pace all’interno e deve dare all’estero affidamento di meritare il credito di cui ha bisogno. Chiunque parla diverso linguaggio, chiunque con fatuità, sia che parli alle folle operaie, sia che spinga a imprese ed avventure perigliose ed ecciti l’Italia contro i paesi amici è un avvelenatore che inquina tutta la vita del Paese.

E’ stato ora disposto perché al Comando sia ordinato in guisa che nessuna debolezza si verifichi perché sarebbe grave errore farsi vincere dai falsi sentimentalismi compromettendo l’avvenire del proprio paese. Per la stessa alimentazione del nostro popolo, per la sua situazione l’Italia non potrebbe resistere ad una politica di avventure, senza cadere nella miseria e nella più profonda anarchia, e coloro che per sport o per esaltazione, o sia dolenti fratelli alla loro rovina, ma alla rovina d’Italia.

Bisogna dunque reagire, bisogna dare al popolo nostro la coscienza della responsabilità. E’ finito il tempo delle avventure folli e inconsiderate! E fino a quando io sarò al governo non le tollererò, se questa avventura capitata oltre confine può avermi sorpreso, altre avventure saranno represse.

E’ da tre mesi che sto assistendo ad una connessione di fatti: dai tumulti nelle strade e le eccitazioni insane e dalle spedizioni per prendere pubblici edifici e dominare la città di Roma (come l’avventura di Pietralata) a fatti che, come questo, hanno moventi profondamente sentimentali, ma hanno anche moventi estremamente pericolosi.

Vada dunque dal Parlamento al popolo d’Italia una parola d’affidamento, agli Alleati vada un’espressione di solidarietà con la dichiarazione che questi fatti da niun di noi sono approvati.

Oggi più che mai rivolgo una parola di simpatia agli alleati. Una rapida inchiesta è stata disposta in Roma sulle responsabilità civili e un’inchiesta militare sulle responsabilità militari.  Queste responsabilità io spero di accertare perché coloro i quali hanno così inconsideratamente agito non hanno ben servito la patria.

Intanto, i soldati, molti di quei nostri fanciulli che hanno così inconsideratamente agito, sono stati ingannati; si è fatto credere loro che dovevano tornare a Fiume! La loro buona fede è stata sorpresa e per questi soldati noi dovremo applicare l’articolo 138 del Codice penale per l’Esercito, che li considera come disertori se nei cinque giorni non si presenteranno.

 Ora ben venga dal Parlamento invito a questi fanciulli nostri, che sono stati in tanta parte ingannati, di ritornare al loro posto e non fomentare una lotta che deve considerarsi come pericolosa e fratricida.

Né, dopo ciò, avrei altro da aggiungere se non sentissi di dovere in questo momento rivolgermi ai lavoratori d’Italia, agli operai, ai contadini, per chiedere la loro cooperazione. In questi momenti l’Italia ha bisogno di pace e di unione, e deve volere una pace con ogni sforzo, con ogni volontà! Io mi rivolgo dunque alle masse anonime, agli operai e contadini perché la gran voce del popolo venga ammonitrice a tutti e tutti spinga sulla via della rinuncia e del dovere.

Io parlo oggi con una profonda e sincera emozione, perché vedo tutto il male che è stato fatto all’Italia, perché sento tutta la profonda umiliazione delle scuse sincere che devo fare ai nostri alleati.

Perché io voglio ch’essi sentano e sappiano che le nostre democrazie devono combattere insieme nuove lotte per la civiltà e per la giustizia, ma che una lotta fratricida, sia pure di sentimenti, non deve venire tra noi!

Oggi più che mai, dunque, rivolgo una parola di simpatia o di fiducia ai nostri alleati, quale che sia il loro torto, io non devo di alcuna cosa discolparmi; non sottoscrissi alcun patto che desse città italiane alla Croazia; non devo difendere alcun passato errore; alle masse parlai sempre il linguaggio della verità non illudendole con chimere irrealizzabili, ma facendo sentire che questa nobile Italia, coi suoi 600 mila morti, non la dobbiamo perdere per le nostre follie, per i nostri rancori o per il nostro sport.

E mi offende la voce diffusa e telegrafata all’estero, che il Governo d’Italia abbia se non incoraggiato, tollerato queste imprese. Il Governo d’Italia non le ha tollerate!  E’ un doloroso evento di cui non ne ho colpa.

Senza voler anticipare l’esame di responsabilità, devo infatti avvertire che io avevo già richiamato l’attenzione dell’Autorità militare sull’argomento ed avevo avuto assicurazioni che non vi era motivo di preoccupazioni. Andrò perciò a fondo di questa affermazione, perché non si ha il diritto, da parte di alcuno, di compromettere la tranquillità e l’avvenire del Paese con tanta disinvoltura».

Al termine dell’applaudito discorso del Presidente del Consiglio, si tenne il dibattito parlamentare.

Il deputato Guido Marangoni mosse delle precise critiche al Governo, chiedendosi come mai non fosse «venuto a conoscenza della preparazione, che procedeva febbrile, per la spedizione di Fiume. C’erano sintomi molto chiari, reparti militari notoriamente avevano assunto il compito di preparare questa spedizione facendo propaganda fra le altre truppe e fra i cittadini. Mi auguro che il Governo intervenga senza reprimere con asprezza, perché non vogliamo spargere sangue fraterno».

Quindi si augurò il reintegro nel pieno rispetto del Codice penale militare dei soldati di Fiume.

Filippo Turati (1857 – 1932)

La Camera piombò in un silenzio di grande attesa, quando dal suo scranno prese la parola Filippo Turati, deputato socialista:

«Non dirò parole gravi, perché i fatti sono gravi di per se stessi.

La vittima di queste avventure è la patria, è l’Italia! L’Italia sconta gli errori dei suoi governanti. L’impedimento alle aspirazioni di Fiume non è di oggi, ma queste aspirazioni non possono essere risolte da un’avventura, da un colpo di testa o da un colpo di mano! Dubito che le parole dell’onorevole Nitti sieno giudicate sincere all’estero, specie quando ebbero per commenti… certi applausi.

L’onorevole Nitti ha il merito di essere uscito dal Ministero Orlando, dichiarando il suo pensiero. Ma io deploro che la solita minoranza cerchi di turbare la vita del Paese con violenze balcaniche.

Da cinque anni i partiti interventisti vantano il monopolio del patriottismo; i fatti odierni sono il frutto necessario della loro propaganda e su di essi ne ricada tutta la responsabilità.

Io mi meraviglio come il Governo non abbia avuto conoscenza di quanto si preparava nella stessa zona di armistizio. Io mi domando se non siamo già in piena operetta. Sono stati evocati ricordi garibaldini. C’è una certa differenza, credo fra Giuseppe Garibaldi e Gabriele Rapagnetta! La situazione di allora era qualche cosa di diverso dalla coalizione internazionale di oggi contro l’Italia. Quella era la rivoluzione, questa è la sedizione militare. Allora si trattava di fare l’Italia, oggi se ne compromette l’esistenza.

Gli Alleati sono conniventi col desiderio a queste avventure, che fanno il loro giuoco. Ci avviamo a diventare un Paese sud americano o balcanico.

Queste faccende possono essere anche causa di crisi ministeriali; possono servire alle speculazioni politiche di gruppi o di persone. Ma nessuno qui nega il diritto di Fiume! Come Fiume, anche il Tirolo ha il suo diritto. Il Tirolo che non deve essere in nessun caso italiano!

Carlo Marx soleva dire che i fatti si ripetono due volte nella storia, ma una volta è il dramma la seconda è una farsa.

L’onorevole Nitti, rivolgendosi al proletariato, ha trovato la giusta via per giungere al cuore della Nazione. Il bolscevismo delle masse è figlio della politica di sedizione, che si è inaugurata in Italia. Ma il popolo non vuole essere turbato e saprà imporre la sua volontà!»

Napoleone Colajanni (1847 – 1921)

Napoleone Colajanni del Partito Repubblicano Italiano:

«Pure approvando del discorso del Presidente Nitti, dissento da lui in alcuni punti.

Non mi è piaciuta la riaffermazione che il Presidente del Consiglio ha fatto in questo momento della nostra soggezione ai nostri Alleati. Che l’Italia sia vittima dei suoi Alleati, non è un fatto nuovo, ma non è bello anteporre alcuna cosa al sentimento del popolo.

Oggi ci troviamo di fronte ad un Aspromonte, ad una nuova Mentana. Avremo una nuova Mentana se soldati alleati saranno messi di fronte ai soldati italiani.

Non possiamo incoraggiare Gabriele D’Annunzio, ma dobbiamo dire ai soldati che sono con lui che il loro movimento è ben altra cosa che la diserzione di Caporetto.

Ho sentito parlare di Maggioranza e di Minoranza. Ma la domanda: c’è stato qualche cosa di grande nella storia che non sia stata fatta dalle Minoranze?

Si è fatto anche un paragone tra Garibaldi e D’Annunzio.

Lasciate che un vecchio come me narri un episodio della sua vita. Ebbi la fortuna di trovarmi ad Aspromonte. In quella giornata Garibaldi fece alle truppe un’allocuzione. Disse: “Oggi voi, figli miei, scriverete una pagina che rimarrà nella storia; ma se tireranno contro di voi, voi non risponderete”. Nel ’68, avevamo conquistate le Giudicarie, avevamo preso Bezzecca. Giunse a Garibaldi allora l’ordine di fermarsi. Garibaldi rispose: “Obbedisco!”

Senza far paragoni, dico che oggi D’Annunzio deve obbedire e chi lo incoraggia è un vero nemico dell’Italia».

Eugenio Chiesa (1863 – 1930)

Eugenio Chiesa, del Partito Nazionale Fascista, giudicò la presa di Fiume quale «atto di violenza animoso». Il deputato chiese a gran voce dove fossero iresponsabili del comando militare, Diaz e Badoglio? «Solo costoro «avrebbero potuto impedire il fatto». Quindi concluse il breve intervento, augurandosi che «la follia non dilaghi nel Paese, ma non dimentichiamo che l’Italia l’abbiamo fatta con le sole nostre forze».

Il deputato Luigi Federzoni, tra i responsabili del movimento nazionalista, deputò la scelta ammonitrice verso i soldati di Fiume quale «mortificatrice del sentimento nazionale e dello spirito militare rinvigorito dalla vittoria».

Luigi Federzoni (1878 – 1967)

Giudicò invalido l’appello del Presidente del Consiglio rivolto alle masse, poiché «è necessario che lo Stato abbia in sé la capacità di difendersi senza fare appello a chicchessia».

Spronò poi il Governo a denunciare presso gli alleati la propria irresponsabilità rispetto all’accaduto.

Pietro Badoglio (1871 – 1956)

Il Governo decise l’invio del generale Badoglio a Fiume per l’indomani, coll’incarico «d’indurre Gabriele D’Annunzio a lasciare la città. Il generale Badoglio ha pure convocato al Comando il maggiore dei granatieri Reina, che è il solo ufficiale superiore che abbia partecipato al movimento dannunziano. Alle truppe rientrate senza ordini del Governo a Fiume sarà intimato di ritornare alle loro sedi. In caso diverso, i militari, che oggi Nitti accusò di sediziosità saranno, trascorsi i cinque giorni dal loro abbandono della sede, dichiarati disertori.

Nelle sfere ufficiali non si nutrono illusioni sui risultati della missione di Badoglio presso d’Annunzio. Si nutrono invece lievi speranze circa una possibile resipiscenza delle truppe. Quanto alla nuova situazione diplomatica, essa è appena in germe. Molto influirà del resto, nel senso di aggravare oppure attenuare la condizione di attrito degli alleati, la piega definitiva che gli avvenimenti prenderanno nella giornata di domani a Fiume».

La situazione a Fiume. Non giunse alcun telegramma a Roma.

Il Messaggero pubblicò un dispaccio proveniente da Trieste:

«Giungono a Trieste le prime notizie dell’arrivo a Fiume di Gabriele D’Annunzio, a capo di grossi nuclei di truppe italiane. L’accoglienza dei fiumani è stata entusiastica, commovente, sebbene nessuno dissimuli la gravità dell’atto compiuto dal Poeta e dai suoi seguaci.

Essendo riuscita vana ogni trattativa fra le supreme Autorità, i militari che erano a capo delle forze italiane e delle forze alleate di Fiume con D’Annunzio e gli ufficiali che gli si sono costituiti attorno come Stato Maggiore, si è tenuto un Consiglio fra il generale italiano Pittaluga ed i generali che comandano i reparti d’occupazione. Si attendino da Roma ansiosamente le disposizioni del Governo. Per Roma sono partiti corrieri recanti particolari precisi al generale Albricci ed al generale Diaz. Il Consiglio fiumano è stato impedito di ritirarsi.

Le milizie libere, composte di cittadini fiumani, hanno fatto una grande dimostrazione alle truppe italiane comandate da D’Annunzio, il quale ha diramato un bando annunziante la completa liberazione e la conquista e l’annessione di Fiume all’Italia. D’Annunzio si è insediato nel palazzo civico dove sventola da ieri soltanto la bandiera italiana ed ha assunto, fra le acclamazioni ripetute dei fiumani il governo della città.

Né a Venezia, dove la spedizione è stata organizzata; né a Trieste alcuno, all’infuori degli aderenti, aveva potuto sospettare ciò che il poeta andava preparando.

Il primo nucleo delle adesioni si è avuto dalla brigata dei Granatieri di stanza a Monfalcone. Tutti sapevano che D’Annunzio aveva promesso la quindicesima battaglia dell’Isonzo, ma nessuno credeva che il poeta fosse capace di cimentarsi in un tal rischio, che avrebbe segnato un giorno così pieno d’ansia e di pericoli per l’Italia. L’uscita delle truppe da Fiume non sarà scevra di conseguenze».

Il Giornale d’Italia: «Il corpo dei volontari fiumani, unito alla popolazione, impedisce la manomissione del Consiglio nazionale tentata dalle truppe straniere. I volontari resistono all’ordine di scioglimento. Molti volontari della Brigata Sardegna, gli arditi, i soldati e ufficiali delle varie Armi sono sopraggiunti con ogni mezzo di trasporto per evitare che fosse compiuta la oltraggiosa violenza definitiva del diritto di Fiume. La Brigata granatieri da Ronchi per volontà dei suoi soldati ha raggiunto Fiume insieme a Gabriele D’Annunzio che ha preso il comando delle truppe. I soldati della Brigata Regina assistettero alla proclamazione dell’annessione di Fiume all’Italia avvenuta per volontà del popolo.

Il Presidio interalleato ha sgombrato Fiume. I marinai della Dante Alighieri sono sbarcati.

D’Annunzio terrà domani un gran discorso al popolo ed ai soldati.

Un imponente corteo attraversa le vie della città fra il delirio della popolazione che getta fiori sui soldati e sventola la bandiera tricolore».

Il Corriere d’Italia ricevette e pubblicò delle notizie provenienti da Pola:

«Dopo la sua entrata in Fiume, D’Annunzio parlò commosso al popolo chiedendo il giuramento solenne della sua volontà di annessione all’Italia. La folla rispose con l’unanime acclamazione, mentre la truppa presentava le armi. Il generale Pittaluga, comandante delle forze italiane a Fiume, dichiarò a D’Annunzio che doveva impedire anche con le armi quanto stava accadendo. Seguì un vivace scambio di parole, durante il quale D’Annunzio offrì il petto al generale chiedendo se la coscienza lo autorizzava a farlo fucilare. Quindi, continuando, D’Annunzio disse:

«In nome dell’Italia e del popolo fiumano, dichiaro la città di Fiume annessa all’Italia».

Le acclamazioni si elevano al cielo. Il generale Pittaluga, circondato da un mare di popolo e di soldati inneggianti alla italianità di Fiume ed all’annessione, si associò al grido di viva Fiume italiana.

Il comando della piazza, delle truppe e della popolazione è stato assunto dal colonnello Repetto, degli arditi».

Carlo Sforza (1872 – 1952)

L’Epoca pubblicò nella sua ultima edizione che «D’Annunzio ha realmente intimato alle truppe alleate che presidiano la città di ammainare le bandiere delle rispettive Nazioni e pare che su questo principalmente vertano le proteste presentate stamane al Sottosegretario agli Esteri, conte Sforza, per quanto in forma amichevole, dall’ambasciatore inglese e dal primo segretario di ambasciata della Francia.

Sembra però che, contrariamente alle notizie giunte da Trieste, le truppe alleate non hanno ancora lasciato Fiume. Esse sono consegnate nelle rispettive caserme.

Anche gli uomini della Brigata Regina sono tutti al loro posto. Pare vi sia stata l’adesione al movimento da parte di qualche reparto durata però pochissimo perché questi reparti sarebbero già tornati a disposizione de generale Pittaluga.

Armando Diaz (1861 – 1928)

Il generale Diaz, che si trovava momentaneamente in congedo presso Napoli, è ritornato a Roma dovendo conferire col Re e col Presidente del Consiglio, ma un giornale romano dice che D’Annunzio è arrivato a Fiume alla testa di ottomila volontari, armati di fucili, mitragliatrici e di autoblindate. Il viaggio da Ronchi a Trieste attraverso il Friuli orientale e l’Istria si è compiuto con autocarri. La legione dei volontari fiumani interamente equipaggiata di armi, cannoni da 75, forte di parecchie migliaia di uomini si è unita al corpo comandato da Gabriele D’Annunzio. Il contingente di volontari supera i diecimila uomini.

Stasera verso le ore 10 un gruppo di cittadini che è andato gradatamente ingrandendosi ha iniziato nei pressi del Viale Aragno una dimostrazione di plauso all’atto compiuto da Gabriele D’Annunzio al grido di Viva Fiume italiana.

Le autorità di Polizia intervenute prontamente hanno sciolto i dimostranti i quali hanno tentato di riunirsi verso Piazza Colonna ove sono stati di nuovo sbaragliati. Non vi è nessun incidente. Regna la calma».

I preparativi a Ronchi e la partenza del II° Battaglione Granatieri. «La Brigata Granatieri Sardegna è dislocata nei pressi di Monfalcone, e precisamente dove è il Comando di Brigata col generale Anfossi. Il secondo Battaglione è al comando del maggiore Reina. Questi è un giovane ufficiale decorato con medaglia d’argento ed una di bronzo, grande amico di D’Annunzio. A lui il poeta, aveva manifestato il suo progetto e con lui si era inteso per attuarlo.

Furono frequenti le visite di D’Annunzio a Ronchi, dove appunto si trovava il II° Battaglione, ma sempre tenute nascoste. D’Annunzio giungeva colà in motocicletta, coperto da un casco. Il 5 corrente tali visite cessarono, e si videro invece giungere sempre in motocicletta ed in automobile dei fiduciari suoi, e pure il 5, i soldati del II° Battaglione furono avvertiti della spedizione; gli ufficiali lo erano stati già da tempo.

I soldati accolsero l’annunzio con entusiasmo. Gli ufficiali non ebbero bisogno di spronarli. Ci furono defezioni ma non molte e comunque tutte favorite dagli ufficiali stessi, che avevano avvertito: chi non voleva partecipare all’impresa era libero di fuggire.

Dal 5 al 10 si videro giungere a Ronchi parecchi ufficiali di altri battaglioni della Brigata i quali venuti a conoscenza dell’impresa, avevano chiesto la licenza per raggiungere il II° Battaglione ed inquadrarsi con esso.

Il giorno 8, D’Annunzio ritornò a conferire a lungo con Reina. Alle tre del mattino dell’undici D’Annunzio giunse a Ronchi in automobile, vestito da colonnello, accompagnato da un ufficiale di marina e da altri ufficiali e si recò a casa di Reina e subito dopo le trombe suonarono l’allarme, il battaglione che era accantonato nella fabbrica di Ronchi si inquadrò silenziosamente. Fu dato l’ordine di non recare con sé che i tascapani con le cartucce, la coperta e la mantellina.

Non si procedette all’appello, ma gli ufficiali ripeterono: chi non vuole partire resti. Nessuno rimase. Il poeta si era accordato anche col capitano comandante Pantoparco di Palmanova, il quale avrebbe dovuto fornire 40 camion alle tre. Si venne a sapere che il capitano per timore di incorrere in una responsabilità troppo grave si rifiutava di mantenere la promessa. Il disappunto di D’Annunzio e Roma fu grande. Il poeta era manifestamente in preda a vivissima agitazione. Passeggiava affrettatamente sul fronte delle truppe ammassate mormorando:

«Tutte le contrarietà: ma partiremo lo stesso! Andremo a piedi!»

Reina ebbe un’idea più pratica, fece salire sull’automobile di D’Annunzio una pattuglia di arditi reggimentali, coll’ordine di recarsi a Palmanova, e minacciare di morte il comandante dell’autoparco se non avesse consegnato gli autocarri.

L’argomento persuasivo adoperato dagli arditi ebbe il suo effetto e poco dopo giungevano a Ronchi 27 autocarri. II maggiore Reina grido alle truppe:

«Granatieri di Sardegna! Sotto l’ordine di Gabriele D’Annunzio, il nostro eroico battaglione parte per una impresa nobilissima. Ci siamo assunti il compito di liberare Fiume e farla divenire italiana per sempre! Chi non ha cuore ci lasci!».

I camion furono presto colmi di soldati e la colonna lunghissima partì con alla testa l’automobile con D’Annunzio e Reina, sotto i raggi di una luna chiarissima. La colonna era costituita dal II° battaglione del II° granatieri, degli arditi reggimentati del I° e II° granatieri, con altri uomini delle Sezioni mitragliatori.

La colonna raggiunse in poche ore Mattuglie, a pochi chilometri da Fiume. Qui avvenne l’incontro dei battaglioni fiumani usciti dalla città. L’entusiasmo dell’incontro fu indescrivibile e qui cessa il mio racconto, perché a Mattuglie l’ultimo camion della colonna, nel quale, appunto si trovava il mio informatore (un caporalmaggiore del I° granatieri che era in licenza a Milano) per un laceramento alle ruote dovette rallentare la corsa e fu quindi raggiunto dall’automobile del generale Anfossi.

Il caso del comandante la Brigata granatieri è alquanto comico. Egli riposava tranquillamente la mattina dell’11 e tutto ignorava, ed apprese dal suo attendente che il II° battaglione era partito per Fiume. La sua ira divampò. Si precipitò in automobile ed a corsa pazza inseguì la colonna, ma altro effetto non ottenne che quello di far tornare indietro l’ultimo camion malconcio, con 17 granatieri che il generale aveva investito minacciandoli delle pene più severe, e mandandoli poi indietro liberi, tanto che alcuno di essi, che s’era fatto precedentemente fatto riunire di regolare licenza dal proprio ufficiale, poté tornarsene in Italia a un meritato riposo.

Il mio informatore mi ha detto d’aver saputo che a Mattuglie i granatieri s’incontrarono con degli altri reparti accordatisi con D’Annunzio e che pure da Mattuglie la CXXIV° Sezione auto – mitragliatrici FIAT fu fatta tornare indietro».

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