Augusto Turati nacque a Parma nel 1888. La famiglia si trasferì a Brescia, ed ivi frequentò gli studi liceali. Si sposò con Olga Guerrini, dalla quale avrebbe avuto una figlia.
Seguendo le orme del babbo Antonio, volontario garibaldino, seguì l’indirizzo liberal – democratico. Dal 1913, iniziò a collaborare con La Provincia, ma allo scoppio della Grande Guerra, si arruolò ed a giugno del 1915 fu assegnato al LV° Battaglione di Fanteria di stanza a Ferrara ed inviato al fronte, su sua esplicita richiesta. Alla fine del conflitto, avrebbe guadagnato diverse medaglie al merito.
Riprese allora la sua attività di giornalista e nel 1920 si avvicinò al Fascismo, fondato in Piazza San Sepolcro il 23 marzo del 1919 a Milano. L’impegno fu notevole e così ben presto fu investito del ruolo di segretario provinciale. Grazie all’enorme lavoro, nel 1924 fu eletto in Parlamento, risultando il candidato bresciano più votato. Divise l’attività politica tra Roma e la provincia natia, attirando la preoccupata curiosità del Duce, che non volle contrastare la sua ascesa ai vertici del partito, tantoché il 23 giugno 1925 fu chiamato dal segretario generale, Roberto Farinacci, nel Direttorio nazionale.
Trascorse appena un anno ed il 30 marzo del 1926 fu nominato segretario del Partito Nazionale Fascista, sostituendo il Farinacci, il quale era un convinto difensore dell’attività delle squadracce fasciste. Il Duce desiderava, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, dare al partito un ordine legalitario e così si risolse a favore del deputato bresciano.
Il neo segretario lavorò alacremente al nuovo statuto del Partito, per trasformare il Fascismo in una religione, e lo presentò l’8 ottobre del 1926 al Gran Consiglio. Assegnò al massimo organo del Partito Fascista la nomina del Direttorio nazionale; i segretari federali sarebbero stati nominati dal segretario generale; quelli dei fasci dal segretario federale. L’aspirante carrierista avrebbe dovuto così manifestarsi zelante, efficiente e soprattutto fedele.
Il 13 febbraio del 1927, Turati pronunciò a Milano un discorso, in cui sostenne come il Partito dovesse fungere da selezionatore della classe dirigente dello Stato, al fine di permeare tutti i centri della vita nazionale, in funzione di una circolare, inviata dal Duce, il 5 gennaio, con cui si prefigurava la nuova concezione totalitaria.
Turati sottopose allora il Partito alla volontà del suo Capo, allontanando gl’indolenti ed attirando i moderati. Così come la classe operaia.
La gestione personalistica del partito gli attirò molte antipatie, e la guerra dal ras di Cremona, Roberto Farinacci, che si dimostrò il più tenace polemista, il quale lo attaccò violentemente dalle colonne de Il Regime fascista. Non si preoccupò di avviare indagini private e personali, onde scoprire zone d’ombra nella vita del Segretario e denunciarle al Duce. Nonostante fosse inattaccabile politicamente, il Turati intratteneva dubbie amicizie extra coniugali e pericolosi rapporti col podestà di Milano, Ernesto Belloni, accusato di malversazione. La campagna giornalistica, che fu scatenata dal Farinacci, provocò il confino per il podestà e causò il declinare della vita politica del Segretario, che rassegnò le dimissioni il 14 settembre 1930.
Il 30 gennaio del 1931, assunse la direzione de La Stampa; continuò ad intrattenere relazioni extra coniugali, legandosi ad una ex prostituta italo – francese, Paulette Marcellino. Quando la storia ebbe a finire, la donna iniziò a frequentare l’agente di cambio, Mario Romita, che presentò la donna al Farinacci, perché entrasse in possesso di alcune lettere assai compromettenti per l’ex Segretario. Turati riuscì a resistere alla nuova ondata scandalistica, lanciata dal suo antico avversario, ma nell’estate del 1932, il questore di Torino, Giuseppe Stracca, inviò al Duce uno scottante rapporto, in cui si confermavano tutte le accuse più turpi contro il direttore de La Stampa; non solo accusato di pratiche omosessuali, ma anche di uso di stupefacenti.
Il 7 agosto del 1932, l’organo torinese annunciò le dimissioni del direttore «per divergenze d’indole amministrativa». Il 1° dicembre ci fu anche la sospensione a tempo indeterminato dal Partito, di cui un tempo era stato servitore, poiché «in alcune lettere private divenute di pubblico dominio usava espressioni deplorevoli e inammissibili».
Turati fu internato, per volontà del Regime, in una casa di cura romana, successivamente trasferito in provincia di Parma, ed infine fu inviato colla famiglia a Rodi. Dalla città greca, sperò inutilmente in una riabilitazione. Quando iniziò l’avventura di Salò, egli, pur rimanendo profondamente fascista, non aderì alla Repubblica.
Nel 1947, fu processato dalla Corte di Assise di Roma per i suoi trascorsi politici, ma non si presentò, limitandosi ad inviare un memoriale. Molti furono i testimoni a suo favore: il partigiano socialista, Carlo Andreoni; il capo redattore de La Stampa, Santi Savorino, e lo scrittore Corrado Alvaro, i quali dichiararono la sua moderazione e la simpatia, che aveva manifestato per le azioni partigiane. Ciò non bastò, per evitargli la condanna a quattro anni, interamente condonata. Caddero le accuse di aver organizzato delle squadre fasciste, di aver partecipato alla Marcia su Roma, ed aver preso parte all’annullamento delle garanzie costituzionali.
Morì a Roma il 26 agosto 1955, all’età di sessantasette anni.
Gli storici indicano in Turati una delle massime figure espresse dal Regime; scrisse Renzo De Felice: «Fu indubbiamente il miglior segretario del PNF, quello che ebbe più personalità politica».