Delitto Matteotti: le tragiche commistioni col delitto di don Luigi Minzoni; nel racconto della stampa dell’epoca

Venerdì 4 luglio 1924, il quotidiano La Stampa aprì con la notizia del sequestro di tutte le cassette di sicurezza di proprietà degl’imputati del delitto Matteotti. Fu posta maggiormente l’attenzione sul caso di Filippo Marinelli, segretario amministrativo del Partito Fascista, al quale fu espropriata la cifra di un milione di lire oltre ad oggetti preziosi d’ingenti valore. Quale sarebbe stata la provenienza di sì ricco possedimento, considerate le origini assai umili dell’inquisito?

Giovanni Marinelli (1885 – 1924)

Il Sereno commentò: «Noi ci meravigliamo come ancora il magistrato non abbia proceduto al sequestro di tutte le carte che esistono alla direzione del Partito Fascista. Siamo sicuri che se il magistrato l’avesse fatto, una qualche prova specifica riguardo al delitto, fra le carte del Marinelli l’avrebbe certamente trovata. Il lento procedere dell’istruttoria preoccupa grandemente coloro che desidererebbero, e cioè la grande maggioranza del pubblico, che tutti i colpevoli, mandanti ed esecutori, venissero smascherati.

Filippo Naldi (1886 – 1972)

Il magistrato ha permesso a qualche imputato di scrivere. Così Pippo Naldi ha scritto una lettera alla sua signora con la quale rivelandole tutte le pene e gli affanni per la… disavventura capitatagli si augura che presto venga rimesso in libertà provvisoria. Il Naldi si raccomanda che gli venga sempre recapitata con puntualità la biancheria

II Calassi ha scritto ad un amico, lamentando di non aver denaro per acquistare al bettolino il vitto e per avere una camera a pagamento.

Una lettera del Filippelli è stata sapientemente censurata».

Aldo Finzi (1891 – 1944)

Nei corridoi di Montecitorio, si mormorava a proposito di un memoriale scritto da Aldo Finzi «che doveva essere pubblicato e che sarebbe in possesso di cinque persone, le quali avevano ricevuto un mandato molto preciso. Ma le complicazioni attese non sono avvenute e la pubblicazione integrale è stata scongiurata.

La stessa sezione di accusa, a conoscenza di queste voci, ha raccolto in questi giorni un’altra importante deposizione di un testimone, il quale avrebbe informato i magistrati inquirenti del modo e da chi era riuscito a conoscere il contenuto del famoso Memoriale.

Intanto, ieri, nel pomeriggio, i giudici inquirenti per l’assassinio di Matteotti hanno voluto sentire anche il dottor Donati, direttore del giornale “Il Popolo”, che in questi giorni è venuto annunziando e giornalisticamente illustrando tutta una serie di fatti, di circostanze, di episodi attinenti al delitto Matteotti, o agli scandali più generali che il delitto stesso ha portato alla luce».

Secondo II Giornale d’Italia, «il direttore del “Popolo” avrebbe deposto sulle rivelazioni pubblicata dal suo giornale intorno alla direttissima Bologna-Firenze.

Possiamo assicurare che l’indiscrezione del confratello romano è assolutamente fantastica; tuttavia, per quel generoso riserbo che si impone in tali delicate circostanze, ci asteniamo anche solo dal riferire quali siano stati i punti sui quali il nostro direttore ha disposto».

Alberto Cianca (1884 – 1966)

La Voce repubblicana confermò l’interrogatori da parte degl’inquirenti, cui sarebbero stati sottoposti il generale De Bono ed il direttore del Mondo, Alberto Cianca.

Il quotidiano del Partito Repubblicano dette nota a proposito della misteriosa contessa o “contesse” del Viminale.

«In verità di queste contesse ne abbiamo viste parecchie entrare ed uscire dal Viminale, come se si fossero trovate a casa loro; ne ricordiamo una che si vantava di far allontanare i prefetti come soldatini di piombo, e di far impartire ordini dalla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, con la stessa facilità con la quale i suoi dentini mangiavano pasta e biscotti. Ne ricordiamo alcune di queste contesse che avevano sempre bisogno di mille lire e riuscivano quasi sempre a trovarle.

Lo scandalo provocato dal delitto Matteotti in questo piccolo mondo blasonato, ha fatto l’effetto di un colpo di zappa in un nido di formiche.

La nostra ”contessa del Viminale” è una donna dalle forme giunoniche, con abbondante chioma, di un’eleganza lussuosa, e profumatissima, accompagnata di solito da due preziosi cani pechinesi, che paiono due idoletti esotici messi accanto ad una deità. E’ sposata con un alto ufficiale dell’esercito, da cui vive separata.

Mentre il marito tempo fa alloggiava in una pensione, il cui nome fu fatto dalla cronaca per contravvenzione di smercio di stupefacenti, la signora viveva in un suo appartamento, in una delle maggiori vie di Roma, non molto lontana dal Viminale. Dall’inverno scorso la contessa frequentava regolarmente un funzionario eminente del Viminale, che riveste un’altissima carica nella Milizia fascista. La donna vantava il grande ascendente che esercitava sul suo amico. I Fascisti di un’elegante spiaggia tirrena debbono infatti ricordare che la contessa fu presentata lo scorso anno dall’alto personaggio durante una breve sosta estiva, come persona di famiglia, e la coppia fu anche ospite del Fascio. Si afferma che alla preparazione e redazione del decreto sulle bische, la contessa del Viminale ebbe una grandissima parte. Fu la molla della quale si servirono noti biscazzieri per raggiungere il loro intento, e molte difficoltà furono da lei spianate.

Durante la guerra essa aveva lavorato in esoneri spacciandosi per grande amica di un alto ufficiale. Fece anche la spoletta fra una nobile contessa autentica e un principe straniero, e questa sua attività le fruttò un richiamo dalla Questura. Il nome della “Contessa del Viminale” fu fatto recentemente in un processo a carico delle truffe con i vaglia.

La “Contessa del Viminale” prima della guerra viveva modestamente, poi le sorti mutarono, e con gli affari vennero i quattrini, il lusso, le toilette, le cene in compagnia dei suoi protetti e protettori, nei ristoranti di mode, le soste notturne nei tabarin, fra le danze e lo champagne, e poi venne l’automobile non sua, ma assai di frequente a sua disposizione. L’automobile, cioè, dell’alto personaggio del Viminale.

Che cosa ha da dire questa donna alla giustizia a proposito del delitto Matteotti?»

Si riapre il caso dell’uccisione di don Giovanni Minzoni? Suscitò molte attenzioni il comunicato della Federazione del Clero a proposito di un’azione coercitiva ad opera di Amerigo Dumini contro don Giovanni Minzoni, ucciso nel 1923, inviato al Procuratore del Re di Ferrara:

Amerigo Dumini (1894 – 1967)

«Dalle pubblicazioni di qualche giornale appare fondatissimo il dubbio che il famigerato Amerigo Dumini, imputato dell’omicidio dell’onorevole Matteotti, debba essere altresì l’autore materiale del sacrilego omicidio compiuto la sera del 24 agosto 1923 nella persona di don Giovanni Minzoni, decorato con medaglia d’argento al valore, anima nobilissima di sacerdote italiano.

Durante le indagini per identificare l’autore dell’esecrando delitto, si parlò infatti, nei pubblici fogli, di individui ricercati a Bellaria, presso Rimini i quali sarebbero stati coinvolti nell’esecrato delitto. A Bellaria si fecero dall’autorità giudiziaria dei sopralluoghi, che però non condussero, disgraziatamente, a risultati positivi.

Oggi non può fare grande impressione la notizia che Amerigo Dumini, verso la fine di agosto del 1923, si recava a Savignano a compiere le sue imprese criminali di sopraffazione, con un’automobile proveniente da Bellaria, ove in questi giorni egli risiedeva sotto il falso nome di Gino Bianchi. E’ più che probabile che esista un rapporto tra il Dumini e quel tale ricercato dalle autorità a Bellaria nei giorni susseguenti al delitto e, se questo rapporto esistesse, se il Dumini tra i suoi 14 o 15 omicidi confessati, avesse sulla coscienza anche quello del compianto don Minzoni, giustizia vuole che si ricerchino coloro che da Bellaria chiamarono costui ad Argenta a compiere su di uno sconosciuto l’impresa infame.

Questa Giunta direttiva della Federazione tra le Associazioni del clero, che nel settembre scorso, nel suo congresso tenuto a Genova, solennemente promise d’interessarsi per ogni via, affinché giustizia fosse fatta contro gli esecutori ed i andanti dell’atroce delitto su di un sacerdote innocentissimo e degno di universale venerazione, si sente in dovere d’invitare la S.V. date le nuove circostanze sopravvenute, a riesumare la pratica dell’assassinio di don Minzoni, che, con sommo scandalo per la pubblica moralità, è rimasto impunito, e portarla vigorosamente a fondo, ora specialmente che giustizia si è promessa dall’augusta parola del Re e del Governo contro tutti i delitti che hanno inquinato la vita pubblica italiana. Troppe di queste procedure si sono vedute troncate, con dolorosa sorpresa del pubblico, anche quando, come nel caso nostro, la pubblica opinione additava a nome i colpevoli, perché non si debba cogliere il momento psicologico favorevole per cercare di fare davvero luce e giustizia. E luce e giustizia chiede alla S.V. tutto il clero d’Italia, per messo della sua massima organizzazione».

Emilio De Bono (1866 – 1944)

A tal proposito, Il Popolo chiamò direttamente in causa il generale De Bono, ex direttore generale della Pubblica Sicurezza, «il quale direttamente investito dalla stessa Federazione del clero delle circostanze sospette in cui si svolsero le indagini dei carabinieri e quelle della Questura e le criminose pressioni esercitate dai fascisti locali contro tutti coloro che potevano favorire l’opera della giustizia, dopo aver mandato sul luogo un ufficiale inquirente, lasciò senza risposta il memoriale e non diede alcun seguito alla circostanziata e documentata denuncia della Federazione.

Gravi accuse, suffragate da elementi obiettivamente importanti, indicarono come patrono degli indiziati dell’assassinio di don Minzoni un’alta personalità fascista, la cui implicazione potrebbe spiegare sufficientemente la mancata opera del generale De Bono e della magistratura inquirente di Ferrara».

Le indagini. Nessuna novità sul ritrovamento del cadavere di Matteotti, che, secondo quanto pubblicato dal Popolo sarebbe stato «mutilato orrendamente e bruciato in un formo crematorio del Policlinico di Roma, «da cui sarebbe partito alle ore 5 del pomeriggio del giorno 13, sopra un carro funebre gratuito, scortato da fascisti armati. Soggiungiamo che, sempre dalla voce pubblica, si denuncia un segreto massonico, che circonderebbe la cremazione avvenuta in un apposito forno del Verano, gestito da (una non precisata) Loggia massonica.

Il mistero del cadavere è uno dei capisaldi delle ricerche giudiziarie ed esercita nella coscienza pubblica un’impressione sinistra, che non può essere cancellata fino a che la patente omertà che la circonda non sarà definitivamente spezzata.

Crediamo anche noi che la chiave di questo sinistro mistero sia De Bono. Perché l’ex direttore generale della Pubblica Sicurezza non è stato ancora interrogato?»

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