Cenni di critica musicale dopo la prima esecuzione dello «Stabat Mater» di Gioachino Rossini

La Gazzetta Musicale di Milano del 7 marzo 1842 offrì un’ampia analisi dello Stabat Mater di Gioachino Rossini, la cui prima esecuzione avvenne a Parigi il 7 gennaio 1842, a firma di Giovanni Agostino Perotti, maestro di cappella di San Marco di Venezia.

L’articolista aprì il suo commento, affermando come la nuova composizione del Giove olimpico Parigi avesse creato «ammirazione nell’Europa musicale intera. Quel genio che profuse tesori di melodie in tanti capolavori che sempre brilleranno di una eterna giovinezza, e che pareva perduto alle più care speranze, ora rivive, addentrandosi nelle sacre tende, e là, nelle carte della Chiesa sublimando il pensiero, crea un nuovo monumento alla grandezza dell’arte.

Tra i viventi, il celebre Cherubini, Simone Mayr, e pochi altri, sono quelli che tengono ancora accesa una pura fiamma innanzi all’altare, e mantengono nelle opere loro quell’elevatezza di stile, ch’è dovuta nella significazione di grandi concepimenti.

Rossini, il taumaturgo della scena lirico – musicale; l’uomo per eccellenza in fatto di gusto, doveva offrire alcun che di nuovo, qualora avesse colorito delle possenti sue tinte alcuna delle sacre salmodie. E in vero, nello “Stabat”, diviso in dieci pezzi, si trovano delle parti d’inestimabile valore, sì per l’espressione drammatica, che per la mirabile condotta del pensiero; per la scelta di toccanti melodia congiunte a novità di armonie, non meno che per i bei gruppi di parti vocali, per transizioni peregrine, e per un ottimo impiego presso che sempre della parte istrumentale.

Per nostro avviso, tutti questi pregi trovansi riuniti nel primo pezzo (Introduction. Stabat mater), preceduto da una magnifica introduzione, colla quale l’autore del “Guillaume Tell” prepara gli animi dell’uditorio a quella dolorosa impressione che il gran racconto deve cagionare.

Questo primo pezzo, più lo si viene osservando e più lo si ammira. Quel motivo che cominciano i bassi e al quale viene risposto dalle altre parti, cui a grado a grado si associano gli istrumenti, è di un magico effetto, come lo è del pari il Coro, che giova mirabilmente ad afforzare a tempo e luogo le quattro parti di concerto. Questo è un vero giojello.

Il “Cujus animam gementem” venne scritta per tenore a voce sola. L’effetto è delizioso, ma, sia permesso il dirlo, non ne pare che la forma del canto, né la qualità del tempo, adatto piuttosto al marziale che al patetico, né il movimento della parte istrumentale, addicansi all’espressione di un’anima gemente, profondamente afflitta, e punta da pugnale, come dice il testo.

Questa cavatina, ricca di tutti i vezzi teatrali, non ne pare sita a suo luogo.

Questo pezzo ne sembra contenere un’altra anomalia; quella di ripetere il motivo delle parole “cujus animam”, allora che dopo la terza strofa benissimo espressa in “fa minore”, viene alla “quarta”, cioè alle parole: “quae moerebat ed dolebat”, coll’aggiunta per altro d’ingegnosa transizione, colla quale l’illustre autore si conduce alla cadenza finale.

Il terzo pezzo è un “Duo” per voci femminili sulle parole “Quis est homo qui non fleret”.

Un breve ritornello fortunato di mirabili accordi armonici precede il canto. Questo duetto è di bellissima fattura, sì riguardo alla parte vocale, che alla strumentale, la quale accompagna il canto da principio alla fine con un movimento cui nessun altro poteva meglio convenire. Il canto è di molto effetto, e vi si ammira la spontaneità nella condotta e nelle combinazioni di armonie. Né pare per altro che abbiavi difetto nell’interpretazione.

Il punto interrogante, alla fine di questa strofa, e della seguente – “quis non posset contristari” – non lo si vede sempre osservato. Il dire che, dovendo fare cadenza, il nostro autore era costretto per chiudere il periodo musicale ad operare la conversione del punto interrogativo in positivo, incontra la risposta che non gli era obbligatorio scrivere un duetto su queste parole, che meglio si sarebbero attemprate a un recitativo.

Il quarto pezzo (“Pro peccatis suae gentis”, aria per Basso). Il principio n’è di squisito lavoro; il genio e l’arte s’intrecciano nell’espressione delle parole. Tra le bellezze che vi si ammirano, accenneremo al passaggio ch’ei fa sul “vidit Jesum in tormenti”, dalla “dominante” del tono di “re minore”, al “re bemolle maggiore”. Del pari è osservabile, sotto le successive parole – “et flagellis subditum” – quell’accordo con cui passa al tono di “do maggiore”, da dove ritorna a quello di “la minore”, in cui incomincia il pezzo. Tanta è la novità, naturalezza e ragione delle succennate transizioni, che vogliono essere particolarmente rilevate. Venne assi lodato il canto che vi succede, e non esitiamo punto a crederlo, com’è certamente, di bellissimo effetto. Ne sembra per altro introdotto a solo fine di far spiccare l’abilità del cantante; mentre, come composizione, per quanto sia pregevole, pure non lo si potrebbe vedere ben collocato sulle stesse parole di prima – “pro peccatis” – che il nostro autore si fa a ripetere; parole di tinta trista e patetica, non aventi molta simpatia con un “tono maggiore”. La strofa che vi succede, quella – “vidit suum dulcem natum” – non ha una diretta relazione col “pro peccatis suae gentis”. La musica però è la medesima, compreso il canto che abbiamo sopraccennato.

Il quinto pezzo è il “Choer et Recit sanz accompagnement”, contenente le due strofe “Eja mater, fons amoris” e “fac, ut ardeat cor meum”.

Il coro s’intreccia con una voce di basso principale.

Questo pezzo pare una composizione a mosaico. E nel vero, trovansi uniti insieme motivi e periodi di breve durata si, ma di colore diverso l’uno dall’altro, ed alcuno anche per il tempo slegato dagli altri.

Non è la mancanza di effetto di cui accuseremo in questa parte l’autore? No certamente, ma sibbene della poca dicevolezza di alcun concetto, sia nel rapporto della gravità dello stile, che all’espressione della poesia, e così pure della mancanza d’insieme.

Tra’ motivi concentrati in questo pezzo, “in amando Christum Deum”, è troppo profano. La dignità dello stile non la troviamo qui osservata; e noteremo inoltre come possa anche giudicarsi poco soddisfacente quella spezzatura che nel detto periodo fa la parte del basso principale, su le parole: “Ina – mando”, cioè “in amando”.

Pezzo sesto, “Quator” (Sancta mater istud agas).

Esso è composto di cinque strofe o versetti, e comincia on quello “Sancta mater”, scritto per voce di tenore a solo. Noi troviamo eminenti i pregi di questo primo versetto; e poiché serve di base a questo componimento, ne pare conveniente enumerarne le squisitezze.

E primamente, è a considerare la qualità della cantilena applicata alle parole di tinta appassionata; cantilena, figlia d’un’anima inspirata; bella, semplice, fresca come le più care creazioni del genio. Ma, se bella è per se stessa, l’arte la rese anche migliore. Giudizioso quanto mai, noi troviamo l’impiego che il nostro autore fa della parte istrumentale, là dove tace il canto, e che rende più sensibile la espressione delle parole che vengono significate.

Noi ci dilungheremmo di troppo se volessimo rilevare parte a parte i distinti pregi di questo bel componimento. Gli è perciò che noi passeremo sopra al versetto che succede “Tui nati vulnerat” cantato dal soprano, opportunamente avvicendato dal tenore; né faremo parola del dignitoso e caratteristico modo di canto con cui il basso esprime le parole “fac, me vere tecum flere”, cui risponde il soprano, replicando le parole suddette, però con un’altra cantilena assai grata ed acconcia.

Questo pezzo ne pare una gemma infinitamente preziosa. La scelta dei musicali concetti benissimo adatti, si all’espressione della poesia che alla gravità dovuta nelle opere di questo genere; lo sviluppo ingegnoso che a grado a grado e’ ricevono, sia nel dividersi tra le quattro parti cantanti, come nel loro legame ed intessuto co’ strumenti; perfino quel profondo magistero mediante il quale il nostro autore, coll’ammirabile meccanismo di questo suo linguaggio, sa riunire in una stessa corrente d’idee, in uno stesso punto d’interesse tutte le categorie de’ suoi uditori, per cui può dirsi ch’ei li conduce per una sola via, deono assicurare a questo componimento l’omaggi di un’unanime ammirazione.

Il settimo pezzo è la “Cavatine” del soprano sulle parole “Fac ut portem Christi mortem”. Questa pare scritta per quella eroina nella quale un famoso filosofo presentò la bellezza ideale, e la fregiò di quanto l’amore ha di più dolce e lusinghevole.

Il suo andamento è di “Andante grazioso”; e nel vero, tale è il preludio che la precede, e tutto il seguito sino all’ultima nota.

Del pari che la soavità del canto, si ammira in essa il pregio artistico nella condotta e collocazione degli accordi armonici, non meno che nelle dotte transizioni nel bel concerto della parte strumentale, e nell’unità del pensiero.

Pezzo ottavo è l’ “Air et choeur” (Inflammatus et accensus).

E’ per la voce di soprano la prima parte principale che canta questa preghiera che tale appunto la presentano le parole.

Non sappiamo perché venga intitolata “Air”.

Qualunque ne sia però il titolo la composizione rimane la stessa e brilla di singolare spendore.

Eminentemente filosofico è il preludio che precede il canto, nel quale il chiarissimo autore comincia a tratteggiare la grande scena del giudizio finale. Alle tinte forti ch’ei quiv’impiega, sussegue un canto in cui tutte stanno espresse le angustie e le speranze di quel core appassionato che si rivolge supplice alla Madre di Dio. Termina questa strofa colle parole “in die judicii”, e là, finita la cadenza del periodo musicale cantato dal solo soprano, l’egregio compositore con ottimo intendimento fa ripetere le ultime parole “in die judicii” da tutto il coro, che all’unisono e all’ottava sostiene la nota del tono fondamentale “do”, mentre gl’istrumenti si fanno a riprodurre con tutta forza il ritornello.

Continua la preghiera colle parole “Fac me cruce custodiri”. Qui l’autore opportunamente impiega lo stesso movimento che servì ad accompagnare la precedente strofa. Il carattere patetico del canto si trova benissimo conservato, e sommo è l’effetto del coro che lo alterna. Le ingegnose combinazioni artistiche che qui trovansi sparse, meritano lode tanto maggiore quanto che sono rese più semplici, né lasciano intravvedere quell’artificio, che al dire di Torquato Tasso: “Quanto si scopre men, tanto è più bello”.

Finita questa stanza, il nostro autore fa ritorno al primo motivo ove ripete la stessa prima frase – “in die judicii” – di cui abbiamo già parlato. Giunto alle parole “Fac me cruce custodiri”, cambia il tono dal minore al maggiore, dove ripete le stesse frasi e progressioni armoniche di prima sino alla cadenza.

Non è a tacere che prima della cadenza finale, trovasi una frase di pregevolissimo lavoro, colla quale, sotto la nota di do acuto, fanno passaggi parecchi accordi d’armonia da cui viene schiuso l’accesso alla “dominante” ed al compimento di questo stupendo lavoro.

Pezzo nono. (Quatuor). Quartetto senza accompagnamento.

Comincia colle parole “Quando corpus morietur”. Il basso propone il motivo, o meglio il soggetto d’imitazione, se così vuol dirsi. La cantilena di carattere patetico è formata con note semitonate discendenti.

Alla proposta del basso risponde il tenore, accompagnato in armonia dal mezzosoprano e dal basso. Quindi il soprano che continua l’imitazione proposta colla quale viene cantato il secondo verso – “Fac ut animae donetur” -. Sulle parole dell’ultimo verso della strofa – “Paradisi gloria “ – è notevole quel passo di carattere lieto e brillante che serve ad esprimerle a maraviglia.

Rossini ha voluto di sicuro significare con questo musicale concetto, come si sprigioni lo spirito dal carcere della vita, per volare fra le eterne contentezze.

Ora che abbiamo detto partitamente su questo Pezzo Nono, ne sia concesso osservare in genere, che l’artificioso lavoro delle idee proposte, l’espressione che in esse ebbe a ricevere la poesia, il tipo caratteristico che le medesime ci presentano, e la stretta osservanza delle discipline dell’arte, meritano per nostro avviso, che questo componimento venga offerto a modello di musica sacra nelle scuole.

Pezzo Decimo (Final) a quattro voci con il coro.

Comincia con li tre accordi generatori del primo tono sol minore. Le voci cantano sulla parola “Amen”.

Dopo questo preludio attacca la Fuga.

Siffatta specie di composizione che, al dire del celebre Marpurg, immune dalle fantasia della moda, non fu mai soggetta a riforma, appartiene alla classe di quelle denominate del Tono, per lo motivo che la “Proposta” e “Risposta” sono circoscritte entro i confini dell’ “ottava”. Questa Fuga è composta di “soggetto” e “contro – soggetto”: è osservabile in oltre l’aggiunta detta comunemente “coda”, la quale viene prima ad innestarsi col “Primo Soggetto” e continua dal principio alla fine.

Diciamo osservabile, perché si hanno così due “contro – soggetti” per cui la Fuga diventa più artificiosa ed aggradevole. Il “soggetto” comincia colle parole: “In sempiterna secula”, ed il “contro – soggetto” coll’ “Amen”.  Appoggiandoci a trattatisti tra’ quali Zarlino e Rousseau, dovremo notare come scorrezione quel salto di “quarta”, che fanno per “moto retto” contemporaneamente il soprano ed il tenore sul termine della seconda battuta.

Proseguendo a dire brevemente di questo componimento, che appartiene al sublime dell’arte, accenneremo a quel “divertimento” che sussegue le “proposte” e “risposte” delle quattro parti; “divertimento” ricavato dal “soggetto” e “contro – soggetto”, e del quale assai opportunamente fa uso il nostro autore per la modulazione.

A prima giunta, potrebbe parere in questo lavoro alcuna deviazione dalla Fuga: noi però nel suo intreccio crediamo scoprire un tratto di finezza dell’illustre compositore che, addottrinato dall’esperienza, volle spogliare questo genere di componimento, per quanto gli era possibile, da ogni soverchia gravità del “primo soggetto”, ed operare con sicurezza d’effetto, mediante acconce digressioni su la massa dell’uditorio, facendo trovare a così dire delle oasi, ove più arido avrebbe potuto apparire il cammino. E gli artisti i più severi, che sembrano avere in custodia il palladio dell’arte, hanno ben d’onde soddisfarsi nella parte relativa allo “stretto”, che per unanime consenso dei più valenti compositori, è una delle parti più difficili della Fuga.

Lo “stretto” di quella di cui trattiamo, ne pare sommamente ingegnoso; conserva l’identità del “soggetto”, e ciò che è più, si presenta facile e naturale.

Allo “stretto” del “soggetto” succede quello del “contro – soggetto”, mirabile per la distribuzione e collocamento delle quattro parti e per ultimo non meno pregevole si mostra la chiusa ricca di graziose e peregrine transizioni. Noi non faremo qui punto.

Le transizioni armoniche di cui or ora abbiamo parlato, per nostro avviso, meritano particolare considerazione, sì per la novità e naturalezza, che per l’ottimo effetto che arrecano. Ciò è tanto più a valutarsi, dacché a’ nostri giorni cosiffatte transizioni sono non che in uso, in abuso, e non pochi scrittori sembrano aversi data la parola d’intesa, per lacerare colle più sfrenate fantasticherie il senso dell’udito.

Egli è dopo le sullodate transizioni, che il nostro autore con ingegnose imitazioni, viene di nuovo a stringere il “soggetto” e “contro – soggetto”, prima della fine,

Avanti questa, come il sole che tramonta, il genio di Rossini fa scintillare un ultimo raggio, in quella inattesa riproduzione del primo motivo dello “Stabat” al Pezzo Primo, su la parola “Amen”, che precede la cadenza finale.

Noi, scrivendo su questo lavoro ed ammirandone gli eminenti pregi, il facciamo tanto più di buon grado, in quanto che torna ad onore di quella scuola a cui Rossini derivò i precetti dell’arte, e della quale, noi stessi, il confessiamo, siam figli. Quel Padre Mattei, capo scuola bolognese, di cui in oggi si onorano le ceneri, e che diede all’Italia ed all’Europa, tanti e segnalati compositori, gioirebbe, se ancora contasse i giorni, di vedere in questo “Stabat” raccolta la sua eredità da Rossini!»

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