«Il primo amore» di Giacomo Leopardi

L’elegia fu composta nel 1817 a Recanati.

Nel 1816, il Leopardi visse una forte passione per una cugina, la contessa Geltrude Cassi, che, nel mese di dicembre, s’era stabilita in casa del Poeta, dove si sarebbe trattenuta per due settimane.

Egli la definì «alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dall’affettato, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle signore di Romagna e particolarmente delle pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre marchegiane».

Sembra che la Geltrude non si sia mai accorta o forse non abbia corrisposto agli amorosi affetti di Giacomo, che sfogò il suo dispiacere, componendo questa elegia.  Durante il soggiorno, la contessa soleva concedersi delle lunghe passeggiate in compagnia dell’austera marchesa Adelaide Antici verso il Monastero dell’Assunta. In quei momenti, Giacomo fu rapito dall’avvenente bellezza della donna e così, quando terminò il soggiorno di Geltrude, il Poeta subì un durissimo colpo. Fortunatamente gli strali di Eros svanirono presto nel cuore del Poeta, tanto che l’anno appresso, quando ebbe modo di rivedere la donna, non soffrì affatto.

Tornami a mente il dì che la battaglia

D’amor sentii la prima volta, e dissi:

Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!

Che gli occhi al suol, tuttora intenti e fissi,

Io mirava colei ch’a questo core

Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!

Perché seco dovea sì dolce affetto

Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,

Anzi pien di travaglio e di lamento

Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento

Che angoscia era la tua fra quel pensiero

Presso al qual t’era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero

 Ti si offeriva nella notte, quando

Tutto queto parea nell’emisfero:

 Tu, inquieto, e felice e miserando,

M’affaticavi in su le piume il fianco,

Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco

Gli occhi al sonno chiudea, come per febre

Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre

Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi

Moti per l’ossa mi serpeano, oh come

Mille nell’alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! Qual tra le chiome

D’antica selva zefiro scorrendo

Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,

Che dicevi o mio cor, che si partia

Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia

Della vampa d’amor, che il venticello

Che l’aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,

 E i destrier che dovean farmi deserto,

Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,

Ver lo balcone al buio protendea

 L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea

Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;

 La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de’ cavai

E delle rote il romorio s’intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

Strinsi il cor con la mano, e sospirai

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupidamente per la muta stanza,

Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,

Com’è quando a distesa Olimpo piove

Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove

E novi Soli, in questo a pianger nato

Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato

M’era degli astri il rio, o dell’aurora

Questa il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto, cui scaldar tanto solea,

Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

E quelli m’apparian vani per cui

Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,

 E tanto amor mi tolse un altro amore?

Deh quanto in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core

In un perenne  ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.

E l’occhio a terra chino o in se raccolto,

 Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago

Turbare egli temea pinta nel seno,

Come all’aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno

Pentimento, che l’anima ci grava,

E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava

Tuttora il sen: che la vergogna il duro

Suo morso in questo cor già non oprava.

 Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

Che voglia non m’entrò bassa nel petto,

Ch’arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l’affetto,

Spira nel pensier mio la bella imago,

Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago

Il ricordo è ancora vivo, perché quell’emozione così forte voltagli squarciò, per la prima volta, il cuore; e si domandò se l’amore fosse solo dolore ed afflizione. Non osò alzare gli occhi sulla bella immagine, e la contessa non si accorse o forse finse di non accorgersi del Poeta innamorato. L’amore fu assai duro con Giacomo, perché anziché regalargli affetti e le dolcezze, gli recò un desiderio così pieno di dolore, poiché non corrisposto.

Come mai un pensiero così dolce era accompagnato da tanta angoscia e spavento? Eppure Giacomo non trovava altro diletto al di fuori dell’amore per Geltrude. Il pensiero della contessa gli assediava il cuore, come un serpente lo avvolgeva fra spire tenaci, annientando ogni altro interesse. Eppure, pregustava, soprattutto di notte, le gioie di un simile, grande evento: una lotta impari, un assedio, in contrasto con la quiete, che pareva godere l’emisfero avvolto nelle tenebre.

Il cuore era, nello stesso tempo, felice e triste, perché conosceva che mai nulla sarebbe accaduto. I battiti erano così forti, che tormentavano il fianco del Poeta coricato, il quale si girava in continuazione nel letto, cambiando posizione senza mai trovare pace. I fremiti erano così intensi che riuscivano a prevalere sulla più forte stanchezza, procurandogli smanie ed insonnia. Nelle tenebre, chiudeva gli occhi alla ricerca delle immagini più care di lei, mentre il corpo era preda degli spasimi, che si trasformavano in pensieri confusi, dilanianti l’anima instabile, così come il vento antico dell’ovest provoca un incerto mormorio della natura.

E mentre il Poeta non contrastava il terribile fato, non si sarebbe opposto alla partenza della Geltrude, continuando a celarle il suo amore, il cuore si lamentava per un affetto impossibile.

La fiamma un poco alla volta accennava a spegnersi, perché la causa di tanto ardore stava per allontanarsi. La notte, prima della partenza della nobildonna, non riuscì a chiudere occhio; appena l’alba, nel cortile del palazzo paterno, sentiva scalpitare i cavalli, attaccati alla carrozza, che avrebbe ricondotto a Pesaro la contessa Geltrude. Perché Giacomo non agì? L’amore apparteneva ad un universo a lui sconosciuto.  Si recò al balcone e nascosto cercò di vedere forse per l’ultima volta la sua amata, non riuscendovi. Allora, sperò di udirla parlare, ma al suo posto udì la voce del vetturino. Giacomo sperava di udire Geltrude e così il cuore prese a battere ancor più forte; quindi sentì il rumore delle ruote: stava partendo l’amata e con lei partiva il suo amore. Impazzì dal dolore e di rifugiò nel letto, chiudendo gli occhi, mentre la mano portava al cuore, non riuscendo a trattenere un doloro sospiro, provocato dalla partenza. Quindi balzò nuovamente fuori dal letto, in preda ad un orgasmo, ripetendosi quale affetto avrebbe mai potuto sostituirsi ad una sì grande passione. D’allora conservò quegli attimi nei ricordi, chiusi nel petto, mentre il cuore era serrato a qualsiasi aspetto della vita. Il dolore intanto era incessante come la pioggia, che lava la terra. A diciotto anni, ancora non conosceva l’arte di amare e già sentiva di esser destinato all’infelicità affettiva, perché gli erano state negate le delizie dell’amore e tutto era spento d’intorno. Il cielo, l’alba, i silenzi con cui parla la natura e soprattutto l’amore per la gloria tacevano per amore di una donna. Era cessato l’amore per lo studio, che gli appariva inutile, quando prima di cadere nella trappola di Eros, non poteva esistere altro amore più grande: Geltrude.

La vanità si trova dentro di noi, non mai nelle cose d’intorno; ora Giacomo desiderava rinchiudersi nel segreto del suo Io, dove contemplare il suo perduto affetto, perché, per non profanare la candida immagine del primo amore, mai avrebbe rivolto lo sguardo ad alcuna. Il pentimento, per non aver azzardato neanche uno sguardo, sarebbe gravato sull’anima, tramutandosi in un terribile veleno. Non d’altro si pentiva, giacché il suo amore era immacolato: non un atto, non un pensiero vergognoso, per cui avrebbe dovuto provare gli acerbi morsi della coscienza. Non riuscì a vivere quell’amore, solo dal quale sarebbe stato appagato.

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