Venerdì 11 luglio 1924, il quotidiano La Stampa ricordò il triste trigesimo della morte di Giacomo Matteotti.
Un gruppo di donne socialiste alle ore otto recò una corona sul luogo dell’eccidio recante la scritta: Le donne del Partito Socialista Unitario Italiano. Grazie all’immediato intervento della Polizia, lo striscione fu rimosso, quindi si decise di donarlo alla famiglia della vittima, che gradì l’omaggio. Alcuni parlamentari socialisti onorarono la strage, deponendo una corona di fiori e poi si recò in visita ai familiari della vittima.
Le dichiarazioni di alcuni avvocati. La Tribuna intervistò l’avvocato difensore di Filippo Naldi, il quale dichiarò:
«Attualmente a Filippo Naldi è contestato il reato di complicità in omicidio, avendo la Sezione d’accusa, in via presuntiva, ritenuto che l’assistenza e l’aiuto che sarebbe stato portato dal Naldi al Filippelli per facilitargli la fuga fossero stati dal Naldi stesso promessi prima della consumazione del delitto. Il reato contestato al Naldi non consente la libertà provvisoria. Io attendo che l’istruttoria offra ai magistrati inquirenti materia sufficiente per escludere che queste attività criminose siano state effettivamente promesse dal mio difeso al Filippelli prima della sparizione dell’onorevole Matteotti».
L’avvocato Giuseppe Romualdi, difensore di Cesare Rossi, si schernì alle domande del redattore de La Tribuna, affermando di non aver visto l’assistito prima del suo arresto e confermando di non conoscere quali fossero le accuse contestate, quindi riconobbe di non aver ancora intrapreso una via difensiva.
Sibillino si mostrò l’avvocato Annibale Angelucci, difensore del Filippelli:
«Nulla posso dire sulla posizione processuale del mio difeso, in quanto che ancora non ho potuto vederlo. Confido di dimostrare la sua innocenza quale mandante di un omicidio».
Giacomo Acerbo, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio inviò una lettera a La Tribuna:
«Io, in quella giornata, come nelle precedenti e seguenti, non feci nessuna telefonata, né all’ospedale di San Giacomo, né ad altri ospedali. Anzi, durante quel drammatico pomeriggio, io non mi recai affatto al Viminale, in quanto da Montecitorio andai direttamente a Palazzo Venezia per il Gran Consiglio. Aggiungo, a mo’ di conclusione, che coll’occasione invito formalmente il deputato Baldesi a non tirare più in ballo il mio nome in queste sue divagazioni poliziesche».
La risposta di Baldesi, chiamato in causa, non tardò ad arrivare attraverso La Giustizia:
«L’onorevole Acerbo ha voluto dimostrare con la sua lettera di smentita di non saper dimenticare il metodo delle parole grosse. Non lo seguirò, dicendo che è falsa la sua dichiarazione su quanto ha affermato, perché tutti i lettori hanno potuto constatare che io ho domandato se fosse vera questa famosa telefonata all’ospedale di San Giacomo, che parve dell’onorevole Acerbo. Ma poiché l’ex sottosegretario ha preso la penna in mano sarà bene che ci si riprovi, non per smentire me, ma per illuminare, se lo crede opportuno, i magistrati che si occupano della faccenda. L’onorevole Bruno Cassinelli, che ho visto oggi stesso e che si dichiara pronto a deporre e confermare davanti ai giudici, mi aggiungeva che non solo egli seppe che la telefonata parve dell’onorevole Acerbo, ma che certamente era partita, naturalmente se telefonata vi fu, dal Gabinetto del Sottosegretario alla Presidenza. Può garantire l’onorevole Acerbo che non solo egli in quella giornata non telefonò a San Giacomo, ma che nessun altro si prese la cura del suo Gabinetto? Perché l’onorevole Acerbo deve convincersi che se quella sera l’amico di Cassinelli vide i carabinieri alla ricerca a Grotte Rosse, certamente i carabinieri non ce li inviammo per il piacere di polemizzare oggi coll’ex sottosegretario di Stato. E allorché gli dirò che la notizia del ferito ricercato a Grotte Rosse (questo è un punto da me dimenticato nello scritto precedente e rammentatomi oggi da Cassinelli) è venuta a noi dalla stessa fonte del San Giacomo – e i magistrati faranno bene a cercare con l’aiuto dell’onorevole Cassinelli – dovrà convincersi che qualche cosa di vero ci deve essere in quel falso che l’onorevole Acerbo ci addebita per trarsi rapidamente in disparte.
E per finire, ecco i punti precisi che restano stabiliti. I: Io ho detto che a noi pervenne la notizia della telefonata a San Giacomo, come pare dell’onorevole Acerbo, ma che in ogni modo ci si garantiva partita dal suo Gabinetto. II: Che con tale telefonata si avvertiva di tener pronto un letto, non si sa per chi, ma per un ferito che doveva venire da Grotte Rosse. III: Che a Grotte Rosse vi furono i carabinieri a cercare qualche cosa e che di tali ricerche non si è mai data notizia ai giornali se non da noi al ritorno dell’inutile gita notturna. IV: Che in quella sera all’ospedale di San Giacomo vi erano moltissimi carabinieri (non certo per la disciplina dei malati), uno dei quali ha scritto anche una lettera all’ “Avanti”. L’onorevole Acerbo dice di non aver telefonato; sta bene e noi prendiamo nota. Occorrerebbe ancora che ci dicesse se esclude che dal suo gabinetto sia stato telefonato e ci spiegasse come a San Giacomo sapessero dei carabinieri si trovavano davvero.
Quanto all’accusa di essere diventato poliziotto dilettante, lanciatami dall’onorevole Acerbo, debbo dirgli che ciò non sarebbe accaduto se i suoi amici politici, Marinelli, Dumini, Cesare Rossi, non avessero fatto assassinare e assassinato Matteotti e se sotto il suo sottosegretariato fosse esistita una polizia degna di questo nome. Della mia modesta opera in questa occasione, mi onoro e mi glorio».
Sull’interrogatorio del generale Emilio De Bono. Il Giornale d’Italia rivelò che il generale De Bono avesse denunziato il giornale ministeriale Epoca, «per i trafiletti che trattavano della sua deposizione dinanzi alla Sezione d’accusa, e che si riferiva all’azione da lui svolta come capo della polizia per i primi accertamenti del delitto Matteotti».
Il comando della Milizia fascista rivelò l’interrogatorio, cui era stato sottoposto il generale De Bono.
«L’interrogatorio è durato a lungo, dalle 9,30 fin dopo le 15. Ma s’intende facilmente come non poteva essere breve. Si trattava di chi, quando il Matteotti fu ucciso, era alla Direzione generale della Pubblica Sicurezza, e quindi dovesse del delitto ricevere le prime notizie e disporre le ricerche nel primo periodo, il più interessante, per lo scoprimento dei responsabili. Avviene anche che alcuni degli attuali imputati vantino di essere stati al servizio di quella Direzione generale, ed anche questo è un punto importante da chiarire. Il Dumini, per esempio, pare fosse un assiduo frequentatore del Viminale. Per concessione di chi? A quali fini? Non pretendiamo di conoscere quali siano stati gli argomenti sui quali il magistrato ha creduto d’interrogare il generale De Bono. Notiamo soltanto come egli, per l’ufficio allora occupato, possa essere in grado di offrire al magistrato inquirente, un materiale eccezionalmente ampio, che può forse illuminare sull’opportunità di nuove investigazioni».
Il Sereno: «Colla deposizione del generale De Bono si chiude ufficialmente la prima fase dell’istruttoria. I magistrati inquirenti, dopo quanto ha deposto l’ex-direttore generale della P. S., hanno deciso di tornare a Regina Coeli a muovere nuove contestazioni agli imputati. Naturalmente il primo ad essere interrogato sarà il Rossi, poiché buona parte della deposizione riguarda appunto l’ex-capo dell’Ufficio Stampa della presidenza, e molte saranno le contestazioni che gli verranno messe. Il Rossi completerà cosi i suoi interrogatori, nei quali tiene a che tutto quanto dice venga verbalizzato. Dopo il Rossi verranno interrogati gli altri».
Sempre in merito alla deposizione del generale De Bono, il Corriere d’Italia credette di poter aggiungere, in riferimento a Cesare Rossi, che il De Bono conosceva soltanto la sua attività quale capo dell’ufficio stampa. De Bono avrebbe aggiunto che venne a conoscenza della ipotetica «Ceka» del Viminale solo dopo il delitto Matteotti.
Ed il giornale clerico – fascista aggiunse che «si potrebbe presumere che nel suo interrogatorio il De Bono abbia fornito ampi lumi sui concetti che guidarono la sua azione personale quale direttore della P. S. ed in rapporto al delitto Matteotti».
L’analisi de Il Popolo. Il Popolo, prendendo motivo dalla ricorrenza della trigesima della scomparsa di Matteotti, riepilogò le risultanze dell’istruttoria:
«A trenta giorni dopo il delitto, non sarà inopportuno dare un quadro sintetico di quanto è emerso dall’istruttoria.
Molti punti appaiono oggi chiariti in modo indiscutibile. Altri invece rimangono avvolti nell’ombra ed è su questi ultimi specialmente che fermiamo la nostra attenzione. Sul modo col quale il delitto è stato compiuto, non apparo dubbio. Tuttavia, per maggiore chiarezza, ne ridaremo una sommaria descrizione.
Catturato il Matteotti, gli assassini lo trasferirono nell’automobile. Subito avvenne una lotta feroce colla vittima. Gli fu vibrato un primo colpo di pugnale, ma siccome la vittima si dibatteva ancora, gli assassini devono aver condotto a termine il delitto. Abbiamo già detto le ragioni che fanno ritenere che il corpo del Matteotti fu oscenamente sfregiato dai feroci assassini.
L’automobile procedette veloce verso la macchia di Vico, ma a questo punto cominciano le prime ombre riguardo alla fine del cadavere».
Numerose le ipotesi avanzate, che non portarono alla soluzione del caso.
«Noi per conto nostro abbiamo risposto esaurientemente, documentando l’esistenza di una Ceka perfettamente organizzata, che aveva il suo centro al Viminale e propaggini in tutta Italia, ed agiva, naturalmente, per fini nazionali».