Pietro Metastasio a Vienna

Dopo l’avvenuta nomina a Poeta cesareo nel 1730, il Metastasio si trasferì nella capitale dell’Impero, accasandosi presso uno stabile di Piazza dei Gesuiti di proprietà del napoletano Niccolò Martinez, Cerimoniere del Nunzio Apostolico presso la Corte Viennese, di cui sarà padrino della terza figlia, Marianna, che diverrà l’ultima delle sue fide amiche ed a cui lascerà l’ingente eredità.

Il nome di Marianna sembrava tornare come una fortunata cabala: Marianna Benti Bulgarelli detta la Romanina, che lo aveva favorito all’inizio della carriera di poeta teatrale; Marianna d’Althann che tanta parte aveva preso nella nomina a poeta cesareo ed infine Marianna Martinez, consolazione degli ultimi anni.

Affrontò diligentemente il delicato rapporto con l’anziano predecessore, Apostolo Zeno, a cui rivolse una lettera, scusandosi per il ritardato arrivo, ricorrendo alla sua nobile diplomazia.

«Non credeva di poter aver maggior titolo di rispetto per V. S. Illustrissima di quello che m’imponeva il suo nome, che da me fu, dal principio de’ miei studj, insiem con tutta l’Italia, venerato; ma ora mi si aggiunge una inescusabile necessità; poiché senza taccia d’ingrato non posso dissimulare di dovere alla generosità sua tutta la mia fortuna. Ella mi ha abilitato, e, facendosi da me ammirare ed imitare, mi ha sollevato all’onore del servizio Cesareo col peso considerabile della sua approvazione; onde, ardisco di lusingarmi che, riguardandomi come un’opera delle sue mani, seguiti a proteggere, quasi in difesa del suo giudizio, la mia pur troppo debole abilità, ed a regolare a suo tempo la mia condotta, facendomi, co’ suoi consigli, evitare quegli scogli che potrebbe incontrare chi viene senza esperienza ad impiegarsi al servizio del più gran Monarca del mondo. La confessione di questi miei obblighi verso di V. S. Illustrissima e le speranze che io fondo nella sua direzione sono finora note a tutta la mia Patria, e lo saranno perfin ch’io viva, dovunque io sia mai per ritrovarmi, unico sfogo della mia verso di lei infruttuosa gratitudine. Non essendomi prescritto tempo alla partenza, ho creduto che mi sia permesso di differirla fino alla quaresima ventura. Ho spiegate prolissamente a Sua Eccellenza il Signor Principe Pio le cagioni di tal dilazione. Supplico V. S. Illustrissima ancora a sostenerli, perché io possa venire senza il seguito di alcun pensiero noioso, quando però sia questo di pienissima soddisfazione dell’augustissimo padrone; e, baciandole umilmente le mani, le faccio profondissima riverenza».

Il suo arrivo fu preceduto dalla composizione di un dramma sacro su musica di Antonio Caldara, La passione di Cristo, per essere eseguito durante la Settimana santa nella Cappella imperiale. Il Metastasio profuse tesori di poesia, assaporando i primi trionfi ed iniziando così il veloce oblio della lirica dello Zeno. Egli arrivò probabilmente nel mese di luglio inoltrato e fu ricevuto dall’Imperatore, Carlo VI, come racconta in questa lettera, indirizzata all’amico romano, Giuseppe Peroni.

«Tornai martedì all’udienza, per ordine del padrone, a Laumburgo; assistei alla tavola; pranzai col signor Principe Pio, e poi, alle tre dopo il mezzogiorno, fui ammesso alla formale udienza di Cesare.

Il Cavaliere, che m’introdusse, mi lasciò sulla porta della camera, nella quale il padrone era appoggiato ad un tavolino, in piedi, con il suo cappello in capo, in aria molto seria e sostenuta. Vi confesso che, per quanto mi fossi preparato a quest’incontro, non potei evitare, nell’animo mio, qualche disordine. Mi venne a mente, che mi trovava a fronte del più gran personaggio della Terra, e che doveva esser io il primo a parlare; circostanza, che non conferisce ad incoraggine. Feci le tre riverenze prescrittemi, una nell’entrar della porta, una in mezzo della stanza, e l’ultima vicino a Sua Maestà, e poi posi un ginocchio a terra; ma il clementissimo Padrone subito m’impose d’alzarmi, replicandomi: alzatevi, alzatevi. Qui io parlai, con voce non credo molto ferma, con questi sentimenti:

Io non so, se sia maggiore il mio contento la mia confusione nel ritrovarmi a’ piedi di Vostra Maestà Cesarea. E’ questo un motivo, da me sospirato fin da’ primi giorni dell’età mia, ed ora non solo mi trovo avanti il più gran Monarca della terra, ma vi sono col glorioso carattere di suo attual servitore. So a quanto mi obbliga questo grado e conosco la debolezza delle mie forze, e se potessi, con gran parte del mio sangue, divenir un Omero non esiterei a divenirlo. Supplirò per tanto, per quanto mi sarà possibile, alla mancanza di abilità, non risparmiando in servigio della Maestà Vostra attenzione e fatica. So, che per quanto sia grande la mia debolezza, sarà sempre inferiore alla clemenza della Maestà Vostra, e spero che il carattere di Poeta di Cesare mi comunichi quel valore che non ispero dal mio talento.

A proporzione che andai parlando, vidi rasserenarsi il volto dell’Augustissimo Padrone, il quale, infine, assai chiaramente rispose:

Era già persuaso della vostra virtù, ma adesso io sono ancora informato del vostro buon costume e non dubito che non mi contenterete in tutto quello che sarà di mio Cesareo servizio, anzi mi obbligherete ad esser contento di voi.

Qui si fermò ad attendere, se io voleva supplicarlo di altro; ond’io, secondo le istruzioni, gli chiesi la permissione di baciargli la mano; ed Egli me la porse ridendo e stringendo la mia; onde io, consolato da questa dimostrazione d’amore, strinsi, con un trasporto di contento, la mano Cesarea con entrambe le mie, e le diedi un bacio cosi sonoro, che poté il Clementissimo Padrone assai bene avvedersi che veniva dal cuore. Vi ho scritto minutamente tutto, perché approvo la vostra curiosità ragionevole in questo soggetto».

E’ del settembre 1730, la lettera, indirizzata a Giuseppe Riva ministro del Duca di Modena presso la Corte Imperiale, allora a Lintz, con cui il Metastasio illustra la vita spensierata, che già conduceva in Vienna, dimentico quindi degli antichi affetti.

Dal 1731, il colloquio epistolare con l’antica amica e compagna Bulgarelli fu improntato ad una sana e lungimirante diplomazia. Dalla lettera, scritta il 27 gennaio, rileviamo che la Marianna scriveva ogni settimana:

«Ricevo – egli scriveva – questa mattina le lettere non solo della presente, ma anche della scorsa settimana e mi sollevo dalla malinconia, che, nella mancanza di quelle, mi avea assalito pel sospetto che qualche anima pia si fosse impiegata a scemarmi la pena di leggerle, prevenendomi alla posta».

Assente alcuna circostanza affettiva, il Metastasio si raccomandava di vivere serenamente; mentre in una lettera del 12 maggio, il Poeta ringraziava la gentildonna per aver espresso preoccupazioni riguardanti la sua salute. Nonostante ciò, la cantante nutriva sofferenza nei riguardi di Pietro, immaginandolo chissà in quale contesa amorosa immischiato, che le provocava giustificati sentimenti di gelosia.

Il 28 agosto 1731, andò in scena la Festa, Enea negli Elisi ovvero Il tempio dell’eternità su musica del Fuchs presso il Giardino della Favorita per il genetliaco dell’Imperatrice Elisabetta. Il Poeta riprendeva il primo tema cortigianesco, stabilendo la discendenza di Carlo VI da Enea, figlio di Anchise, e di Venere, che la Bulgarelli interpretava per Metastasio nella D’Althann.

Nella quaresima del 1731, Pietro compose per la Settimana santa l’oratorio Sant’Elena al Calvario e poco dopo, presentò il primo dramma al Teatro di Corte a Vienna, informandone, qualche giorno dopo l’andata in scena, la Bulgarelli:

«Domenica scorsa andò in iscena il mio Demetrio, con tanta felicità che mi assicurano i vecchi del Paese, che non si rammentano un consenso così universale. Gli ascoltanti piansero alla scena dell’addio. L’Augustissimo Padrone non fu indifferente, e non ostante il gran rispetto della Cesarea Padronanza, in molti recitativi il teatro non seppe trattenersi di dar segni della sua propensione. Quelli ch’erano miei nemici sono divenuti miei apostoli. Non vi posso spiegare la mia sorpresa, perché essendo questa un’Opera tutta delicata, e senza quelle pennellate forti, che feriscono violentemente, io non speravo che fosse adattala alla nazione. Mi sono ingannato. Tutti mostrano d’intenderla, e ne dicono i pezzi per le conversazioni, come fosse scritta in tedesco. Il Padrone, incominciò dalla fine del primo atto ad assicurarmi del suo Cesareo gradimento, e poi lo dimostrò a tutti spiegandosene con tutti quelli, co’ quali ne ha parlato.

La musica è della più moderna, che faccia il Caldara, ma non ha tutta la fortuna appresso il mondo incontentabile. Le scene, belle….

Ed eccovi tutta la relazione, la quale non scriverei, se non a voi, perché altri che voi non mi prendesse per fanfarone».

Il favore, che il Demetrio incontrò presso l’imperatore Carlo VI, fu taciuto all’antica amica; ricordiamo che con la Prammatica Sanzione, l’Imperatore avesse disposto, fin dal 1713, la successione di una delle figlie, non avendo prole maschile. Egli pensava alla tredicenne Maria Teresa e quindi s’impegnava ad educare il popolo sulle qualità di comando di alcune donne. Il compiacente Metastasio, già dal primo atto del Demetrio, introduce Cleonice, regina di Siria, che ragiona con un spasimante di matrimonio, evidenziando la perfetta padronanza della situazione. Essendo in preparazione le nozze tra Maria Teresa e Francesco di Lorena, il Metastasio prepara gli eventi.

CLEONICE. Basta, Olinto, non più. Fra pochi istanti

Al destinato loco

Il popolo inquieto

Comparir mi vedrà. Chiede ch’io scelga

Lo sposo? il Re? Si sceglierà lo sposo;

Il Re si sceglierà. Solo un momento

Chiedo a pensar. Che intolleranza è questa,

Importuna, indiscreta? I miei vassalli

Sì poco han di rispetto? A farmi serva

M’innalzaste sul trono? o v’arrossite

Di soggiacere a un femminile impero?

Pur l’esempio primiero

Cleonice non è; senza rossore,

A Talestri, a Tomiri

Servì lo Scita, ed in diverso lido

Babilonia a Semira, Africa a Dido.

I consiglieri politici della Siria ammirano le qualità di Cleonice, così come i funzionari di Carlo VI avrebbero dovuto avere in pregio le qualità di Maria Teresa. Fenicio, grande del Regno, dice a Cleonice:

Oh, tu non sai

Quanta fede è nei tuoi! Nel gran Consesso

Tutta si palesò. Chi del tuo volto,

Chi del tuo cor, chi della mente i pregi

A gara rammentò. Chi tutto il sangue

Offerse in tua difesa.

L’onesta Bulgarelli, conosciuto il successo, che aveva riscosso il Demetrio in Vienna, s’impegnò, perché fosse rappresentato a Roma, domandando al Poeta alcuni avvertimenti per la scena:

«Cleonice – egli scrive – comincia a piangere al verso: va, cediamo al destino; e quando è arrivata alla parola anima mia, non deve più poter parlare, se nonché interrotta dal pianto, e, con questa interruzione ed affanno, ha da terminare il recitativo. Alceste si alza da sedere, e s’inginocchia al verso: perdono, anima bella, oh Dio, perdono; e poi s’alzano entrambi al verso: sorgi, parti, s’è vero, ch’ami la mia virtù. Quest’ordine io ho tenuto, ed ho veduto piangere gli Orsi. Fate voi».

Nella stessa lettera, il Metastasio fornisce alla donna le istruzioni per la messa in scena dell’Issipile, che, nel 1832, s’era dato a Vienna, ricevendo felicitazioni da Carlo VI per l’ottima riuscita:

«Finita l’ultima recita dell’Issipile, l’augustissimo Padrone, nello scendere dalla sua sedia, mi venne all’incontro, ed, in presenza di tutta la Corte, ebbe la clemenza di mostrare d’essere contento della mia fatica, esprimendosi che l’Opera era bella molto, ch’era assai ben riuscita e ch’egli era di me sodisfatto. Grazia tanto più distinta, quanto difficile ad ottenere dal nostro Padrone, così sostenuto in pubblico che, quando si degna di farla, è certamente fatta a bello studio, e non a caso. Vi dico tutto, perché, malgrado la vostra affettata indifferenza su la mia persona, spero, anzi credo certamente, che v’interessi all’estremo tutto ciò che mi riguarda».

Nonostante i buoni riscontri dell’Imperatore, il pubblico non avrebbe poi mostrato così tanto entusiasmo verso uno dei drammi più poveri d’interesse e più nel solco della commedia che della tragedia. L’attività letteraria era assai intensa ed il Poeta non poteva licenziare lavori sempre magnificamente riusciti.

Sempre nel 1732, iniziò a comporre l’Olimpiade, che rimarrà uno dei drammi maggiormente sentiti, che sarebbe stato fonte anche di un magnifico sonetto, inviato alla Benti Bulgarelli il 6 giugno 1732.

«Eccovi – egli scriveva – un Sonetto morale, scritto da me nel mezzo d’una scena patetica, che mi moveva gli affetti; onde, ridendo di me stesso, perché mi ritrovai gli occhi umidi per la pietà di un accidente inventato da me, feci l’argomento ed il discorso nella mia mente, che leggerete nel Sonetto. Il pensiero non mi dispiacque, e non volli perderlo, tanto più che serve per argomento della mia esemplare pietà.

Leggetelo, e, se vi pare fatelo leggere. Dopo averlo composto mi è venuto, al solito, uno scrupolo; ed è che l’undecimo ed il decimo verso spieghino una proposizione troppo generale:

ma quanto temo o spero

Tutto è menzogna.

Non vorrei che un secca-polmoni potesse dirmi: Non temete voi l’inferno?

Non sperate voi in Dio benedetto? Or Dio benedetto e l’inferno sono a parer vostro menzogne? È vero che io potrei rispondergli: Signor Pinco mio da seme, io so meglio di voi, che Dio e l’Inferno sono verità infallibili, e se non fosse questa la mia credenza, non mi raccomanderei a Dio come faccio nella chiusa. E le speranze ed i timori, di cui si parla nel Sonetto, sono quelli che procedono dagli oggetti terreni. Vedete che la risposta è assai solida, ed il contravveleno si ritrova nel Sonetto medesimo; nulla di manco ho voluto mutare l’undecimo verso, per meglio spiegare di quali timori e speranze m’intendo di parlare.

L’ho cambiato; l’ho fatto sentire; e trovo che, non solo a me, ma a tutti gli altri piace ancora più la prima maniera, ed in quella ve lo scrivo, aggiungendo nel fine del Sonetto il verso mutato, per vostra sodisfazione, e per contentare alcuno che vi trovasse le difficoltà mie».

Ecco il sonetto:

Sogni e favole io fingo, eppure in carte,

Mentre favole e sogni orno e disegno,

In lor (folle che son!) prendo tal parte,

Che del mal che inventai, piango e mi sdegno.

Ma, forse, allor che non m’inganna l’arte,

Più saggio io sono? E l’agitato ingegno

Forse allor più tranquillo? forse parte

Da più salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle ch’io canto o scrivo

Favole son; ma quanto temo o spero,

Tutt’è menzogna, e, delirando, io vivo.

Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

Fa ch io trovi riposo in sen del vero.

Forse il sonetto fu redatto nell’attimo indeciso tra l’amore e lo sdegno, trovando rifugio nel porto sicuro della fede, luogo comune ai neoplatonici ed ai petrarchisti. I sentimenti di amicizia espressi nell’Olimpiade tra Megacle e Licida, entrambi innamorati della medesima donna, Aristea, figlia del re di Sidone, albergavano nell’animo del Poeta, trovando la commozione nell’esaltazione lirica. La passione per la d’Althann è possibile rintracciare nei versi, in cui ritrae se stesso:

Avea

Bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri

Vermigli sì, ma tumidetti, e forse

Oltre il dover; gli sguardi

Lenti, e pietosi, un arrossir frequente;

Un soave parlar….

L’amore per la gloria è insito nei seguenti versi declamati da Magacle ad Aristea:

In me non dicesti

Mille volte d’amar, più che il sembiante,

Il grato cor, l’alma sincera, e quella

Che m’ardea nel pensier, fiamma d’onore?

Del resto, il Poeta versava la sua interiorità nei personaggi dei drammi, come scriveva alla Benti Bulgarelli il 4 luglio 1733 a proposito del suo carattere incerto ed incline al dubbio.

«Mi volete suggerire un soggetto per l’Opera che ho da cominciare?

Sì, no? Io sono in un abisso di dubbj. Non ridete, con dire: la malattia è negli ossi; perché la scelta di un soggetto merita bene questa agitazione, e questa incertezza. La fortuna mia è che bisogna risolversi assolutamente, e non vi è caso d’evitarlo. Se non fosse questo, dubiterei fino al giorno del giudizio, e poi sarei da capo. Leggete la terza scena del mio Adriano. Osservate il carattere che fa l’Imperatore di se stesso, e vedrete il mio. Da ciò si conosce, che io mi conosco, e non per questo, mi correggo».

Nella terza scena del secondo atto dell’Adriano in Siria, si mostra il turbamento dell’imperatore diviso tra le passioni amorose per l’antica Sabina, cui dovrebbe ricongiungersi e la nuova Emirena, che lo ha conquistato onde il lamento di Sabina:

Abbandonar mi vuoi;

Hai coraggio di dirlo; in faccia mia,

Ostenti la beltà che mi contrasta

Del tuo core il possesso, e non ti basta?

Pretenderesti ancora.

Per non vederti afflitto,

Ch’io facessi la scusa al tuo delitto?

E dove mai s’intese

Tirannia più crudele? Il premio è questo,

Che ho da te meritato?

Barbaro! Mancator. Spergiuro! Ingrato!

Sarebbero dovuti essere interpretati quali lamenti della Benti Bulgarelli per gli affetti che il Metastasio stava dedicando all’Althann. E così il Poeta – Adriano rispondeva:

Deh ti consola,

Bella Sabina. Ai lacci tuoi felici

Tornerò; sarò tuo.

[…] io più non deggio

Emirena veder. Tempo una volta

È pur ch’io mi rammenti

La mia fida Sabina.

La Bulgarelli – Sabina teme nuovi inganni:

Assai m’ingannasti;

Ingrato, ti basti;

Io stessa non voglio

Vedermi tradir.

La fiamma novella

Scordarti non sai;

T’aggiri, sospiri,

Cercando la vai;

Lontano da quella,

Ti senti morir.

Adriano vorrebbe mostrarsi fedele a Sabina, ma il suo cuore è nelle mani di Emirena, cosicché l’antica amante si ritrae per la gloria di Adriano – Metastasio:

Troppo fatali

Son le nostre ferite; uno di noi

Dee morirne d’affanno; io, se ti perdo;

Tu, se perdi Emirena. Oh, non sia vero,

Che, per salvar d’inutil donna i giorni,

Perisca un tale eroe. Serbati, o caro,

Alla tua gloria, alla tua patria, al mondo,

Se non a me. D’ogni dover ti sciolgo;

Ti perdono ogni offesa;

Ed io stessa sarò la tua difesa.

ADRIANO: Come?

SABINA: Cesare, addio.

ADRIANO: Fermati. Oh grande!

Oh generosa! Oh degna

Di mille Imperi! Ah, quale eccesso è questo

D’inaudita virtù? Tutti volete

Dunque farmi arrossir?

Adriano ammira la grandezza dell’animo di Sabina e, nel contempo, sente il laccio d’amore, che lo avvince ad Emirena, alla quale dichiara, perché si distacchi

Se grata esser mi vuoi, lasciami ormai;

La pace del mio cor poco è sicura,

Finché appresso mi sei. Subito parti,

Io te ne priego

Metastasio sentiva il dovere di rimaner avvinto alla Bulgarelli, da lui tanto amata, ma il fascino della Contessa d’Althann lo aveva finalmente conquistato.

La lettera, in cui il Metastasio scrive alla Benti Bulgarelli – Romanina di riconoscergli il carattere di Adriano, ci è giunta incompleta, forse nella parte, che dimostrava il lato tenero del Poeta, che continua:

«Non vi seccate, se faccio il filosofo con voi. Sappiate che non ho altri con chi farlo, e facendo per lettera, mi risovvengo di quei discorsi di questa specie, dei quali abbiamo passato insieme felicemente tante ore de’ nostri giorni. Oh quanta materia ho radunato di più con l’esperienza del mondo! Ne parleremo insieme una volta, se qualche stravaganza della fortuna non intrica le fila della mia onorata, e faticosa tela…. ».

Il Poeta in questa lettera confesserebbe un leggero malcontento a proposito del soggiorno viennese, immaginando un ritorno in Italia, ma il 18 luglio 1733 esprime umore e propositi diversi grazie ad un nuovo favore imperiale: una grossa prebenda vitalizia di mille e cinquecento fiorini annui. Egli ne informò la Romanina:

«Voi vedete – egli scrive – che la grazia è considerabile pel suo lucro; ma, assicuratevi che l’onore, che mi produce la maniera sollecita, affettuosa, e clemente, con la quale il Padrone si è degnato di conferirmela, sorpassa di gran lunga qualunque utile. Si è dichiarato alla pubblica tavola con uno de’ Consiglieri del Consiglio suddetto di voler ch’io l’avessi, rammentandosi le mie fatiche e presenti e passate; ed è arrivato a dire ch’egli pretendeva questa grazia nel Consiglio per me, e che per giustizia mi conveniva. Questa pubblicità di parzialità dell’Augustissimo a mio favore ha fatto tale impressione che ieri (contro il solito) quando si pubblicò il Decreto, non vi fu alcuno de’ Consiglieri, che ardisse replicare una parola, ma parte dissero seccamente: si eseguisca, e parte escirono nelle lodi della giustizia che il suo padrone mi rendeva. Il più bello è che non mi sono valuto d’una minima raccomandazione per ottener simil grazia, onde la deggio interamente al gran cuore di Cesare, che Dio faccia viver lungamente, e sempre più fortunato e glorioso. Converrà adesso ch’io stringa un poco i denti per le spedizioni, che credo saranno assai dispendiose; poi comincerò subito a rimborsarmi».

Questa è l’ultima lettera indirizzata alla Bulgarelli.

A proposito dell’appannaggio: fu davvero volontà del Cesare o gli fu richiesto un nuovo intervento economico dopo due anni di zelante servizio? Probabilmente pensava di tornare in Italia, tra le braccia dell’antica amante, conservando l’ufficio di Poeta cesareo senza obbligo di permanenza nella capitale. Fu l’amore dell’Althann, la quale, temendo di perdere il Metastasio, si adoperò presso Carlo VI, perché legasse ancor di più il destino del Poeta alla Corte.  La Contessa mosse i suoi felpati passi, perché il Metastasio ricevesse nuovi compensi, come dimostra una lettera, inviata alla Bulgarelli del luglio 1733, in cui confessa di aver saputo dall’Althann la novità: l’Adriano in Siria fu certamente la causa.

Nella mente del Poeta, il ritorno in Italia e tra le braccia della Romanina si sciolsero velocemente.

Il 4 novembre 1733 in occasione dell’onomastico dell’Imperatore, andò in scena il Demofoonte, che narra di nozze clandestine tra la coppia d’amanti, Timante e Dircea, genitori del piccolo Olinto.

Egli incomincia

Già col tenero piede

Orme incerte a segnar. Tutta ha nel volto

Quella dolce fierezza.

Che tanto in te mi piacque. Allor che ride,

Par l’immagine tua. Lui rimirando,

Te rimirar mi sembra. Oh quante volte

Credula troppo, al dolce error del ciglio,

Mi strinsi al petto il genitor nel figlio.

Generò il sospetto che effettivamente avesse contratto matrimonio con la contessa D’Althann.

Timante vorrebbe abbracciare il neonato, ma Dircea afferma:

Affrena,

Signor, per ora, il violento affetto.

In custodita parte,

Egli vive celato; e andarne a lui

Non è sempre sicuro. Oh quanta pena

Costa il nostro segreto!

Timante vorrebbe uscir da quello stato d’incertezza affannosa e risponde:

Ormai son stanco

Di finger più, di tremar sempre. Io voglio

Cercare oggi una via

D’uscir di tante angustie.

L’Imperatore era aggiorno sui rapporti tra il suo Poeta e la Contessa? Aveva concesso loro il permesso oppure costretto i due amanti ad interrompere la tresca? Seguendo i versi del Demofoonte, Carlo VI, saputo dell’amore, concesse il perdono:

Chiamami padre. Io voglio

Esserlo fin che vivo. Era fin ora

Obbligo il nostro amor; ma quindi innanzi

Elezion sarà; nodo più forte.

Nel carnevale del 1734, fu rappresentato a Roma il Demofoonte, che vide la partecipazione tra il pubblico della Romanina, la quale rimase così colpita dalla trama, dalle parole da soffrirne enormemente fino a spegnersi, lasciando parte della sua eredità all’antico amore: Pietro Metastasio.

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