La prigionia spoglia l’uomo del suo attributo più sacro: la libertà. Dallapiccola esplorò gli abissi oscuri ed insondabili, attratto quasi da una fascinosa stregoneria. La libertà è analizzata nell’aspetto maggiormente cupo di realtà esistenziale e fisica: la prigione, quale luogo d’ispirazione fantastica per il Compositore. La cella, la porta chiusa, le sbarre alle finestre diventano luoghi e oggetti di un mito, mentre la curiosità si fissa sul Prigioniero e sull’antagonista, il Carceriere, il quale nell’esercitare la sua professione, privando la libertà altrui, ne subisce la medesima sorte, costretto a vivere il proprio ufficio nella prigione. Mentre ne Canti di prigionia, si manifestò soprattutto l’aspetto positivo del binomio carcere – libertà dei martiri, i quali affermavano la libertà attraverso il sacrificio della libertà individuale, nel Prigioniero egli adotta, quale chiave di lettura, la sadica psicologia del tiranno e del carceriere, il quale partecipa, in qualche modo, alla conformazione dell’aureola, che ingioiellerà il capo del martire.
∴
«Volo di notte» rappresentò il debutto di Luigi Dallapiccola nelle vesti di operista, avvenuto nel 1940. Dopo una pausa durata dieci anni, il Compositore tornò all’esperienza teatrale con «Il prigioniero», tratto dai Racconti crudeli di Villiers de l’Isle Adam, La torture par l’espérance, rappresentato il 20 maggio 1950 presso il Teatro Comunale di Firenze.
Dallapiccola fa sfoggio di ogni sorta d’articolazione contrappuntistica nella trattazione dodecafonica: due intermezzi corali, una ballata, un’aria in tre strofe, tre ricercari, i quali sono concepiti nella continuità drammatica del declamato vocale e del discorso musicale.
Nel Prologo, la Madre, davanti a un velario nero, trepida per l’attesa visita al figlio carcerato, esprimendo l’angoscia dei suoi presentimenti, e narrando nella Ballata il sogno, che ogni notte la opprime. In fondo ad un antro quasi buio ed interminabile, le appare la figura funebre del tiranno: Filippo il Gufo, figlio dell’Avvoltoio, il Re che turba il mondo a causa del suo fantasticare. Indossa un giubbetto senza maniche, il tosone d’oro al collo, poggiante la pallida fronte ad una vetrata, la quale ha il potere di trasformarlo spaventosamente: le guance si scavano, i capelli cadono, le occhiaie si sostituiscono agli occhi: egli è mutato nella Morte. Nell’Intermezzo corale, checonclude il Prologo e porta alla prima scena, è caratterizzato da voci interne, le quali cantano l’accettazione e la lode del volere di Dio: Fiat misericordia tua, Domine, super nos. Quemadmodum speravimus in Te. Sacerdotes tui induantur justitiam. Et sancti tui exultent.
E’ il crepuscolo, quando si apre lentamente il velario nero su un’orribile cella nei sotterranei dell’Oficial di Saragozza, che ospita il Prigioniero, con accanto la di lui madre. Egli le racconta che nella disperata solitudine del carcere ha vissuto un’unica esperienza di umana solidarietà, quando il Carceriere lo ha chiamato Fratello. Quell’inaspettata parola gli ha infuso la giusta cognizione, al fine di pregare. La reazione della Madre è di estremo sconforto: ella dubita delle parole del Figlio, ricordandogli le tante torture, a cui è stato sottoposto, ed il testo della preghiera, che recitava quotidianamente. Purtroppo, resta il suo terribile presentimento, nonostante i positivi presagi: perderà suo figlio. L’arrivo del Carceriere, che congederà la visitatrice, è annunciato da un sordo rumore; egli appare nel vano della porta con una lampada accesa, e si rivolge al Prigioniero, chiamandolo ancora una volta Fratello, la cui soluzione melodica sarà uno dei nuclei dell’opera: un intervallo ossessionante, in cui è davvero difficile distinguere l’umanità dall’ipocrisia. Il Carceriere, nell’Aria in tre strofe, lo esorta a sperare, informandolo che nelle Fiandre la rivolta sta trionfando contro la tirannia spagnola colla conquista di Flessinga da parte dei Pezzenti, i quali si apprestano ad estendere la loro prova di forza fino a Roelandt, dove la storica campana, che Carlo V aveva ordinato di staccare, rintoccherà in segno di libertà. Poco prima di congedarsi, invita, ancora una volta, il Fratello a sperare nell’agognata libertà. Rimasto solo, ed ancora frastornato dalle parole di speranza del Carceriere, il Prigioniero improvvisamente si accorge dell’insolito spiraglio di luce, che filtra nell’oscurità della cella; forse la porta è stata lasciata opportunamente socchiusa. Il Prigioniero allora si precipita fuori; cala la tela ed un breve intermezzo sinfonico conduce alla terza scena. Egli ora striscia nel sotterraneo dell’Oficial di Saragozza, per raggiungere l’aria aperta e quindi la libertà. La scena è composta musicalmente in tre Ricercati: «super Signore, aiutami a camminare»; «super Fratello», costruito sempre sulla medesima cellula melodica, e «super Roelandt». Nel Secondo Ricercare, appaiono due Sacerdoti (uno dei quali è il Carceriere), che discorrono tranquillamente di questioni teologiche, quando improvvisamente la conversazione si arresta su esplicita richiesta di uno dei due, perché gli sembra di aver udito qualcosa. Il Carceriere allora interviene provvidamente, rassicurandolo che tutti i prigionieri non possono fuggire dalla cella, cui sono destinati, in attesa l’indomani di essere giustiziati. Egli è così convincente che riprende la conversazione incamminandosi nuovamente. Il Prigioniero trae così un larghissimo sospiro di sollievo e riprende la sua lenta e pericolosissima fuga, incoraggiato da una leggera brezza, che gli accarezza le mani: la porta dovrebbe essere vicina. Prima di compiere l’estremo passo verso la libertà, invoca Dio: «Signore, aiutami a salire!»; quindi schiude la porta, accolto da un rintocco profondo della campana di Gand: Roelandt, annunciante la fine del regno di Filippo. Cala la tela, mentre un coro di voci interne declama: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam.
L’ultima scena è corredata da una nota del Compositore:
«La sonorità del Secondo Intermezzo Corale dovrà essere formidabile; ogni spettatore dovrà sentirsi letteralmente travolto e sommerso dall’immensità del suono. A tale scopo non si esiti, se necessario, a servirsi di mezzi meccanici (altoparlanti ecc.)».
Il dramma precipita verso la soluzione finale. Il Prigioniero, sbucato in un giardino primaverile, vede in lontananza delle montagne, simbolo della libertà, mentre il coro interno continua a salmodiare la lode di Dio. Egli, dopo tanta oscurità, sembra quasi inebriato dalla bellezza della natura. Arrivato nei pressi di un grande cedro lo abbraccia con convinzione, quasi a ringraziare Madre Terra di tanto spettacolo, quando si sente riabbracciato ed una voce lo chiama: Fratello. Stavolta non è l’amico Carceriere, ma il Grande Inquisitore, che aveva incontrato durante la fuga, il quale lo rimprovera con dolcezza:
«Alla vigilia della tua salvezza, perché mai ci volevi abbandonare?»
L’indomani, il rogo avrebbe purificato l’eretico, perché l’anima sia salva; infatti il Prigioniero stava perdendo definitivamente se stesso, ma grazie alla vigile attenzione del Grande Inquisitore, il quale incarna il Buon Pastore, attraverso il rogo potrà redimersi. Ormai il Prigioniero si avvede della terribile illusione, di cui è stato vittima:
«S’è fatta luce… Vedo! La speranza, l’ultima tortura…».
Egli è preso per mano dal Grande Inquisitore, per condurlo in fondo alla scena; un nuovo Coro si aggiunge al momento drammatico: Languendo, gemendo, o Domine Deus, il cui tema è tratto dalla Preghiera di Maria Stuarda dai Canti di prigionia. La salmodia coprono gli ultimi terribili singulti della vittima, il quale, prima sbigottito ed incosciente, poi dubbiosamente interrogativo ripete: «La libertà…La libertà»